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Daniele Luchetti, intimità e politica

Intervistato in Salento, il regista parla del suo prossimo film. Sulla sua famiglia.
di Giovanni Bogani

In foto il regista romano Daniele Luchetti.
Daniele Luchetti (63 anni) 26 luglio 1960, Roma (Italia) - Leone.

martedì 2 agosto 2011 - Incontri

Con Mio fratello è figlio unico, Daniele Luchetti aveva saputo raccontare in modo nuovo, con estrema partecipazione umana, senza contrapposizioni facili e scontate, destra e sinistra, fascisti e comunisti degli anni '70. E aveva rivelato una volta per tutte il talento nervoso, l'intensità di Elio Germano. In La nostra vita, premiato a Cannes, aveva di nuovo esplorato le macerie sociali in cui l'Italia vive. Lo sbando pasoliniano che ancora esiste, nelle pieghe di una società ancora arcaica, borgatara e verniciata di modernità.
Adesso, Luchetti pensa a un altro racconto. Intimo e politico. Racconterà gli anni '70, i più caldi della nostra storia recente, dal punto di vista di una famiglia. La sua. Una famiglia "fasciocomunista". Ce lo racconta a Ostuni, dove è ospite del Salento Finibus Terrae. Il festival, diretto da Romeo Conte, è itinerante fra le cittadine del Salento. Quest'anno ha fra i suoi ospiti Amy Gilliam, figlia di Terry Gilliam, e produttrice degli ultimi suoi film, l'attore Giorgio Colangeli, rivelazione "matura" del cinema italiano – dopo vent'anni di teatro, il cinema lo ha scoperto e ne ha fatto un'icona. E ha celebrato un omaggio a Mario Monicelli, con la presenza di Chiara Rapaccini, pittrice e illustratrice di libri per bambini, compagna per molti anni del regista. Intanto, ci facciamo raccontare da Luchetti il nuovo progetto.

Che cosa racconterà, nel prossimo film?
"Ho imparato una cosa: che quando restringi l'obiettivo, il focus del tuo racconto, il film cresce. E quando cerchi di raccontare tutto, il film diventa piccolo. Così, voglio raccontare una storia piccola. La mia. Quella della mia famiglia negli anni '70".

Che tipo di famiglia era?
"Una famiglia divisa. I nonni paterni artisti, idealisti, comunisti. Mio nonno era pittore, aveva raggiunto una discreta fama dipingendo manifesti dei film. Da parte di mia madre invece erano commercianti, conservatori, ex fascisti. In fondo, è dall'incontro di entrambi questi mondi che si è prodotta la stirpe che chiamiamo italiani".

Quali saranno i toni del film?
"Non pesanti: sarà una commedia, che racconta un'estate degli anni '70 vissuta da un ragazzo con la sua famiglia".

Quindi, una specie di romanzo di formazione...
"Direi quasi un romanzo di de-formazione. Alla fine dei romanzi tradizionali, il ragazzino cresce. Qui il personaggio, alla fine del film, vorrei che decidesse di non crescere".

Che cosa vuol dire non crescere?
"Per esempio, rifiutarsi di credere alla contrapposizione manichea che mette fascisti da una parte, comunisti dall'altra. Nella mia famiglia fascisti e gente che aveva fatto la Resistenza, ed era anche finita nei campi di concentramento, si sono mescolati in un nucleo solo. È difficile per me dividere i buoni dai cattivi".

Racconterà anche i grandi eventi di quegli anni, il terrorismo, le battaglie politiche, il rapimento di Moro?
"Saranno solamente uno sfondo. La chiave del film è quella degli affetti".

Ci sono affetti "di destra" e "di sinistra"?
"Insospettabilmente, nella mia famiglia il lato affettuoso era dalla parte 'di destra'. La parte 'di sinistra' mi chiedeva invece molto, in termini di performance, scolastica e non. Erano molto esigenti".

Con chi sta ultimando di scrivere la sceneggiatura?
"Con Stefano Rulli e Sandro Petraglia, e con una giovane, Caterina Venturini".

Dai suoi esordi, sotto l'ala di Renzo Rossellini e della scuola Gaumont, insieme a Rubini, Piccioni, Procacci, ha fatto molta strada, fino al premio a Cannes. Come è cambiato il suo stile?
"Prima ero un cinéphile: facevo cinema perché guardavo molti film. Oggi mi sembra di fare film perché guardo molto la gente. Non mi interessa la bella inquadratura: lo stile segue il racconto. Penso che oggi, con il digitale, con le attrezzature 'leggere', si sia finalmente realizzato il sogno di Zavattini e De Sica: pedinare i personaggi, seguire la realtà passo passo. Prima era solo un sogno. Adesso è possibile".

Lei ha avuto molto successo come regista di pubblicità, fino alla recente campagna per "3" con Raoul Bova. Altri spot in vista?
"No: forse sono passato di moda, come regista di spot! O forse ci sono troppi giovani bravi, capaci di fare spot con budget minuscoli. Anche il mercato della pubblicità è cambiato radicalmente".

A cinquant'anni, che bilancio traccia di metà carriera?
Ride: "Beh, penso di aver fatto troppo pochi film, di essermi perso fra traslochi, progetti non finiti e mille altre cose. Vorrei essere più produttivo, da ora in poi".

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