Idolatrando il cinema del babbo, è difficile rapportarsi in modo neutro a Sofia Coppola, classe 1971, già attrice in molti film di papà tra i quali i tre Padrini, che l'hanno vista "crescere" nell'arco di un trentennio. Ha talento la cineasta oppure vive di luce riflessa? Percorre un sentiero autonomo o subisce il peso di una dinastia che comprende attori del calibro di Nicolas Cage (cugino), Talia Shire (zia) e ultima arrivata un'altra regista, Gia Coppola (a Venezia con Palo alto, nipote)? Porsi una domanda simile per chi ha addirittura vinto un Leone d'oro a Venezia (seppure controverso: Somewhere, 2010) risulta capzioso. In realtà Sofia Coppola ha saputo imporsi (la condizione di figlia d'arte giustifica la pesantezza del termine) con un suo gusto particolare, addirittura una poetica, parola desueta che però rende bene la combinazione tra ambito di interesse e stile. A partire da Il giardino delle vergini suicide (1999), ispirato lungometraggio d'esordio, l'autrice si concentra sui cosiddetti coming of age, i passaggi da una stagione della vita all'altra. Ed è in prevalenza "il ponte" tra adolescenza e piena maturità a interessarla.

Con l'unica eccezione di Somewhere, storia di un attore di successo (Stephen Dorff) che non trova "satisfaction" nella sua vita randagia, gli altri film di Sofia Coppola sono tutti declinati al femminile. Ragazze interrotte sono le vergini suicide, incapaci di affrontare la modernità dei costumi (negli Stati Uniti degli anni 70) con gli strumenti inculcati da genitori bigotti, interpretati con sinistra adesione da James Woods e Kathleen Turner. Firmando Sofia anche la sceneggiatura, non si può non pensare a un talento fuori dal comune per una storia corale dove ogni personaggio è approfondito in modo originale. Senza contare che Il giardino delle vergini suicide è una tragedia implosa, dove anche le cose peggiori (come il suicidio di cinque fanciulle) avvengono sotto traccia e sotto tono. La figlia del maestro assoluto del melodramma cinematografico si divincola così dal modello ingombrante del padre.

Il suo titolo più apprezzato è però il successivo, Lost in Translation. A dire il vero al centro della scena c'è un uomo, Bob (Bill Murray nella sua migliore prova dai tempi di Ricomincio da capo), decaduto attore americano a Tokyo per girare uno spot. Ma lo sguardo è quello di una giovane donna, Charlotte (Scarlett Johansson), pure lei malinconicamente persa nelle pieghe di traduzioni maldestre, destinata a essere complice di un signore svogliato, disorientato, con il quale ha più di una affinità. In punta di macchina da presa, Sofia dimostra di sapere valorizzare anche questa volta le piccole cose, con la certezza che in un racconto non esistano persone comuni o banali. Lost in Translation è un successo commerciale notevole: costato 5 milioni di dollari ne incassa 45 solo negli Stati Uniti.

Più ambizioso Marie Antoinette (2003), ritratto in chiave punk della giovane regina decapitata dalla Rivoluzione e impersonata con irriverenza da Kirsten Dunst. Arriva invece nelle sale italiane dal 26 settembre il nuovo film Bling Ring. Si torna all'estetica del gruppo: ancora cinque adolescenti (ma uno è un ragazzo) che depredano le case dei vip di Los Angeles portando via oggetti status symbol, tutti superflui ma costosi (imprese ispirate alla realtà: i veri giovanissimi ladri hanno arraffato refurtiva per tre milioni di dollari). Il film non è forse del tutto risolto, ci pare sconti il confronto impari con Spring Breakers di Harmony Korine, del quale non ha la caotica energia "generazionale". Tuttavia Sofia Coppola conferma di avere la non comune capacità di aderire e capire i personaggi, senza giudicarli, cogliendo bene le aspirazioni di questi ragazzi (una parte per il tutto) che aspirano all'effimero di una età adulta proiettata verso il nulla.