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La scimmia e la Metropoli

Il difficile rapporto tra razionale e animale in L’alba del pianeta della scimmie.
di Roy Menarini

In foto una scena del film L'alba del pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt.

lunedì 26 settembre 2011 - Approfondimenti

Immagine potentissima, quella dello scimpanzé Cesare che, arrampicato su un albero, si erge come un novello King Kong e osserva da lontano la metropoli in procinto di cadere sotto il suo dominio.
Chissà per quale ragione il ciclo delle scimmie è così longevo, dopo i film della saga originale, poi la serie tv, quindi il remake di Tim Burton e ora il prequel. Evidentemente, nell’immaginario collettivo e cinematografico, la scimmia mantiene un posto d’onore al tavolo della fantascienza.
Se lo zombi indica il rimosso del nostro rapporto con la morte, se il vampiro gioca sull’erotismo e sul sangue della passione, se automi e robot mettono in gioco il nostro rapporto con i simulacri tecnici, certamente le scimmie al cinema pongono in discussione l’equilibrio tra il nostro essere animale e quello razionale. Non è un caso che uno dei più noti testi di sociologia dell’immaginario – "La grande scimmia" di Alberto Abruzzese – ragioni proprio a partire da quel King Kong che rappresenta l’archetipo del conflitto tra modernità metropolitana e cuore di tenebra della natura umana. Di lì in poi, la scimmia è divenuta metafora per molti aspetti della nostra cultura: Il pianeta delle scimmie, uscito in epoca di forti tensioni internazionali e sfiducia nelle istituzioni, proponeva un ribaltamento tanto geniale quanto meditato, con forte sfiducia nei confronti del genere umano e dei suoi possibili sostituti. Gli altri film di questi anni – dal Monkey Shines di Romero al nuovo King Kong di Peter Jackson – hanno ribadito sempre più l’interdipendenza tra scienza, spettacolo e rapporto umano/razionale.
L’ottimo prequel di Rupert Wyatt, invece, sceglie una strada leggermente differente. Come Contagion di Soderbergh (davvero l’opera più importante di questi mesi, per densità politica e lucidità d’analisi artistica), ci spiega che da come noi decidiamo di relazionarci con gli animali dipende la salvezza stessa del genere umano, non solo etica; e ci ricorda anche che la velocità di diffusione dei virus è del tutto inconciliabile con i faticosi compromessi dell’organizzazione comunitaria e politica. Sono chiarissime e potenti le metafore economiche, il contagio delle borse in crisi, il virus del debito, etc. etc. La scimmia, in questo caso, è potenziata dal virus, e – nostro antenato, fin da quando lanciava in aria un osso per trasformarlo in una futura astronave in 2001 – Odissea nello spazio – ora agisce come un black bloc. Guerriglia urbana, tattiche di assalto alle forze dell’ordine, “costumi” scuri destinati a nascondere l’identità individuale per esaltare quella collettiva, e così via. Come i black bloc o i rivoltosi di Londra, le scimmie non recano con sé alcun progetto politico: sono massa furiosa, sfruttata, reagiscono con un torto a un torto, e mettono in atto una violenza priva di scopo. L’alba del pianeta delle scimmie punta classicamente il dito contro l’ingerenza e i soprusi dell’uomo sugli esseri più deboli, ma ci ammonisce soprattutto a ricordare che le forze da noi scatenate sono spesso incontrollabili e imprevedibili. Tocca a noi pensarci prima.

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