Shit Year

Dopo aver girato 35 film in trent'anni, l'attrice Colleen West annuncia in televisione il suo insindacabile ritiro dalle scene e si isola in una casa tra i boschi. Sola, fatta eccezione per una vicina troppo ciarliera e una visita di suo fratello, Colleen fronteggia il vuoto in cui si trova ora che ha rinunciato all'occupazione che le ha riempito la vita e instaura un dialogo disperato col fantasma della sua ultima delusione amorosa, il ventiduenne Harvey West, conosciuto in teatro.
Al secondo lungometraggio dopo Wild tigers i have known , il californiano Cam Archer fa del cinema la sua terapia, dopo un anno di crisi creativa e personale, trasferendo sulla sua protagonista il demone del dubbio, dell'autoindulgenza, financo dell'angoscia. L'uomo è dunque ciò che fa? Chi è veramente l'uomo che, come accade all'attore, passa la vita fingendo di essere un altro, sempre diverso, dall'esistenza già scritta e preconfezionata? È di fronte al vuoto e alla noia che affiorano le domande più intime, il che-ci-faccio-qui e cosa-voglio: accade ai bambini e accade a questa donna, privata repentinamente del conforto del proprio pasciuto ego. Come i bambini, allora, miss West fantastica, manda in scena il proprio teatrino, sorretta da un narcisismo duro a morire ma anche sedotta dal demone della depressione.
Peccato che il regista cada fin da subito nella trappola delle facili equivalenze e racconti il vuoto dell'anima con il vuoto di idee e i pensieri indistinti con un bianco e nero sfumato e estetizzante, che testimonia quanto Archer sia ancora più fotografo che cineasta, più preoccupato di fissare l'immagine che di riempirla di vita.
Ellen Barkin può essergli grata, per un ruolo da Gloria Swanson che farebbe gola ad ogni commediante e che lei onora, senza se e senza ma. Al contrario, quando la macchina da presa sposta il suo fuoco su Luke Grimes e langue osservandolo languire, è arduo contenere un moto di cinica insofferenza. 