Anno | 2011 |
Genere | Documentario |
Produzione | Germania |
Durata | 118 minuti |
Regia di | Sebastian Dehnhardt |
Uscita | martedì 12 giugno 2012 |
MYmonetro | 3,00 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento martedì 12 giugno 2012
La storia dei fratelli Klitschko, Vitali e Wladimir. Entrambi campioni del mondo di boxe.
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CONSIGLIATO SÌ
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I Fratelli Klitschko, Vitali e Wladimir, sono quasi una leggenda. Entrambi campioni del mondo di boxe, sono partiti dall'Ucraina per arrivare ai ring più spettacolari del mondo vincendo premi medaglie e titoli e battendo, a turno, i mostri sacri della categoria pesi massimi.
Klitschko si apre con immagini home-made di un super 8 che coglie la dimensione familiare e semplice di due fratelli ucraini destinati a diventare quasi dei super eroi. Le immagini della casa: un tappeto appeso alla parete usato come sfondo per una semplice intervista, la voce che richiama un fuori campo familiare e quotidiano (il rivolgersi alla madre per farle chiudere una finestra che altrimenti avrebbe disturbato la registrazione) sono elementi semplici che servono a dire da subito l'origine umile dei Klitschko, della loro famiglia e della loro educazione, ma anche servono da contraltare immediato, nel montaggio, per la sequenza successiva: il maestoso ring che farà da 'tappeto' per la sfida mondiale su cui tutti i riflettori dello show saranno accesi: si prepara il grande incontro di boxe per il titolo di campione del mondo. Clamore, attesa, spettacolo, fama. I Klitschko forse ce l'avevano scritto nel destino; scritti già nel nome quei K.O. (Knock out) che collezionano durante le loro carriere.
Il film del regista Sebastian Dehnhardt, come richiesto dalla guidelines del buon docu-film alla moda, intreccia sapientemente interviste ad amici, parenti (la madre sempre molto presente, il padre) e allenatori, alle testimonianze dirette di Wladimir e di Vitali, attraverso i ricordi di famiglia, i primi giochi da adolescenti (quando si giocava a tirare di boxe nel corridoio della vecchia casa, e si aveva quasi paura di quel "gioco"), le prime vittorie in patria, poi i primi viaggi e le sfide internazionali. I premi, i titoli di campione, infilati uno dietro l'altro. Il ritmo è svelto ed appassiona. Poi, sempre secondo le buone regole del docu-film, la storia dei protagonisti si intreccia, viene attraversata dalla Grande Storia: i talenti ucraini finiranno col conoscere l'America capitalistica e vinceranno anche lì. Due mondi a confronto. Due culture diverse. Altri sono gli eventi che fanno da sfondo alle loro vittorie: il disastro di ernobyl', la fuga dall'Ucraina, la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Ma al di là dei fatti importanti, che sono ancora per noi nella memoria recente, la storia dei fratelli Klitschko ha qualcosa di mitologico, di archetipico. Il mito si sa è infatti ricco di storie di fratelli magici e di storie di doppi. E qui abbiamo entrambi.
Due fratelli quasi identici (due dioscuri moderni, altrettanto eroici e guerrieri - "uno di roccia, l'altro d'argilla" - dirà in un'intervista il loro allenatore), l'uno il doppio dell'altro, che si sostengono per tutta la vita condividendo un'unica grande passione: l'arte della lotta. Perché forse è giusto parlare di 'arte', in tempi dove lo sport sembra non esistere più, schiacciato da logiche di potere e da troppi interessi economici. La boxe che raccontano i Klitschko è più un'arte antica, come la tauromachia del mito, dove ciò che conta è il corpo del lottatore e il suo coraggio. Come si sente dire nel film: "si "gioca" a football, si gioca a baseball, ma non si gioca a boxe". La boxe è una cosa seria. È un'arte che corteggia la morte.
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