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American Stranger: il cinema di Monte Hellman

Intervista al regista di Road to Nowhere.
di Luisa Ceretto

Monte Hellman
Monte Hellman 12 luglio 1929, New York City (New York - USA) - 20 Aprile 2021, Palm Desert (California - USA).

lunedì 2 novembre 2009 - Incontri

In attesa del ritorno di Monte Hellman sul grande schermo con Road to Nowhere, previsto nel 2010, si è appena conclusa, a Bologna, la retrospettiva dedicata al regista newyorchese, promossa da Cineteca di Bologna, Regione Emilia-Romagna, in collaborazione con Associazione Circuito Cinema di Modena, Museo Nazionale del Cinema di Torino – Fondazione Maria Adriana Prolo, e Cinemateca Portuguesa. Dieci rarissimi titoli, nove regie e un'escursione come produttore per lanciare l'esordio di Quentin Tarantino, Le iene, pellicole che, dopo la tappa bolognese, saranno programmate a Modena, a Torino e a Lisbona. Già attore e montatore televisivo, Monte Hellman fa il suo debutto nella regia nel 1959, alla corte di Roger Corman, cimentandosi con l'horror, Best from haunted cave.
Dopo aver diretto un B-movie di ambientazione asiatica, Flight to Fury (1964), successivamente firma Le Colline blu (Ride in the Whirlwind, 1965) e La sparatoria (The shooting, 1967) con Jack Nicholson e Warren Oates, due western "esistenzialisti". Nel 1971 dirige quello che è stato definito il suo capolavoro, Strada a doppia corsia (Two-lane Blacktop) un road-movie, dove i personaggi si lanciano a tutta velocità su quella strada che non conduce da nessuna parte, quella road to nowhere, che dà il titolo alla pellicola che uscirà il prossimo anno. Tre anni dopo è la volta di Cockfighter (Gallo da combattimento), sui combattimenti di galli, una pellicola che non risparmia sangue e truculenza, eppure ha sullo sfondo la profonda solitudine e diversità del suo protagonista, temi che ritornano in tutta la filmografia hellmaniana.
Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37, 1978), è una riflessione "sul modo in cui si costruiscono le leggende, e su come queste sono distrutte dalla Storia". Girato tra Lanzarote e Roma, Iguana (1988) è ambientato in un Ottocento remoto e immaginario.
La rassegna costituisce l'occasione per mostrare l'opera di un cineasta poco noto in Italia. Hellman è un regista difficilmente classificabile, la sua non appartenenza ai gruppi lo ha condotto in un percorso spesso ai margini del mean stream.
Come osserva Michele Fadda, curatore della monografia edita per l'occasione, American Stranger. Il cinema di Monte Hellman: la sua è una carriera "che in cinquant'anni, con pochissimi film realizzati (e sempre costretti a fare i conti con le esigenze della produzione e della distribuzione), si è svolta sotto il segno di un'originalità impermeabile a ogni definizione a priori, preconfezionata. Certo, da un lato, il suo apprendistato alle dipendenze di Roger Corman – come montatore e regista – sembrerebbero inserirlo a pieno titolo all'interno della New Hollywood, al pari di colleghi quali Coppola e Bogdanovich. Dall'altro lato, però, lo sviluppo improprio della sua esperienza registica segna uno scarto rispetto agli esiti raggiunti dal nuovo cinema americano nel suo complesso, in fondo già a partire dagli anni Sessanta. Anche per questo, come osserva Kent Jones, Hellman è stato in genere considerato un oddity, un'eccezione alla norma all'interno della ristrutturazione del cinema americano degli ultimi quarant'anni". Presente a Bologna per incontrare il pubblico, abbiamo rivolto a Monte Hellman alcune domande:

Lei ha mosso i suoi primi passi nella regia, nella factory di Roger Corman. Ce ne vuole parlare?

Ho cominciato a lavorare nel cinema occupandomi di spedizioni, e prima ancora lavoravo in uno studio televisivo, che un tempo era stato lo studio di Charlie Chaplin, Liliane Gish, Douglas Fairbanks. All'inizio avevo cominciato pulendo i depositi, erano talmente polverosi che quando entravo, tossivo per ore. Un giorno stavo andando a pranzo, quando vidi un uomo, di poco più grande di me, che stava girando un film a Griffith park, un'area verde, dove era consentito filmare.
Ero invidioso di quel regista, era Roger Corman... un giorno, finalmente, ebbi la fortuna di lavorare con lui. Mi ha ispirato in molti modi, ma soprattutto sono due le regole che mi ha insegnato e che trovo fondamentali: non avere la preoccupazione del budget, fare film con quello che si ha a disposizione. E ancora: quando la produzione lamenta l'eccessiva lunghezza della pellicola, è sufficiente togliere due fotogrammi, uno prima della giunta e l'altro dopo. Così facendo, è possibile risparmiare dieci minuti di film, un lungometraggio di due ore, diventa di un'ora e cinquanta minuti.
Pensare a Roger Corman, mi fa venire in mente il passato a cui guardo con nostalgia.
Un momento unico nel suo genere e forse anche allora...ripensandoci. Era un momento speciale in cui si potevano realizzare film, parlando e conoscendo una sola persona, Roger Corman col suo studio; non c'era neppure bisogno di redigere un contratto, bastava una stretta di mano. Adesso coi grandi studios, bisogna parlare coi pezzi grossi, non c'è più la possiblità di avere un rapporto diretto con un referente, ce ne sono almeno una dozzina... Ha esordito cinquant'anni fa ed ora sta terminando il suo nuovo film, Road to Nowhere. L'avvento di nuove tecnologie ha rivoluzionato il modo di fare cinema, cosa ne pensa?

Non sono un tecnofobo, mi ritengo un technofeel, un amante della tecnologia, mi piace ogni cosa nuova. Amo il cinema digitale, perché sento che mi dà maggiore controllo, che mi rende capace di verificare ogni tappa...cosa che era difficilmente realizzabile con la pellicola.

Nei suoi lungometraggi, il paesaggio è un elemento molto importante...

Mi piace fare film nelle location dove il paesaggio è, a tutti gli effetti, un personaggio. Anche per il mio prossimo lavoro, ho scelto di girare "en plein air". La location, quella "road to nowhere", in tal caso corrisponde ad un luogo realmente esistito, si tratta, infatti, di una strada costruita nel 1943 dal governo e poi abbandonata quindici anni dopo. Un percorso che ha un inizio, ma che non continua, devi forzatamente fermarti, perché non porta da nessuna parte. La fine di questa "strada senza sbocchi" è divenuta un set importante per il film.

I suoi personaggi, più che rappresentare la società statunitense, si direbbero costituire una sorta di archetipi...

Credo che uno degli archetipi importanti sia la femme fatale, noi ne abbiamo una nel film, Road to nowhere. Per me, la chiave per aver a che fare con qualunque tipo di archetipo, è lavorare specificatamente con la "persona", con l'attore che recita un determinato ruolo. Il lavoro che faccio con l'attore è quello di cercare di farlo sentire libero di rivelare se stesso. Gli attori "sono", rivelano la loro personalità, e così facendo, danno ai loro personaggi quella caratteristica di universalità...

Il suo cinema sfugge a qualsiasi etichetta, spesso si è parlato di New Hollywood... Come lo definirebbe?

In questi ultimi quattro anni ho insegnato regia e quel che dico è molto semplice: l'unica cosa che un regista deve dire ad un attore è: don't, non. L'unica cosa che io direi del mio modo di fare cinema è: don't, non. Meno si interviene nel processo creativo, meglio è.
Non sento di appartenere a nessun movimento, a nessun gruppo... È molto difficile per me pensare in termini di periodizzazioni, di tempi, in relazione ai film. Per me il tempo è un continuum, è giorno per giorno, un processo quotidiano. Spesso ricevo e:mail in cui mi si invita ad entrare su facebook. Ma poi, per accedervi, è necessario iscriversi, e io mi rifiuto di farlo. Non voglio aderire a nulla...

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