Roberto Faenza è un regista atipico. Diverso da tutti gli altri. Si autodefinisce «un non-protetto, uno che tutti hanno sempre guardato con sospetto». Inventò a Bologna le prime trasmissioni radio private: andava in onda da una collina, cambiando frequenze ogni giorno, l’emittente si chiamava «Radio Bologna per l’accesso pubblico». Sperimentò, chiamato dal presidente della regione Emilia Romagna, Fanti, la tv «antagonista» di quartiere e quest’idea gli costò il licenziamento, «eravamo negli anni Settanta e il Pci voleva entrare in Rai, altro che antagonismo». Torinese, diplomato al Centro sperimentale, ha vissuto fra l’Italia e gli Stati Uniti. Insegna, qui e là, comunicazioni di massa. Negli Usa si è rifugiato dopo i sequestri clamorosi dei suoi film. Il primo maggio del 1970, a Washington come docente nel Federal City College, quello delle Pantere Nere, partecipa alla storica manifestazione contro Richard Nixon: finisce agli arresti insieme a Jane Fonda e al pediatra Benjamin Spock. «Dormii con lui in tenda, ci sequestrarono insieme con altri mille studenti, ci tennero tre giorni e tre notti in uno stadio, sparandoci dagli elicotteri gas narcotici per tenerci tranquilli. Sai come finì? Facemmo causa al governo americano, fui risarcito con quattordicimila dollari, una cifra enorme per allora, tornai a Roma e comprai casa».
La visione del suo primo film, Escalation (1968) rappresentò a lungo uno dei riti d’iniziazione necessari per entrare nel movimento studentesco. Fu anche un successo di pubblico e di incassi per il produttore Giuseppe Zaccaniello, «un fabbricante di piastrelle che mi fu presentato dall’amico attore Leopoldo Trieste». Già nel 1969, però, lui prese le distanze «dal Sessantotto e dai partitini che si sovrapposero agli studenti». Il secondo film, H25 (1969), a metà tra fantascienza e impegno politico, prodotto dalla Paramount, fu sequestrato immediatamente dal giudice Occorsio e, nonostante la difesa della produzione fosse rappresentata dall’allora illustre penalista Giovanni Leone, fu distrutto. «Era un film assurdo, forse. Fu incriminato perché mostrava una bomba piazzata in una chiesa.» Il suo ultimo, Alla luce del sole, storia di don Puglisi, sacerdote di Brancaccio ucciso dalla mafia siciliana, è stato visto anche nelle scuole da più di duecentomila studenti e questo sembra essere – finalmente – un successo che gli dà ottimismo.
Faenza non è un mondano, non appartiene alle famiglie politiche o giornalistiche che circondano la sinistra intellettuale, sembra guardare con distacco ai successi elettorali dell’Unione, «da elettore, prima delle politiche chiederei a Romano Prodi un impegno solenne sulla libertà della cultura e della televisione, gli consiglierei di sottoscrivere un patto scritto su carta con gli italiani: purtroppo, nelle tv pubbliche, finora la sinistra si è comportata peggio di Berlusconi». Il suo ultimo film, I giorni dell’abbandono, è stato tratto dal romanzo di Elena Ferrante, autrice misteriosa, forse pseudonimo di uno scrittore, «ha voluto leggere la sceneggiatura, ha dato dei consigli per iscritto, ma il tutto via computer. Non ho capito ancora chi è». Ci incontriamo al bar dell’hotel de Russie, a pochi passi dalla saletta cinematografica di via Margutta. Faenza ha un posto importante nella storia del cinema politico per avere diretto l’unico documentario satirico sulla prima repubblica, un film ripubblicato mesi fa in dvd dalla Rizzoli, per anni introvabile e diventato oggetto di culto fra i collezionisti: Forza Italia! Scritto nel 1977 con Antonio Padellaro e Carlo Rossella, oggi a capo rispettivamente dell’«Unità» e del Tg5, allora giovani cronisti, montato e assemblato da Silvano Agosti e dall’aiuto regista Marco Tullio Giordana, Forza Italia! è un impietoso blob sulla Democrazia cristiana. Filmati, interviste e frammenti «fuori onda», alcuni doppiati, la maggior parte originali, dalle elezioni del 1948 al congresso del 1976, quello della rivolta dei giovani della sinistra contro i padri fondatori. «Volevamo raccontare la dissoluzione di un potere e analizzare un periodo che stava per concludersi» racconta il regista, «scrivemmo una storia che anticipava, forse troppo, l’inchiesta di Mani Pulite. Chiesi di riprendere la sede di piazza del Gesù, Aldo Moro si prestò gentilmente, lo fumai che saliva in ascensore. Usare i materiali degli archivi cine-tv in chiave narrativa ci consentiva di spendere poco, ci siamo prodotti da soli, con una cooperativa, abbiamo restituito i soldi del finanziamento ministeriale subito, grazie agli incassi.»
Forza Italia! esce alla metà di gennaio del 1978, ed è subito scandalo. «Maurizio Costanzo, che io aveva visto in anteprima, mi invitò in Rai a Bontà loro, ma un’ora prima di andare in onda, quando già ero arrivato, mi comunicarono che ero sgradito. Allora lui organizzò una proiezione con dibattito per l”Europeo”, erano presenti Adolfo Sarti, ministro dello Spettacolo, Flaminio Piccoli, Mariano Rumor, Carlo Donat Cattin: ascoltati i primi commenti io e Padellaro ce la squagliammo prima della fine, in sala rimase soltanto Elda Ferri, la produttrice.» Il film contro la Dc in sessanta giorni conquista duecentocinquantamila spettatori, il quotidiano «la Repubblica» lo inserisce fra i consigliati, la scheda è firmata da Tullio Kezich. «Moro la giudicò troppo dura, domandò a Scalfari di cambiarla, ma lui si rifiutò. Carlo Donat Cattin chiese di togliere una sua telefonata a Rumor, perché gli erano sfuggite delle parolacce; i giornali Dc, “Il Popolo” e “la discussione”, attaccavano Padellaro tirando in ballo suo padre, allora funzionario alla presidenza del Consiglio e vicino alla Dc».
L’avventura di Forza Italia!finisce la sera del 16 marzo, giorno del rapimento del presidente democristiano: il film è sequestrato in tutta Italia. «Era proiettato in cinquanta sale, non è mai più uscito. Qualche anno fa, la Mondadori editò la videocassetta,forse per toglierlo di mezzo: durante la conferenza stampa di presentazione un personaggio vicino a Berlusconi mi suggerì di cambiarne il titolo, per rispetto al partito, io ribattei: “Modificate il vostro”, e così finì subito fuori catalogo. Ti racconterò una cosa che non ho mai rivelato. Quando fu rinvenuto nel covo brigatista di via Montenevoso il memoriale di Moro, lessi con stupore le sue ultime parole, diceva: Se volete rendervi conto della spregiudicatezza dei miei colleghi, basta vedere il film Forza Italia!”. Mi ha colpito scoprire che il leader Dc che più aveva amato il cinema finì la sua vita pensando a questo film. Per me, fu quasi una maledizione: per quindici anni, nessuno mi fece più lavorare in Italia. Ero diventato invisibile. Avevamo tutti contro: “l’Unità”, che in principio ci aveva lodato, con una pagina intera del critico ufficiale, Casiraghi, ci scagliò contro Savioli che, su ordine del Pci, lo definì un film fascista. L”Avanti”, il giornale del Psi, scrisse cose terribili perché avevamo mostrato un buffo Saragat, allora presidente della Repubblica. In Rai furono rimossi o licenziati tutti quelli che ci avevano fornito i filmati. Un giorno, Bettino Craxi mi convocò al Raphael, in pieno compromesso storico, e mi chiese di farne uno analogo sul Pci e sui legami con l’Urss, ma in quel clima mi sembrò impossibile. Ci sostenevano soltanto i piccoli giornali: “Lotta Continua”, “Il manifesto”. Tornai in America. A sdoganarmi, molti anni dopo, fu proprio il papa, Giovanni Paolo II. Vide il mio Jona che visse nella balena nel 1993, gli piacque e qualcuno ne comprò i diritti tv. Avevo smesso di essere invisibile.»
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006