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Banksy e la natura fuorilegge/criminale dell’arte

L'artista torna protagonista al cinema con L'arte della ribellione, doc che parte da Bristol per fornire le coordinate del clima politico e della scena musicale attraverso cui l'artista si è formato. Dal 24 al 26 maggio al cinema.
di Raffaella Giancristofaro

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venerdì 21 maggio 2021 - Focus

È il 2010 quando il graffiti artist Banksy presenta al Festival di Berlino il suo Exit Through the Gift Shop. Presenta per modo di dire, visto che l’artista non si è mai mostrato al pubblico e che nel film appare incappucciato, con la voce volutamente distorta. Il “suo”, ammesso che si tratti di una persona sola, dato abbastanza implausibile, è un finto documentario e insieme una ricognizione “dall’interno” nel mondo della street art. L’operazione è mediata dal protagonista Thierry Guetta, sedicente cugino del francese Space Invader, creatore di mosaici urbani che ricalcano l’immaginario dell’omonimo videogame. Ma compare anche Shepard Fairey, più noto come l’autore del ritratto di Barack Obama che finirà riprodotto ovunque. Il film si risolve in un gioco ambiguo, in una beffarda illusione che riflette sui paradossi del mondo artistico e registra la dimensione illegale, vandalistica del suo gesto e l’adrenalina che l’accompagna.

Ma la qualità provocatoria e radicale di Banksy aveva già da tempo colpito e fatto notizia, anche in luoghi molto distanti dalle strade di Bristol, dove l’artista ha mosso i primi passi. Dal 2003 infatti – stesso anno in cui un suo disegno di una coppia romanticamente seduta a un tavolino con addosso caschi da palombaro diventa la cover dell’album Think Thank dei Blur – un individuo camuffato da ispettore Closeau, con barba finta, cappello e impermeabile, aveva dato il via a una serie di incursioni in vari musei del mondo.

Il termine inglese stunts le definisce meglio, come qualcosa tra il colpo autopromozionale, il trucco e l’acrobazia. Lo scopo: affiggere sue opere di protesta alle pareti per innescare un corto circuito logico ed estetico con quelle classiche e contemporanee già esposte. E sancire al tempo stesso l’irruzione fulminea e non autorizzata dell’arte non accademica dentro i templi della conservazione: la Tate Gallery di Londra, il MoMa, il Metropolitan, il Museo di Brooklyn e il Museo di Storia Naturale a New York, perfino il Louvre di Parigi vengono “oltraggiati”, per esempio, da un ritratto di dama con la maschera a gas, una lattina di cibo della multinazionale Tesco, un finto frammento antico che raffigura un carrello della spesa. Tutti con relativa targa esplicativa apposta a fianco.

Banksy - L’arte della ribellione - in sala con Adler da lunedì 24 a mercoledì 26 maggio - mette in fila queste ed altre azioni di guerriglia artistica, toccando solo tangenzialmente il tema dell’anonimato che Banksy e il suo team hanno tenacemente costruito in anni di attività.

Al contrario, il regista Elio España, produttore e documentarista di ambito musicale, fondatore con Tom O’Dell dell’indipendente londinese Spiritlevel, riparte da Bristol, città natale dell’artista (o del collettivo che potrebbe celarsi dietro il suo nome), per fornire le coordinate del clima politico (da Thatcher a Blair) e della scena musicale degli anni in cui Banksy si è formato, quella anche della storica opposizione alla cultura dei rave, e tracciare così un profilo più completo del suo percorso.

La parola spesso torna a Banksy stesso, tramite estratti audio di interviste originali, doppiati dall’attore Mark Olgate, ma soprattutto a Steve Lazarides, fotografo, autista, agente e manager di Banksy per un decennio, fino al 2009. E ai suoi compagni di strada (Risk, Scape Martinez, Alan Ket, Felix FLX Braun, ma prevalemente il collaboratore Ben Eine), che con lui hanno condiviso la cultura underground dei primi anni ’90, sperimentando nell’illegalità, grazie al pioniere John Nation, tra tagging, graffiti, stenciling. Con un occhio alla New York di Basquiat e Keith Haring e ispirando a loro volta una nuova onda di guerriglieri del segno in tutto il mondo.

Il teatrale sabotaggio, nell’ottobre 2018, dell’opera "Girl with a baloon" immediatamente dopo essere stata battuta a Sotheby’s è solo uno dei tanti momenti eclatanti di una carriera furiosamente concentrata nel mettere in discussione l’establishment e il significato dell’arte stessa: aprire varchi a colpi di stencil sul muro che divide Israele e Palestina; concepire il lussuoso "Walled Off Hotel" a Betlemme, per puntare l’attenzione su un conflitto ormai metabolizzato; eludere la sorveglianza di Disneyland per introdurre un tetro Mickey Mouse vestito da prigioniero di Guantanamo; inaugurare nel Somerset Dismaland, il parco divertimenti più cupo del mondo; farsi cacciare da Venezia come pittore amatoriale per contestare l’invito mancato della Biennale e il passaggio delle grandi navi in Laguna; battezzare una barca col nome di un’anarchica (Louise Michel) per destinarla al salvataggio dei migranti nel Mediterraneo.

Attivista, antimilitarista, anticonsumista, abilissimo e mascherato comunicatore sui social, tramite tra l’arte e la (gente della) strada: che sia davvero Banksy l’ultimo dei fuorilegge?


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