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Storia "poconormale" del cinema: puntata 126

Una rilettura non convenzionale della storia del cinema. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

In foto una scena tratta dal film di Mario Martone Noi credevamo.

venerdì 5 agosto 2011 - Focus

I grandi titoli
Per il nostro cinema il nuovo millennio è un'epoca infelice. La tendenza è quella della discesa, e della stagnazione. Lo si deve a molte ragioni e questa non è una piattaforma abbastanza grande per un'analisi corretta. Non c'è dubbio che c'entri la politica, sempre più invadente, e il meccanismo perverso dei finanziamenti, comunque legati alla politica. C'entra poi il compromesso fra qualità e mercato, che non si riesce mai a trovare. Secondo la mia misura dei grandi Premi, il decennio duemila e l'appendice del 2001 portano al nostro cinema un unico riconoscimento nobile, La stanza del figlio, di Moretti, Palma d'oro. Non fa una grinza. È certo un film da Gran Premio. L'ultimo.

Targa
Dovendo cercare una misura, o una targa, o un riferimento, ricorro ai David di Donatello, certo un riconoscimento autoctono, "costretto" a premiare il cinema italiano. Ecco i vincitori del decennio: Pane e tulipani (Soldini); Il mestiere delle armi (Olmi); La finestra di fronte (Ozpetek); La meglio gioventù (Giordana); Le conseguenze dell'amore (Sorrentino); La sconosciuta (Tornatore); La ragazza del lago (Molaioli); Gomorra (Garrone); L'uomo che verrà (Diritti). Trattasi di titoli discreti, promettenti, normali, niente di più. Qualcosa è stato enfatizzato come si fa coi prodotti ... solo normali, appunto. Si può cogliere qualcosa di diverso, di positivamente anomalo ne L'uomo che verrà di Diritti. Per il resto niente è all'altezza delle altre epoche. C'è di più, nell'era recente non siamo neppure più entrati nelle nomination dei grandi premi. Abbiamo sperato in Gomorra, ma abbiamo dovuto registrare che il movimento internazionale era annoiato dalla ... solita Italia.

Positivo
La fine del primo decennio e l'inizio del nuovo, portano qualcosa di nuovo e positivo, sembrerebbe il segnale di una nuova tendenza. È auspicabile. C'è un film che catalizza molti significati. È un bel film, dunque ha colto impreparato il movimento, la critica, i distributori. È stato ignorato, incredibilmente, a Venezia, ma era davvero impossibile perseverare e così i David sono corsi ai ripari, attribuendo a Noi credevamo, di Mario Martone, tredici nomination e sette statuette. Riproduco una parte del pezzo che ho scritto sull'argomento:
"...Faccio parte della giuria del Donatello. Non è che significhi molto, siamo oltre un migliaio. Dunque non posso che condividere che abbia prevalso Noi credevamo, un film sul quale mi ero speso. A suo tempo, quando uscì, feci qualcosa che faccio raramente, parlai bene, molto, di un film italiano. Ecco due stralci da quel pezzo. "... Noi credevamo è un film di contro-epica che finisce per essere epico. È certo potente, saltuariamente grande, non perfetto, perché nessun film lo è. Rifugge, e non è piccolo merito, dai canoni italiani. La genetica teatrale del regista lo porta a dare il meglio nel kammerspiel, nello spazio stretto e scuro della prigione, dove i carbonari si svelano nell'intimo e nella sofferenza. Forse si spiega e si parla troppo ma c'è il soccorso della passione. E comunque una ventina di minuti, dei 170, potevano essere stralciati. Ribadisco il concetto della non italianità e della potenza. Non ci siamo più abituati e meno male per questo promemoria. Da tempo rilevo qualche segnale italiano, quasi sempre piccolo, che per speranza e passione cerco di rilanciare come auspicio. Martone ha tradotto l'auspicio. Il regista non è un gigante, li abbiamo conosciuti, e Noi credevamo non è un'opera generale, le abbiamo viste, ma qui c'è più di una promessa. E pur trattandosi di storia in assoluto italiana, forse si farà accettare dal movimento internazionale, senza mafie e camorre. Finalmente..."

Il 2011 sarà segnato da un altro titolo all'altezza. Del solito Moretti, l'autore garante, l'eterna sicurezza, Habemus papam. Un altro promemoria, parte della lettera aperta che ho scritto al regista.

"... In un mio intervento di una settimana fa, chiamiamolo preventivo, prima di vedere il film, avevo espresso perplessità, sempre preventiva, sulla capacità del cinema di affrontare argomenti immani, come la fede. La mia idea è che non ne abbia la cultura né la potenza. Che apparterrebbero ad altre categorie, come la letteratura, o la filosofia. Poi il cinema si attribuisce tutte le licenze e tutte le franchigie. E così lo psichiatra Moretti può deridere tutto e tutti partendo da un assunto che afferma per due volte nel film "io sono il più bravo di tutti", e può puntare deciso sulla sua superiorità ideologica (di ateo darwiniano). In virtù di questa franchigia-licenza, e della libertà assoluta del cinema, e sua, io sono fra quelli che attribuiscono al film 4 stelle (su 5), e non 2 o 2 e mezzo, come hanno fatto molti, anche amici suoi..."
Adesso... stiamo in attesa.

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