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Fra culto della vita e culturismo dell'immagine

Una sfida lunga 127 ore per Danny Boyle.
di Edoardo Becattini

James Franco in una drammatica scena del film 127 ore di Danny Boyle.
James Franco (James Edward Franco) (46 anni) 19 aprile 1978, Palo Alto (California - USA) - Ariete. Interpreta Aron Ralston nel film di Danny Boyle 127 Ore.

lunedì 21 febbraio 2011 - Approfondimenti

Choose Life. Dall'elenco dei valori borghesi rifiutati dall'eroinomane Mark Renton di Trainspotting ai ricordi che sostengono la lotta per la sopravvivenza di Aron Ralston, intrappolato nel fondo di un canyon per 127 ore, i giovani protagonisti dei film di Danny Boyle condividono tutti il medesimo comandamento: scegli la vita. Che ad essere in pericolo sia la loro stessa esistenza (The Beach), quella della donna amata (The Millionaire), o le sorti di una nazione e del mondo intero (28 giorni dopo, Sunshine), i suoi personaggi scorrono assieme lungo un filo rosso che fa dell'isolamento estremo la strada per la scoperta dell'umanesimo e della sua forza. Un calvario fisico, morale o nozionistico che anticipa la rivelazione di un sentimento di solidarietà e di amore universale. Certo, non si tratta di un percorso particolarmente originale se messo a confronto coi vecchi romanzi di formazione del cinema classico. Ma quello che Boyle condivide coi suoi protagonisti è proprio questo gusto per la sfida, questo agonismo di chi non si accontenta di cambiare continuamente genere e stile visivo, ma che scrive e dirige per tramutare ogni racconto edificante in un'esperienza visivamente aggressiva e radicalmente pop. Chi ama e chi odia i suoi film lo fa per le medesime ragioni: per il progetto di un cinema programmaticamente "giovanile" nei contenuti e nella forma, mutuato dalle varie espressioni estetiche più in voga del momento, dal videoclip alla presa diretta, dalla tv ai videogiochi, dall'underground a Bollywood. Comunque la si pensi, la sua attenzione per la contemporaneità viaggia veloce come il suo occhio, così come la metodica devozione con cui le sue immagini cercano di carezzare tanto l'inferno che il paradiso (vedi la spiaggia thailandese di The Beach) o di propagarsi per contagio come il virus di 28 giorni dopo hanno una loro forza. Culto della vita e "culturismo" delle potenzialità del cinema, quindi; perché è sempre dall'imposizione di confini e barriere che si trovano nuovi sentieri e nuove frontiere per l'immagine.

L'effetto MacGyver
Sintetizzare in modo avvincente e convincente i cinque giorni di tormento del giovane scalatore che nel 2003 rimase incastrato fra le strette cavità di un canyon con solo gli utensili del suo zaino a garantirgli sopravvivenza, è certamente una sfida per la messa in scena, anche se non delle più ardue. Ben più radicale è, in questo senso, la scenografia della bara in cui Rodrigo Cortés ha ambientato tutto il suo Buried. E, d'altro canto, ben diverso è stato il destino di un altro giovane autarchico in cerca di una fusione con la natura selvaggia come il Christopher McCandless raccontato da Sean Penn in Into the Wild. Nell'epoca in cui le fiction dispiegano 24 ore in tempo reale e i film esibiscono mutilazioni senza tagli o autocensure, la storia vera di Aron Ralston non può bastare da sola a costituire lo shock visivo e la sua attitudine alla spinta frenetica richiede uno sforzo ulteriore. Un passaggio che Boyle decide di interpretare come un'invenzione di MacGyver. Come il popolare agente della serie tv degli anni Ottanta era capace di costruire qualunque cosa con il semplice aiuto di un coltellino svizzero, così il regista britannico pare imporsi l'invenzione del film a partire da quel piccolo quanto ampio e poliedrico strumento che è una videocamera digitale e attraverso di esso costruire immagini di vario cromatismo e definizione. Se per Danny Boyle il cinema è uno sport estremo, il digitale è la sua ghiandola di adrenalina, ciò che gli consente di tenere alto il ritmo e di tradurre in serie (attraverso più sequenze) e in parallelo (con l'ausilio dello split screen), i vari piani di realtà della sua avventura. Solo un linguaggio elastico, duttile e soprattutto estremamente "contemporaneo" in termini di resa estetica come quello numerico può destreggiarsi fra buio e luce, deserto e pioggia, sogni e ricordi, e al tempo stesso contribuire efficacemente a mantenere elevato il battito cardiaco ed evitare la disidratazione narrativa. Anche se sarà impossibile ripetere l'exploit di The Millionaire, vero e proprio manifesto della post-globalizzazione del nuovo millennio, a guardare la lista degli invitati alla notte degli Oscar, la nuova sfida pare vinta anche stavolta. Come i suoi personaggi, Boyle pare aver scelto la vita: una formula di successo fatta di sperimentazione e manierismo, ottimismo e crudeltà, "tirando avanti, lontano dai guai, in attesa del giorno in cui morirai".

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