Los Angeles, 2049. In una terra ridotta ad un'estesa superficie desertica, in cui le vie affollate di una folla brulicante sembrano essere state ripulite e riportate all'ordine, l'agente speciale K si occupa di ricercare ex-replicanti ribelli e ucciderli. In una delle sue missioni fa una scoperta sconcertante, che lo porterà ad andare oltre i suoi stessi limiti. Siamo in un'epoca in cui siamo ancora capaci di amare, oppure no? E ancora, qual è la differenza tra uomo e androide? Quale il limite oltre cui può spingersi l'umano? Queste le domande che più di tutti coinvolgevano lo spettatore nel primo Blade Runner, ancor più del fatto se l'agente Rick Deckard fosse o meno un replicante o un'umanoide, e che vengono riprese (in parte) in Blade Runner 2019. La frase, rimasta ormai leggendaria, "ne ho viste di cose che voi umani non potete nemmeno immaginare" diventa invece un quesito solipsistico ("chi sono e perché esisto?") in un sequel esteticamente raffinato che è un replicante più umano dell'umano. Un confine sempre più sottile divide infatti le due specie - umano e replicante - un limite che nei timori dei dominanti potrebbe anche sfumare lasciando il posto al caos, rendendo insufficiente e del tutto arbitraria l'identificazione tra i due nel possesso dell'anima, che sarebbe propria degli esseri umani. Ma non basta, si pone anche un'altra linea di frattura, più attuale: la relazione con i computer personali e gli assistenti virtuali. Anche se la differenza con l'uomo è a livello tecnico più chiara che per i replicanti, come spiegare il gesto di Joy, l'ologramma che si sacrifica per K? E quando, a questo punto, si può definire la libertà delle macchine, tema proprio della tradizione sci-fi, dato che queste ultime hanno piena consapevolezza di sé e della propria condizione al punto da accettare il giogo imposto dagli uomini? Ciò che conta in un sequel in cui si assottiglia il confine tra umani e replicanti è soprattutto la ricerca e la formulazione di un'identità. La differenza tra i due registi, Ridley Scott e Denis Villeneuve, risiede dunque nello sguardo che pongono su questo mondo e sui loro personaggi. Mentre il primo poggiava su un pessimismo esistenziale e sociale, il secondo si muove alla ricerca di una speranza, nel "miracolo" della vita che si rinnova nonostante tutto, nella figura cristologica, sia essa umana o replicante non conta.
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