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La politica degli autori: Ermanno Olmi

Un regista che sta al cinema come Alessandro Manzoni alla letteratura.
di Mauro Gervasini

In foto Ermanno Olmi.
Ermanno Olmi 24 luglio 1931, Bergamo (Italia) - 7 Maggio 2018, Asiago (Italia). Regista del film torneranno i prati.

martedì 4 novembre 2014 - Approfondimenti

Auguriamo a Ermanno Olmi, mentre scriviamo queste righe ricoverato in ospedale, una pronta guarigione. Pensiamo a lui mentre sta per uscire sugli schermi il nuovo film Torneranno i prati, elegia sulla Prima guerra mondiale. Notte da tregenda in trincea durante i violenti scontri del giugno 1917 sugli altipiani, tra i quali quello di Asiago dove da anni il cineasta vive. La montagna, la sua incombente quiete e il folle fragore della guerra. Olmi ancora una volta in mezzo alle macerie della Storia cerca l'Uomo, augurandosi che sia lui a tornare tra quei prati. Ermanno Olmi sta al cinema come Alessandro Manzoni alla letteratura. L'umanesimo di entrambi non si traduce solo nell'attenzione agli umili ma in un respiro provvidenziale. Il regista traduce l'originaria vocazione documentaristica in una sorta di neorealismo spirituale fin dai primi lungometraggi. Il tempo si è fermato (1958) è diretta emanazione del suo più celebre filmato industriale realizzato quando lavorava in Edison, La diga sul ghiaccio (1953). Due uomini, una diga, una montagna. Dopo la diffidenza la stima, in uno scenario naturale con il quale si convive senza supremazia. Ma è soprattutto Il posto (1961), girato a soli 29 anni, a imporre il regista come uno dei più originali dell'epoca. Un giovane di famiglia operaia della provincia di Milano arriva nella città in tumulto per il boom. Un modesto impiego, lui non ha pretese, ma aspirazioni piccolo-borghesi e il sentore di un che di effimero sono già diffusi. Il film vince il premio della critica alla Mostra di Venezia.

L'esordio di Ermanno Olmi resta unico nel panorama del cinema italiano degli anni 60. L'ipoteca neorealista è superata da un intimismo molto personale. Rispetto a Pasolini, Olmi non pensa al Sacro come a una condizione metastorica e non interpreta il cammino degli ultimi come presa di coscienza sociale. Lo sguardo è più minimalista, si concentra su uomini che solo attraverso la semplicità del vivere quotidiano, e in un secondo momento tramite il loro rapporto "ecologico" con la terra, conservano autenticità. Apice poetico in questo senso è ovviamente L'albero degli zoccoli, Palma d'oro a Cannes nel 1978. Ambientato nella campagna bergamasca dove lo stesso regista è cresciuto, recitato in stretto dialetto da attori non professionisti e accompagnato dalla musica di Bach, il film, come ricorda Morando Morandini in una recensione, recupera i grandi temi virgiliani del labor, del fatum e della pietas ma è soprattutto quest'ultima, la pietas, a ispirare lo stile di un autore che racconta il mondo contadino invitando lo spettatore a una comunione ideale, rendendo il suo affresco praticamente senza tempo.

Dopo L'albero degli zoccoli però il cinema del regista un po' si incarta. Nonostante continui a vincere premi internazionali, e al netto di una reverenza quasi religiosa verso la sua figura (cui contribuisce l'attività didattico-pedagogica, con la scuola Ipotesi Cinema fondata a Bassano del Grappa), le opere di Olmi si fanno eccessivamente contemplative e letterarie, con un'"anima" più declamata che davvero evocata dalle immagini. È il caso di Lunga vita alla signora! (1987), storia di un adolescente apprendista cameriere in una metafora programmatica sulla difficoltà del crescere; o di La leggenda del santo bevitore (1989), con il "replicante" Rutger Hauer, da un racconto autobiografico di Joseph Roth reso prolisso e di maniera. Per un nuovo capolavoro bisogna attendere il 2001, con Il mestiere delle armi. Ricostruzione magnifica tra Dreyer, Bresson Rossellini dell'impresa di Giovanni delle bande nere. Il quale difese lo Stato pontificio dall'avanzata dei lanzichenecchi, sullo sfondo della diffusione delle armi da fuoco tra eserciti abituati fino a quel momento a combattere in altro modo. Quella di Giovanni, ferito a morte da un falconetto, diventa per Olmi la "passione" di un uomo integro di fronte a una rivoluzione tecnologica (ma anche etica) che ha la sua avanguardia in nuovi strumenti di morte. Filologicamente ineccepibile, Il mestiere delle armi è soprattutto potente da un punto di vista visivo, rifiuta ogni effetto digitale per restituire del cinema un ideale "materico".

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