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Storia "poconormale" del cinema: il comico (5)

Una rilettura non convenzionale del cinema secondo Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

Puntata 69
Jacques Tati (Jacques Tatischeff) 9 ottobre 1907, Saint-Germain-en-Laye (Francia) - 4 Novembre 1982, Parigi (Francia).

venerdì 18 giugno 2010 - Focus

Puntata 69
È alto, un po' scoordinato, va in giro con un impermeabile sdrucito, spesso con un ombrello ed è perennemente a disagio. È a disagio perché è il mondo circostante a costringerlo. E quel disagio diventa comicità, grande. Costui è Jacques Tati, un maestro, un inventore, un altro. Per uno che si chiama Jacques Tatischeff e che ha tentato la strada del rugby con un successo appena discreto, cercare di fare l'artista a Parigi non è semplice. Jacques nasce da una famiglia russa emigrata e dopo aver corso e preso botte con la palla ovale decide che farà del cinema. Semplifica il suo cognome stralciando la seconda parte e si chiama Tati. Cerca uno sbocco nei musical parigino, ma per uno abituato a correre e a placcare sul campo, non è semplice mimare e ballare. Così tenta con la regia. Anche negli anni trenta ci si facevano le ossa coi "corti". A proprie spese ne scrive e realizza molti. Ma senza sbocchi. Non trova una strada, non trova un percorso. Nel frattempo studia. Visiona i grandi del muto, soprattutto Keaton, e i poi i Marx. Così cerca una mediazione fra culture, e può lavorare su un terreno fertile, lui, russo diventato francese, attento agli americani. Possiamo chiamarla gavetta, oppure esperimenti. Come un Glenn Miller che dopo tanti tentativi di armonia classica trovò l'equilibrio con la prevalenza degli ottoni, Tati trovò la formula che lo avrebbe fatto diventare Tati.

Hulot
Il film era Le vacanze di monsieur Hulot, del 1952. Jacques aveva già 43 anni. Nel film Hulot propone nella sua chiave ingenuo-grottesca, i riti della vacanza al mare. La spiaggia, le conchiglie, il sole, i bagni, i picnic. C'è davvero qualcosa di nuovo e il titolo ha un grande successo, dovunque. È nato un grande comico. Poi naturalmente c'è la città con altri riti ancora più articolati e disumani. Una sequenza: Hulot è in attesa del metro, è in ottima posizione, arriva altra gente ma lui continua ad essere in prima fila. Ecco la in fondo la carrozza. Hulot comincia ad agitarsi, con frenesia sempre maggiore. A poco a poco è ingoiato dalla massa in attesa, sempre più grande e sempre più dinamica. Tutti salgono dandosi spallate, Huolt è ormai fra gli ultimi, è ultimo. La porta si chiude e lui è l'unico rimasto fuori. La speranza è che riesca a salire sul prossimo metro.

La sua visione del mondo si esprime, in chiave più evoluta e sottile in Play Time. Senza parole Tati rappresenta la nevrosi dell'automatismo. Qualche reminiscenza del Chaplin di Tempi moderni non manca, ma Tati la esaspera proprio nel silenzio, mostrando se stesso alle prese con metalli, vetri fontane automatiche, automatismi che azzerano tutto l'umano. La rappresentazione del suo personaggio, disarmato e vessato alla mercé di tutto è stata letta anche in chiave di ideologia. Ma tutto può essere letto in quella chiave. Rimane l'intelligenza e la leggerezza del sorriso indotto. È un patrimonio importante, che tutti gli dobbiamo.

Faccia
Quasi tutto dipende da quella "faccia da cavallo" che Fernand mostra fin da molto piccolo. È marsigliese e suo padre ha velleità artistiche, gli piace cantare e ballare, ma il pubblico gradisce poco. Significa che non potrà aiutare il figlio in quella carriera, dunque Fernand Joseph Désiré Contandin deve sbrigarsela da solo, e prima di diventare Fernandel fa il commesso, lo scaricatore, il cassiere finché prova a sua volta a cimentarsi in teatro, col fratello maggiore Marcel. Fra i due quello che ha più carattere, per via di quella "faccia" è il minore, che trova un ruolo importante nella rivista Vive le nu e, come deve succedere quando nascerà una stella, viene notato da uno importante. Quello importante è Marc Allegret, regista, che offre a Fernandel una parte nel film Il bianco e il nero, protagonista il mostro sacro Raimu. Per il giovane marsigliese è l'inizio di una carriera che lo vedrà partecipare a centocinquanta film.

Quella "faccia" portava in sé significati e possibilità diverse. Naturalmente prevaleva il "comico", ma poteva funzionare in altri ruoli, persino opposti, oppure ambigui. Un altro nome decisivo del percorso di Fernandel è il regista Julien Duvivier che lo ha diretto in Carnet di ballo, titolo importante. Duvivier sceglie Fernandel per la parte di Don Camillo, nel primo film di quella serie magnifica. Era il 1952, dunque piena guerra fredda e pieno contrasto fra comunisti e democristiani. Guareschi aveva inventato due caratteri, Peppone e don Camillo, che sapevano trovare una mediazione popolare, ingenua e vitale fra culture e ideologie che certo non si amavano. Il sindaco comunista di Brescello Peppone (Cervi) e il prete, in nome del loro ruolo si fanno di dispetti, ma si vogliono bene. Certo, roba italiana di allora. Ma gli autori che firmano i film italiani di adesso, e delle stagioni recenti (e meno recenti) dovrebbero studiare con molta attenzione quei Don Camillo e Peppone. Potrebbero persino fare dei buoni film, soprattutto potrebbero riprendersi un pubblico che li ha, giustamente, abbandonati.

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