Michelangelo Antonioni è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 29 settembre 1912 a Ferrara (Italia) ed è morto il 30 luglio 2007 all'età di 94 anni a Roma (Italia).
Produsse anche grande noia, come solo pochi genii sanno fare, e perfino illustre scherno critico. Francis Coppola ironizzava sui suoi primi esperimenti digitali e Carmelo Bene gli consegnò a Taormina nell''82 un virtuale «premio per la comicità involontaria», imitando, però, sarcastico, i peggiori critici della terra. Come Vincent Canby, del New York Times che, forse imbeccato dalI'Fbi, stroncò ZabriskiePoint, trovando «unintentionally funny» la grafica sessuale dell'orgia nella Death Valley o l'esplosione «assurda» della villa wrightiana. O, peggio, Penelope Gilliatt che aveva scritto sull'Avventura: « Antonioni è un socialista. ma i suoi film dimostrano che non crede troppo nelle capacità sociali dell'individuo. Nel suo mondo ieratico le relazioni sono sempre insoddisfacenti, il sesso umiliante e la conversazione è una misura d'emergenza, abitualmente condotta schiena contro schiena o attraverso una prospettiva distante di soglie». Lo poteva fare Kazan, non piu comunista, ma Antonioni no, nonostante l'esperienza con la « metodista» Betsy Blair sul set del Grido? Troppo indocile ai sacri valori lui. Blasfemo quando trattava i neon di Los Angeles come il paesaggio di Ravenna (ricostruendo un paesaggio con grinta rinascimentale) o quando disse, in conferenza stampa Usa: «Non credo che l'amore sia eterno» . Ciò che piu irritava e irrita oggi è il suo estremismo scopico.
E la sua rosselliniana passione per la ricerca: «Voglio sapere perchè». Unita all'incorruttibile scetticismo e all'amore istintivo per i corpi differenti, flessibili (non al lavoro ma al piacere), tolleranti, innovativi, fluidi, ellittici, imprevedibili (corpi che fuoiriescono dall'inquadratura, non ne sono mai imprigionati, come in Bergman).
Ma ciò che Antonioni produsse di più, vera apoteosi della politique des auteurs, fu il produttore (e non solo Ponti), quel «milionario del cinema di domani» tanto agognato da Hans Richter, che sarebbe stato «il rivoluzionario del cinema contemporaneo, gratificato dalla propria produzione, non soltanto per il guadagno che ne potrà trarre. Come i mercanti d'arte che vendevano le opere che essi stessi amavano...».
Critico e soggettista squattrinato nella Roma, da lui piuttosto temuta, del dopoguerra, Antonioni aveva rubato bistecche dal macellaio, per sopravvivere. E giocato bene a tennis. Già scienza del guardare, con relativi connotati: caso, distrazione, senso della possibilità, via di fuga, amore per il vuoto. La sua coscienza sociale, altissima, non è attratta dai problemi e dalle soluzioni, ma dal tentativo di analizzare gli «stati della mente», attraverso quei movimenti e quei comportamenti che, anche per la psicanalisi sono impercettibili e insignificanti, ma non per la cinepresa e per il fonico attento.
Assieme alla 28enne regista inglese Claire People (sua compagna, anche di lavoro, durante Blow up) fu fermato nel 1966 dalla polizia di Londra per possesso e use di marijuana, e dovette sborsare 240 dollari per uscire dalla cella. Non gli fu mai perdonato l'essersi schierato con il Movimento e con i movimenti di Iiberazione, né il tradimento di classe (borghesia ferrarese), né di aver descritto la swinging London inebriante di sesso, moda, rock'n'roll e di aver fatto amare l’erba a tutti. Dal 1985, mentre i Contras e i Berlusconi venivano vezzeggiati dal mondo occidentale, e si cominciavano a seppellire scienza moderna, relatività e relativismo culturale sotto strati di produttori orridi e servi, il suo (quasi) grande silenzio. Non aveva più parole.
leri, a 94 anni, è morto, come poggiando il capo su quello di Bergman. In comune con Bergman e con Godard, Antonioni aveva rovesciato il mondo, senza cambiarlo. Distrutto il tempo e lo spazio della narrazione, parallelamente agli underground Usa e ai free jazzmen, sperimentando un realismo nuovo» che portasse chiarezza solo attraversando caos, dissoluzione, frammentazione, simultaneità, decomposizione, e non senza montaggio ellittico. E insegnò che, sapendosi avvicinare alle immagini, imparando a guardare, anche le cose si modificano. «Ha messo in scena un uomo e una donna, la guerra dei sessi e un'eventuale soluzione di questa guerra. Quelle donne, Bardot, Harriett Andersson e Monica Vitti imponevano un modo diverso di filmare. Bisognava barattare il cinema dell'ideale, dunque un cinema maschile, perché solo gli uomini hanno degli ideali, con un cinema che lasciasse apparire le donne. Il problema è stato la coppia, prima eterosessuale, poi, dopo il '68; le coppie mal assortite, disperate, deleuziane (Alice nelle città)...» diceva Serge Daney, intervistato da Toubiana, dicendo basta a quel cinema «maschilista» dell’impegno.
Michelangelo Antonioni è stato dunque prima di tutto il regista di Monica Vtti e della trilogia «gialla», di tensione eccentrica e pallida: L'avventura ('60) La notte ('61) e L'eclisse ('62) con quel finale di 58 sequenze, mostruoso climax, così «irrilevante» per i distributori che volevano segare, su strade vuote, segnaletiche, impalcature, pavimenti, semafori, il cielo scuro, la notte, la metafora visuale dell'eclissi dell'uomo.
Il poeta visuale dei primi anni sessanta e del pre-sessantotto. Il documentarista impressionista, l’istintivo, nervoso predatore, di violenza anche informale, di un paese mutante, che da agricolo si faceva industriale, non senza gli inosservati (da altri) submovimenti dell'inconscio, assai poco collettivo, del movimento delle donne insorgente e dei primi collettivi, molto meno inconsci, dell’antagonismo operaio che già inventava la soggettività desiderante e che accecò sindacati e partiti della sinistra, ancora addormentati tra Stalin e Trotsky. lnsomma l'equivalente in 35mm bianco e nero dei novissimi scrittori, e, più che un analogo della Olivetti lettera 44, per le sue superfici Loos, fu il Raniero Panzieri (Quaderni Rossi) o il Mario Tronti (Classe Operaia) del cinemascope già attrezzato al toyotismo. Altrettanto attento al dettaglio tecnologico pesante e a come sbarazzarsene, inventando altre morali per differenti sviluppi. Fu stilisticamente modernista (per questo Antonioni, il formalista, piaceva tanto a Soldati, il calligrafico, nemici della retorica, dei dogmi, degli orpelli, del mettere invece che del levare). Già. «Un paese in più sulla cartina geografica». Se il cinema era anche questo per Godard (chiedere i diritti a Second Life) Michelangelo Antonioni, ex Partito d'Azione, poi « socialista» in senso nobile, di questo «paese in più» fu più ministro (ombra) di Andreotti: informazione e telecomunicazione; urbanistica e paesaggio, sanità, esteri... Si occupava infatti, diceva, dei «sentimenti malati». E, come sintetizzò il critico austro-americano Amos Vogel in Cinema come arte sovversiva, il suo intero lavoro (neanche venti i suoi lungometraggi, in 60 anni di lavoro) consisteva di metafore visuali sulla non comunicazione, sull'alienazione, la solitudine e i disperati tentativi di romperla attraverso il contatto gli altri. Ma quel fronteggiarsi era un oceano di tensioni, mentre gli oggetti, i muri, le colonne, le infrastrutture e la pesantezza del mondo fisico esercitavauo sugli individui un potere. schiacciante. Si veda, in questa pagina, l’immagine di L’eclisse, con la colonna che separa irreversibilemente Monica Vitti da Alain Delon.
Da Il Manifesto, 1 agosto 2007
Dipingevo già da bambino, ma allora erano volti: quello di mia madre, di mio padre, di Greta Garbo. Il mio mai, perchè non so vedermi. Alcuni anni fa ho dipinto altri volti, tutti sconosciuti, amici immaginari. Uno di questi l’ho tagliato in tanti piccoli pezzi e poi l’ho ricostruito. Il risultato: una montagna. È così che ho cominciato». Sarà poi la Biennale di Venezia del 1983 a presentare la sua serie sulle Montagne incantate, sorta di blow up di ciò che non si vede e deborda prepotentemente dall'inquadratura cinematografica per approdare su carta, in un mix di pittura, fotografia e collage.
Michelangelo Antonioni aveva con le arti visive un rapporto intenso. Pittore lui stesso, prima con calligrammi eleganti su fogli di quaderno e poi con stesure di colore sempre più brillanti (era aiutato della moglie Enrica negli ultimi anni), aveva affidato all'arte quel messaggio di «silenzio» che un tempo fu delle immagini su grande schermo. Per capire meglio, basti citare i maestri che più ammirava: Giorgio Morandi e le sue polveri leggere, Mark Rothko e le sue dissolvenze cromatiche («i miei film - diceva rivolgendosi al pittore - sono come i vostri quadri. Non parlano di niente ma lo fanno con grande precisione»). Artisti dell'evanescenza temporale. Ma il cineasta, a sorpresa, non disdegnò neanche un pop onirico come Claes Oldenburg, con il quale, nel 1965 (proprio l’anno successivo all'exploit degli americani a Venezia), aveva sperato di collaborare per l'episodio de I tre volti con Soraya. Antonioni lo voleva per le scenografie però non se ne fece nulla, a dispetto di un denso rapporto epistolare fra i due. Michelangelo Antonioni e il colore, dunque. Una relazione pericolosa, complessa, certamente non-narrativa. dove il « rosso» non rimanda alle pulsioni dell'istinto ma all'alienazione dell'individuo, sottolineando le « cesure», gli stacchi emozionali della realtà, trasfigurandola con quella tinta così invadente, che tutto disidentifica.
Nel corso degli anni, quel colore così «umorale» e inappellabile, che ha segnato l'epoca del disaccordo col mondo e il conflitto del corpo femminile con se stesso, ha lasciato il posto a una tavolozza più fredda, dove gli azzurri e le sfumarure violacee hanno preso il sopravvento. Sono questi toni metallici che hanno disorientato i sensi dello spettatote quando, nel settembre scorso, si è trovato a Roma, nel tempio di Adriano, a guardare i quadri astratti del regista ferrarese. Forme eccentriche, segni sul vuoto, viscerali, un po' fiabeschi, quasi animali preistorici «bloccati» in una morsa di gelo cromatico. Nessuna figura reale, piuttosto un danzare di geometriche e organiche forme in cui ognuno può vedere ciò che vuole. Un mondo parallelo, floreale, vegetate, minerale. A tratti, anche gioioso, recuperando toni rosa e arancio. In ogni tela, entra la luce, il «taglio», quello che Antonioni imparò così bene stando sul set dei suoi film. La stessa luce che poi utilizzò per «guidare» il suo dialogo muto con il Mosé di Michelangelo (Buonarroti) quando, nel 2004, tornò dietro la macchina da presa per immortalare in soli quindici minuti, la vita e la morte, l'irruenza e la passione racchiuse nella tomba di Giulio II. Un progetto che impegnò l'artista per quarant'anni, una scultura sofferta, rimasta incompiuta e che Antonioni volle testimoniare con un suo viaggio personale nella chiesa di san Pietro in Vincoli, al buio, con raggi di luce intermittenti a evidenziare lui e il Mosé che si guardano.
Da Il Manifesto, 1 agosto 2007
L'Italia assente dai paesi della Nouvelle Vague europee ha avuto in Antonioni (e Rossellini ad aprire la strada prima di lui) l’anticipazione dei nuovi linguaggi. La composizione del suo spazio cinematografico nasceva, prima che dal set, dalla carta stampata, dalla critica. Antonioni - era infatti una delle firme della rivista «Cinema» diretta da Vittorio Mussolini, appartenente al gruppo della fronda, si diceva anche allora, e talvolta anche in linea, come in una celebre recensione al film Suss l’ebreo di Veit Harlan, presentato al festival di Venezia del '40, anche se non entrava nel merito delle tematiche razziali, ma solo in quelle ritmiche, un po' come Della Volpe quando scriveva di «Estetica del carro armato». Ferrarese fresco di istituto tecnico, di Littoriali, con una tesi alla facoltà di Economia e Commercio su «I problemi dell'econornia politica dei Promessi Sposi», collabora al «Corriere Padano», non termina un documentario sulla casa di cura per malattie mentali a Ferrara, invece Gente del Po girato in tempo di guerra, montato con il materiale salvato, sarà presentato alla Mostra di Venezia del '47 (e poi avrà il Nastro d'argento per N. U.). Nel periodo precedente la guerra era andato in Francia come aiuto regista di Marcel Carné per la versione italiana di Les visiteurs du soir, mandato dalla Scalera su consiglio di Arata il direttore della fotografia incontrato al Centro sperimentale (un semestre frequentato) che lo inizia al grandangolo e all'uso estremo del bianco. Tra i giovani che scrivevano su «Cinema» alcuni avrebbero fatto il nuovo cinema italiano, come Giuseppe De Santis e si differenziavano dalle altre riviste per le loro prese di posizioni teoriche (come la difesa di Ossessione di Visconti). È a partire da quegli anni che Antonioni cominciò a elaborare il suo linguaggio. Il suo è un complicato processo di revisione globale dell'estetica di propaganda politica. Il nostro cinema di quegli anni, pur se aveva moltissime vie di fuga che lo rendevano sorprendente, dimostrava anche di saper costruire perfette macchine inattaccabili a ogni possibile fuoricampo (Luigi Chiarmi fu tra i primi che provò a intaccare il perfetto involucro, in Via delle cinque lune. Uno degli elementi del cinema di propaganda è il linguaggio perfettamente chiuso in se stesso così da non lasciare spazio al fuori campo. Un po' tutti i migliori registi del dopoguerra partirono in esplorazione di questo famoso fuori campo che non si poteva intaccare, chi con le tematiche proibite, chi con la scelta di personaggi lasciati fuori scena (i poveri, i pensionati, gli operi).
Il cinema di Antonioni è come costruito tutto sul fuoricampo in maniera programmatica: anche lui tocca soggetti prima vietati e, si vedrà, anche dopo (come i suicidi). Avrà i suoi guai con la censura quando parlerà di gioventù bruciata di tutta Europa ne I vinti (soprattutto per l'episodio italiano i cui protagonisti erano omosessuali), di suicidio nell'episodio Amore in città. Sorprenderà con la sospensione del discorso che non deve essere necessariamente concluso, le pause di lettura di un romanzo, la ripresa di una scena che prosegue e ancora prosegue, il piano sequenza, un elemento poco controllabile da ogni censura e che usa per la prima volta nel lungometraggio d'esordio Cronaca di un amore), l'indeterminata sensazione, la frase non detta, la coppia in crisi, la messa in scena dell'alta borghesia e della classe operaia come non si erano ancora viste. Aveva scritto De Santis nel '43: «un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell'operaio che torna a casa»: è in sintesi Il grido, dove non solo il protagonista è un inedito operaio, ma anche in profonda crisi, dove tra nebbie e silenzi si consuma il dramma esistenziale del protagonista, avvolto più dalla solitudine che dalla nebbia. Monica Vtti doppiò Dorian Gray e conobbe il regista.
Da Il Manifesto, 1 agosto 2007
Morendo - a quasi 95 anni - il giorno dopo Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni lascia il mondo orfano dei due artisti che più hanno contribuito a fare del cinema un'arte adulta, un pezzo importante della cultura modema, un argomento da intellettuali. Ma se per Bergman tale definizione era al tempo stesso restrittiva ed esagerata, per Antonioni era giusta e doverosa. Michelangelo Antonioni è stato molto semplicemente il più grande cineasta italiano di tutti i tempi, assieme a Federico Fellini, Vittorio De Sica e Roberto Rossellini.
Ciascuno, però, è stato grande a modo suo. Fellini è riuscito nel miracolo di raccontare l'Italia senza distogliere lo sguardo dal proprio inconscio. Rossellini, in quella stessa Italia, si è voracemente tuffato inventando, al contrario di Fellini e Antonioni che sono artisti poco imitabili, un modello di cinema riciclabile senza il quale non sarebbero esistiti il neorealismo, la Nouvelle Vague, il Free Cinema, la Nuova Hollywood. De Sica è stato il sommo guitto, capace di girare Ladri di biciclette e, contemporaneamente, di scoprire Alberto Sordi e tener testa a Totò. Ad Antonioni, in questo Pantheon, spettava assieme a Visconti il ruolo dell'intellettuale. Con due differenze decisive. La prima: mentre Visconti guardava alla cultura a cavallo tra ‘800 e '900 (il melodramma, il romanzo borghese: Verdi & Thomas Mann) Antonioni inventava quella del nuovo secolo. La seconda: mentre Visconti usava il cinema come Verdi usava l'opera, Antonioni creava cinema in se, usava le immagini come significante puro. Visconti sarebbe potuto esistere anche senza il cinema, Antonioni no.
La vita di Michelangelo coincide con quella del «secolo breve» e la trascende. Ferrara gli aveva dato i natali il 29 settembre del 1912. Non c'era nemmeno il fascismo; doveva ancora scoppiare, pensate, la prima guerra mondiale. Antonioni è nato in un altro mondo e ci ha traghettati nel nostro, di mondo. Nella sua vita artistica si intravede, come in un ologramma, la storia culturale del '900. Lui l’ha prima anticipata, poi accompagnata, e infine guardato con un pizzico di nostalgia mentre se ne andava, superandolo. Ma per superare Antonioni, il '900 ha dovuto invecchiare, quasi sparire, e diventare Duemila.
Se il cinema è stato - e lo è stato! - forte del secoto breve, Antonioni è stato uno dei suoi esponenti più puri. E quando si parla di cinema puro, di forza autonoma delle immagini, il pensiero va subito al finale dell'Eclisse, in cui la macchina da presa ritorna sui luoghi dove si è svolto il film e li ripropone vuoti, senza personaggi, dando loro un senso che va al di là della storia narrata, oppure ai famosi colori di Deserto rosso, modificati grazie anche alla fotografia di Carlo Di Palma per togliere al cinema ogni alibi naturalistico. Sono alcuni fra i momenti piu clamorosi e proverbiali della carriera di Antonioni, come il piano-sequenza di 8 minuti alla fine di Professione: reporter o l’esplosione della casa nel deserto in Zabriskie Point. Ma questa tensione espressiva è rintracciabile in tutta la sua opera. È latente anche nei documentari «neorealisti» degli anni '40. Antonioni ha gia 31 anni quando gira Gente deli Po, nel '43, e si avvicina ai 40 man mano che realizza Nettezza urbana e tutti i numerosi corti che precedono l’esordio di Cronaca di un amore (1950). Non è un ragazzino, e sa ciò che vuole: forte del miglior apprendistato critico possibile nell'Italia fascista (scrive sulla rivista Cinema, la culla teorica del neorealismo), ha un'idea di cinema forte, personale, precisa. Le basi sono nel neorealismo, del quale condivide tutti i presupposti civili; l’esito, chiarissimo già in Cronaca di un amore e nel successivo La signora senza camelie (1951), è però un realismo stilizzato in cui l’artificio formale del racconto cinematografico deve prevalere sulle ragioni sociali e psicologiche. Antonioni non ha nulla a che vedere con Freud: probabilmente pensa che la psicologia sia roba da romanzo ottocentesco. Non gli interessa nemmeno mimare il linguaggio quotidiano, e non avra mai alcunchè da spartire con la commedia all'italiana, che del neorealismo sarà la figliola simpatica e un po' scostumata. Da subito, i copioni dei suoi film sono artefatti, ovvero ,fatti con «arte», per fotografare lo status esistenziale dei personaggi, per fissarli in un momento eterno.
Quanto è stato preso in giro, Antonioni, per certi dialoghi in cui Monica Vitti pronunciava frasi come la famosa «mi fanno male i capelli»! A volte ci si sono messi anche i colleghi: chi potrà mai dimenticare quel momento del Sorpasso in cui Gassman dice a Trintignant: «Hai visto L eclisse? lo c'ho dormito. Bel regista, Antonioni: c'ha un Flaminia Zagato che è ‘na favola, un giomo sulla fettuccia di Terracina m'ha fatto allungà er collo». Eppure Ettore Scola e Ruggero Maccari (che scrissero quel film per Dino Risi) erano critici migliori dei critici veri: sempre a Gassman, facevano dire che Antonioni era come Vecchio frac di Modugno perchè dentro c'era «quella roba che oggi va di moda, l'alienazione». L'alienazione, non la tanto sbandierata (a vanvera) incomunicabilità. L'alienazione è un concetto marxiano: indica la distanza inconciliabile in senso economico, materiale, filosofico, morale fra l'uomo e le cose. Il cinema di Antonioni parla di questo: l'uomo non capisce ne controlla le.cose, è circondato da feticci (dall'alienazione deriva il feticismo), quindi non capisce né controlla le proprie emozioni e, di conseguenza, la propria vita. Il fatto di non poter comunicare con i propri simili, nell'epoca in cui la comunicazione è tutto, è una conseguenza.
Scola ci disse una volta che Antonioni, a lui e ad altri maestri della commedia, sembrava parlare di una borghesia italiana «che non esisteva». È un giudizio condivisibile. Fin da Cronaca di un amore, Antonioni racconta personaggi borghesi perchè è un artista sincero: quel mondo conosce, e quel mondo ricrea. Quando si addentra nella crisi esistenziale di un operaio, con Il grido (1957), intuisce un tema che avrà ben altri sviluppi (pensiamo a Rocco e i suoi fratelli di Visconti, e a Dramma della gelosia dello stesso Scola) ma realizza uno dei suoi film meno centrati. Durante la post-produzione di quel film, però, conosce Monica Vitti, scelta per doppiare la protagonista Dorian Gray. Monica diventerà la sua Musa nei capolavori degli anni '60, interpretando in rapida successione L'avventura (1960), La notte (1961), L eclisse (1962) e Deserto rosso (1964). Sono i film in cui Antonioni inventa la suddetta «borghesia inesistente», che è immaginaria esattamente come i baroni, i cavalieri e i visconti di Italo Calvino: personaggi che danno corpo a idee, nevrosi, interrogativi filosofici. E soprattutto ottengono a posteriori un risultato straordinario: danno alla borghesia italiana un'impalcatura culturale, un substrato teorico che essa, alla fine degli anni '50, non aveva. I borghesi di Antonioni vanno in vacanza alle Eolie, giocano in Borsa, frequentano party di industriali, scrivono libri: il loro mondo è forse quello della borghesia europea in senso lato, sicuramente è un mondo in crisi, che ha smarrito le coordinate vitali e corteggia la morte.
È ora di fare dei nomi. Quali sono gli architravi di quell'impalcatura, i « pezzi» di cultura del '900 che Antonioni utilizza o, addirittura, anticipa nei suoi film? L'esistenzialismo: Sartre, anche Heidegger. Lo strutturalismo e la semiologia: Jakobson, Roland Barthes (il filosofo più «antonioniano» che sia mai esistito). Molta pittura (Antonioni è anche un bravo pittore): Mondrian, Klee, l’astrattismo, De Chirico, Savinio, Warhol, Lichtenstein, Rothko, Pollock. Molta architettura: Le Corbusier, Frank Lloyd Wright e il razionalismo italiano del ventennio. La letteratura italiana più eterea, meno naturalista: su tutti, Calvino (a posteriori, poi, gli scrittori italiani influenzati dal suo cinema sono tantissimi: da Del Giudice a Baricco). Tanta fotografia, da Cartier-Bresson in giù. E infine, a sorpresa, il rock'n'roll: si penserebbe al jazz, al be-bop di Parker, Monk e Davis che influenza il gusto di Antonioni per le strutture fluttuanti, la sua capacità di partire da temi standard per rileggerli in modo aperto e originale. Ma in Blow Up e in Zabriskie Point Antonioni compie uno di quegli incroci culturali che segnano la sua carriera e indirizzano l’arte del' 900. Nel primo film (1966) parte da un racconto di Julio Cortazar per catturare, con un tempismo magico, l’atmosfera della Swingin' London: la pittura pop, la fotografia, il design, la moda (non a caso penserà, anni dopo, a un film dal libro di Marco Parma Sotto il vestito niente) e soprattutto la musica. Non è un caso che la famosa sequenza in cui David Hemmings capita a un concerto degli Yardbirds (memorabili cammei di Jeff Beck e Jimmy Page) abbia ispirato al semiologo sovietico Jurij Lotman la più bella pagina di analisi strutturale di un film nel fondamentale volume Semiotica del cinema. Zabriskie Point, nel 1970, è invece l’incontro con I'America: assieme a Easy Rider e al Laureato, è il film che fonda la Nuova Hollywood. È nel finale, quando lo sguardo di Daria Halprin fa esplodere la casa, gli oggetti del consumismo che deflagrano al rallentatore (è la sequenza piu «feticista» della storia del cinema) sono accompagnati dal brano dei Pink Floyd Careful with that Axe, Eugene.
Descrivendo un mondo in cui gli oggetti sommergono gli umani, Antonioni non poteva non incontrare sulla propria strada Luigi Pirandello: Professione: reporter è il suo Fu Mattia Pascal, ma a differenza del romanzo (che è anche un feroce ritratto della provincia e della famiglia italiane) il sogno di una vita alternativa si materializza prima nel vuoto del Sahara, poi in una Spagna dove gli spazi borghesi sembrano impazziti (qui non c'è la geometria di Le Corbusier o di Piacentini, ma la visionarietà organica di Gaudì) e sfociano nel nulla «africano» del paesino spagnolo in cui si compie il destino di Jack Nicholson. Professione: reporter è per certi versi il culmine della carriera di Antonioni (un film internazionale, con una star) e rimane, assieme a Blow Up, il suo lavoro più moderno, più godibile anche a distanza di 30-40 anni. È il momento, appunto, in cui Antonioni è primo in classifica: è il regista più avanzato, più innovativo, è lui che guida il gruppo, mostrando a tutti la via e ottenendo persino successo. Nel corso degli anni '70 qualcuno (Altman, Anghelopulos, Tarkovskij, i tedeschi) sembrerà superarlo sul piano del cinema puro, quando tornerà in Italia per le sperimentazioni sul colore del Mistero di Oberwald (1981) e per Identificazione di una donna (1982) darà la sensazione di segnare un po' il passo. Poi, nel 1985, il duro colpo della malattia. I film successivi, realizzati anche grazie alla dedizione della moglie Enrica Fico, sono formalmente splendidi ma anche bloccati in uno stile che si è come cristallizzato nel tempo. Il cinema ha preso altre vie, non tutte apprezzabili. È linguaggio frenetico e videoclipparo di tanti film moderni sembra spesso un inconsapevole tradimento della sua lezione: ma il cinema di Antonioni sopravvive in tutte le forme d'arte e di racconto che ragionano sullo Spazio, più che sul Tempo, e si concedono di tirare di tanto in tanto il fiato per riflettere sull'assurdità della vita. Finchè qualche regista, in giro per il mondo, si fermerà a riflettere su come fare un'inquadratura («la scelta del punto in cui mettere la macchina da presa è una scelta morale», è una sua frase famosa), renderà omaggio ad Antonioni. Anche senza saperlo.
Da L’Unità, 1 agosto 2007
Un completo blu, una camicia color tortora, la sua preferita, il corpo di Antonioni giace sul suo letto, il volto magro è disteso, sereno, pacificato. Alla sua sinistra è sdraiato un grande ghepardo di peluche, «l'animale più veloce del mondo. Glielo regalò un insegnante di yoga in India chiedendogli di tenerlo accanto la notte, ha sempre dormito con lui», dice Enrica Fico e accarezza con lo sguardo l'uomo con cui ha diviso 35 anni di vita e aveva sposato nell''86. «È bello, è sempre stato bello ed elegante». E sorride. Non ci sono i segni del lutto nella bella casa romana del regista affacciata sul fiume che si snoda nel verde della collina Fleming. Un'immagine che migliaia di volte Antonioni ha ammirato dalla sua poltrona nel salotto, la stessa dove lunedì sera alle 19,30 si è spento, e sul cuscino è rimasto il segno della sua presenza. Interrotta da telefonate continue e dagli abbracci degli amici che vengono a salutare il maestro, con una vitalità impressionante, Enrica Fico racconta.
«Come succede sempre ero andata nell'altra stanza a massaggiarmi i piedi. Mi ha chiamato Stella, I'assistente di Michelangelo. Sono accorsa. Michelangelo aveva la testa china, era diventata un'abitudine da quando non vedeva più, sarebbe state troppo triste alzare lo sguardo sul buio. Respirava ancora, tre respiri sommessi, poi ha alzato il capo e il respiro è stato lunghissimo, senza rumore, l'ultimo. E il corpo si è abbandonato. Libero».
I grandi occhi vivaci di Enrica si velano a tratti, ma il suo racconto è una sfida al dolore. «È stata l'esperienza più bella della mia vita, la voglio raccontare un milione di volte. Un'esperienza mistica. perchè è morto nel giorno della luna piena di luglio, la pi xlurninosa,lapiirpura di tutto Fanno. In oriente dicono che la luna piena di luglio ii la rappresentazione del Maestro, l'abbiamo ammirata tante volte ovunque, ho pregato così tanto che se ne andasse in quel giorno, ed è successo. C'è una grazia misteriosa che nello stesso tempo siano scomparsi Michelangelo e Bergman».
Eppure Enrica Fico era terrorizzata dalla morte. «Non avevo mai visto morire nessuno, non un parente, non un animale di casa, avevo una grande aspettativa, dovevo conoscerla e nello stesso tempo avevo paura. Ma lui mi ha accompagnato per mano verso l'evento, ne parlavarno ogni giorno e negli ultimi mesi eravamo sempre vicinissimi, baci, abbracci, tenerezze continue. Sapeva, sapevamo che sarebbe accaduto». Anzi, è stato lui, il maestro, a volere che accadesse. «Ha cominciato nel settembre scorso, dopo l'ultima mostra di pittura a dire "non vedo, non vedo". La perdita della vista, per uno che come lui amava la luce, ogni sera mi indicava cosa dovevo accendere, come dovevo spostare le cose perchè prendessero l'ombra o la luce giusta, è stato il colpo definitivo. Quando ha capito che non c'era più niente da fare, ha detto basta. E ha smesso di mangiare. Lo capivo, "non posso darti torto" gli dicevo. Potevo essere la sua voce, non i suoi occhi. Ma lui vedeva anche il mio amore, la mia paura della sua assenza e allora mangiava qualcosa per tre, quattro giorni, poi smetteva. Voleva la fine».
La fine delta stanchezza, della frustrazione, del disagio sempre più insopportabile di un uomo dal carattere vitale, volitivo e testardo, che da 21 anni soffriva le conseguenze di un ictus. aveva perso indipendenza, comunicava con fatica e solo attraverso Enrica. e in questi anni ho snaturato la mia personalità di ligure, chiusa, dura, scontrosa, sono diventata affettiva, estroversa. Mi sono dedicata a tradurre il suo pensiero e a trasmetterlo, ad interpretare i segni, i movimenti di un sopracciglio, lo scatto di un ginocchio, i gesti, le mani di Michelangelo. È curioso che nella mernoria non ho ricordi degli incontri di lavoro, come gli interpreti ero troppo presa dal compito di capire e comunicare per tenere a mente il resto».
Ma i ricordi personali ci sono, vivi, forti. I viaggi, gli incontri degli ultimi anni con le personalità che il giorno del compleanno del maestro arrivavano nella sua casa di campagna a ricevere il premio Antonioni, Rostropovich, Renzo Piano, Caetano Veloso. E il ricordo del primo incontro. «Lo aspettavo con un amico comune in un bar di piazza del Popolo. Lo vidi parcheggiare e attraversare la piazza lentamente. Avevo quarant'anni meno di lui, cresciuta al mare, mio padre aveva uno stabilimento balneare, mi sentivo sicura, bella, libera. Osservandolo sapevo che sarei stata la sua compagna. lo penso di essere nata per incontrare Michelangelo»
Mai, neanche nei momenti più difficili del male, ha dubitato della sua scelta. «Anche perchè Michelangelo è rimasto sempre lo stesso, diretto, incapace di compromessi, fedele ai suoi principi, straight, come dicono gli inglesi. Non un carattere facile, un intellettuale che rifiutava la definizione. «Non dite che sono intellettuale, sono solo intuitivo». E soprattutto «con lui ho imparato che cosa vuol dire amare, adesso so la tecnica. E ho capito che tutti noi abbiamo un cuore talmente chiuso che quasi non siamo più in grado di aprirci. Vivere con lui e vivere la sua malattia ci ha portato ad un livello di comunicazione altissima, un'esperienza unica. La malattia non gli ha mai impedito di esprimere i sentimenti, me li faceva sentire in ogni modo, anche solo con il bacio della buonanotte. La porta della sua camera era sempre aperta, se qualche sera uscivo, a qualunque ora tornassi aspettava il bacio» .
L'unico cambiamento che la malattia aveva provocato «era nel rapporto con gli altri. Prima si bastava, gli bastava il suo lavoro, poi era diventato consapevole dell'attenzione del mondo, ne aveva bisogno, ma sempre con la sua dignità e la sua compostezza. Con lui ho imparato l'uso del tempo, detestava chi mostrava fretta come chi non aveva un interesse sincero. Se qualcuno o qualcosa non gli piaceva diventava durissimo. I suoi "via via!" sono diventati una leggenda per i suoi amici».
Antonioni è morto ed Enrica si sente «felice, vitale, ho vissuto con lui un'esperienza straordinaria che basta ad illuminare un'esistenza. È come se mi ritornassero tutte le energie che ha dedicato a lui in questi anni». E domani, nel prossimo futuro, «Non ho la paura dell'abbandono, l'ho superata, non mi sentirò mai sola, dopo aver assaporato Michelangelo fino alla fine. Negli ultimi mesi è stato lui a ricompormi, a prepararmi alla fine».
Da La Repubblica, 1 agosto 2007
Il regista ferrarese è stato, per generazioni e generazioni di cinefili, l’autore per eccellenza, colui che ha saputo raccontare la solitudine e la sconfitta della società borghese. Dall'Avventura fino a Deserto rosso i suoi personaggi femminili sono la bussola che scombina i giochi di una società asfittica, senza più speranza. Ma non basta soffermarsi al contenuto, alla parte più esplicita. La grandezza di Antonioni è tutta nella forma, nella capacità di piegare il linguaggio cinematografico alla sua visione del mondo. La televisione è lontana non per un fatto cronologico, ma perchè messa sotto scacco da una dilatazione del tempo che rompe con la verosimiglianza imposta dall'arte borghese. È qui che si consuma la rottura più importante, insanabile con il senso comune, con il moralismo. Non si consuma, tanto è solo, nelle storie raccontate, negli abbandoni e nelle grida, nelle notti in cui le coppie si incontrano e si lasciano, non si consuma nell'algida Milano o nella barocca Sicilia, nel deserto di un fabbrica. Si consuma nella ribellione più grande: dire no alla convenzione più duratura e proibitiva che pretende un racconto lineare, chiaro, dove tutto è motivato da un rapporto consequenziale tra la causa e l'effetto. Antonioni spariglia le carte, manda in frantumi tutto. Crea il mistero di un linguaggio che non può essere spiegato. Di una sparizione che a sua volta sparisce. La solitudine è tutta qui. È la solitudine dello spettatore che si trova da solo a ricostruire una storia che non ha lieto fine, perchè non ha nessun finale. Non c'è più spazio per le grandi narrazioni che consolano. L'unica possibilità è nella rivolta personale, nel colpo di schiena del singolo spettatore che da solo trova un senso e una ragione per non arrendersi. Non è la chiamata alle armi, è al contrario la richiesta di un'assunzione di responsabilità da parte del singolo. È la partita a tennis di Blow Up: la pallina è evanescente ma il gioco continua. Se si vuole. Se si vuol credere, come i due clown che proseguono nella finzione.
Con Blow up e Zabriskie Point l'esasperazione delle forme arriva al punto più forte: è il punto in cui si ribalta il rapporto tra imrnagine e realtà. L’immagine prende il sopravvento, diventa più reale del reale. La teoria sulla società dello spettacolo di Guy Debord si fa cinema, si fa cinema tutto il dibattito sulla realtà virtuale, sulle seconde vite. II fotografo di mode che, ingrandendo una sua foto, pensa di scoprire un omicidio, è la storia del nostro rapporto con il mondo che ci circonda. Dove inizia la verità, dove finisce la menzogna? È vero ciò che vediamo o quello che resta in ombra, che volutamente i mezzi di informazione non raccontano, tacciono, nascondono? Una cosa è sicura: dalla Prima guerra del Golfo in poi siamo stati bombardati di immagini, ma sappiamo meno, sempre di meno.
È per questo che Antonioni si colloca prima e dopo di noi. Prima perchè ha saputo anticipare i nostri turbamenti, dopo perchè parla di un altrove che l’arte ha sempre più difficoltà a saper raccontare, toccare, a saper raggiungere. Antonioni lo ha fatto, non negli ultimi film, quelli realizzati a quattro mani a causa della malattia. In quelli è stato scontato, misogino.
Lo ha fatto in Zabriskie Point: è il regista che dice basta all'immagine, che dice basta alla sua identità, alla sua autorialità di padre padrone. Quanti hanno avuto o hanno il coraggio di fare altrettanto?
Da Liberazione, 1 agosto 2007
Spazio e silenzio, nei film di Michelangelo Antonioni, cui una malattia aveva tolto la parola ma non la capacità creativa, e che ora è scomparso verso una delle sue «montagne incantate», quei dipinti quasi metafisici che sono esposti nella sua città natale, Ferrara, in un museo a lui dedicato ini occasione dell'attribuzione dell'Oscar alla carriera. E nelle opere pittoriche emerge con nitidezza il dato distintivo della figurazione che ha caratterizzato i film del regista: elemento qualificante di un modo di intendere i rapporti con il mondo, non solo con l’immagine filmica. Il senso di uno spazio in cui l’osservante – l’obiettivo della cinepresa fa le sue veci - si pone a distanza da ciò che osserva, con una sorta di riguardo che è volonta di oggettivazione e distacco emotivo. La tanto citata «incomunicabilita» di Antonioni e forse questo rispetto davanti a ciò che il suo occhio-obiettivo vede e rappresenta: quello spazio che lascia alla cosa vista la sua autonomia assoluta che diventa di per se significativa espressione, al di là delle parole. Dal grigiore ostile e disperato de Il grido, con la sua desolazione accorata, al paesaggro scabro de L’avventura; dalla Milano indifferente de La notte ai colori lancinanti e astratti di Deserto rosso; dalle eleganze raffinate degli zoom in Blow up, che creano inquadrature iperrealiste, ai fervori cromatici e allusivi di Professione reporter, sino alla scala elicoidale di Identificazione di una donna, che racchiude e innalza il senso stesso della vicenda e le tensioni dei personaggi Antonioni, che fin dal suo Nettezza Urbana aveva disegnato una città di ombre e di spazi, dimostra quanto sia essenziale, per descrivere, restare in disparte e creare rapporti e dimensioni tutte nuove, che non investano il personaggio ma lo rendano libero. E in questi spazi calcolati e strutturali domina il silenzio che si coglie anche nei suoi scritti. Nella raccolta einaudiana Quel bowling sul Tevere, per esempio, nel racconto intitolato Verso il confine Antonioni scandisce la narrazione con a parola «silenzio» come motivo guida: e il silenzio è parte integrante della sua narratività filmica, è espressione significativa di quanta non è detto ma comunque appare e si dichiara attraverso l' immagine. «I suoni sono scivolati via senza lasciar traccia - scrive a un certo punto - e il silenzio torna a essere quello che deve essere un buon silenzio, pieno di rumori leggeri come scricchiolii del legno e il ticchettio del pendolo». È il cinema, tuttavia, a riassumere e a identificare in un tutto unico sensazioni e percezioni: come il ricordo di un film, dice, «che avrei sempre voluto fare e non ho mai potuto, non un meccanismo di fatti ma dei momenti che di quei fatti dicano le tensioni segrete, come i fiori svelano quelle di un albero». Così l’Antonioni regista è debitore di Antonioni pittore e scrittore, in una sorta di sinestesia di complessa radice, ma di limpido effetto, che configura il suo inimitabile stile. «Quando non so cosa fare - scrive - incomincio a guardare. C'è una tecnica anche per questo, o meglio ce ne sono tante. lo ho la mia. Che consiste nel risalire da una serie di immagini a una stato di cose. L'esperienza mi insegna che quando una intuizione è bella, è anche giusta. Non so perchè. Wittgenstein lo sapeva».
Da Liberazione, 1 agosto 2007
Nel 1955 Michelangelo Antonioni, che doveva diventare uno degli autori più significativi del cinema italiano - un autore di pensiero e di stile - presentò alla Mostra di Venezia Le amiche, un film cui la critica, pur con talune riserve, riconobbe un'insolita forza di linguaggio e un'asprezza di racconto rigorosa ed autentica.
Considerati ad uno ad uno, gli stati d'animo dei personaggi e la logica interna dei loro atteggiamenti sono in genere messi in rilievo con asciutto rigore; nel loro insieme, però, le vicende delle quattro protagoniste della storia - tratta, con una certa libertà, dal racconto Tra donne sole compreso nel volume La bella estate di Cesare Pavese - non si equilibrano compiutamente; il loro alternarsi, spesso, è un po' frammentario, quando non diventa addirittura episodico; e così il mondo in cui vivono: non sempre visto in funzione propriamente critica.
L'impegno stilistico del film comunque, è indiscutibile, ed anche la sua ferma ambizione drammatica: tutte doti che già fanno prevedere l'evoluzione di un autore sempre più attento e cosciente.
Due anni dopo, Il grido: suo protagonista è un uomo che da vario tempo vive con una donna da cui ha avuto una figlia. Non si possono sposare perché la donna ha un marito andato via molti anni prima. Un giorno, però, arriva la notizia che questo marito è morto. Ora tutto si potrebbe sistemare, ma la donna ha un altro amante, non ama più il primo e, pur avendo mentito fino a quel momento, non ha coraggio, adesso, di mentire di fronte al matrimonio; così dice tutto.
L'uomo ne è sconvolto, perde di colpo ogni ragion d'essere e scappa via con la figlia per paesini e città, lungo il fiume (siamo sul Po, in una di quelle regioni affogate di nebbia in inverno e sempre sotto l'incubo delle alluvioni in autunno); nel suo girovagare incontra altre donne: in ognuna cerca lei, la fedifraga, e ognuna, perciò, presto o tardi lo delude. Così eccolo di nuovo al paese, sorretto da una assurda speranza. Ma è l'ultima: l'amante si è sposata e ha anche un altro figlio. E lui allora si uccide.
Una moderna tragedia della solitudine, dunque, e un tentativo, nello stesso tempo, di reinserire l'amore fra i temi drammatici (e non più romantici) della realtà contemporanea.
Antonioni, però, ha espresso qui quelli che sarebbero poi diventati i suoi motivi fondamentali di poesia, più attraverso la cornice e l'ambiente che non attraverso il disegno psicologico e l'evoluzione drammatica dei personaggi. Le pagine più vive e poetiche del film, così, sono quelle in cui il doloroso taedium vitae del protagonista scaturisce da quei tetri panorami fluviali, da quella neve, da quel fango, da quelle grigie e desolate campagne; oppure quando si ritrova, sotto altre forme in figure di secondo piano, incontrate per caso, in situazioni di contorno, in uomini e donne visti quasi di sfuggita, ma tutti più o meno dilaniati dalla stessa pesante solitudine, dall'identico clima di livida sfiducia: la prostituta nella baracca sul fiume, ad esempio, la vita metà agiata e metà insoddisfatta nella casa dove c'è il distributore di benzina (la figlia insaziata, il vecchio padre bistrattato e singolare, più vivo forse della maggior parte degli altri personaggi), la bambinetta che per un po' di tempo il padre si trascina con se, i suoi giochi, le sue infantili parole poetiche, i suoi occhi che vedono più di quanto non dicano...
Sulle figure di primo piano, invece, il dramma perde un po' di precisione, ma là dove la regia ha modo di ridarci in. immagini e atteggiamenti il suo « stato d'animo poetico », scaturisce, esatta, l'emozione intensissima (anche se chiusa e pudica) che l'autore voleva suggerire. Con un linguaggio di così scabra ed avara nudità da ricordare, pur nella sua compiuta perfezione formale, gli esempi più essenziali del primo realismo: un linguaggio che è e vuol essere sempre « pittura », ma una pittura che trae esempio soltanto dal disegno più scarno, dall'ispirazione figurativa più limpida e nuda.
Ed ecco L'avventura. La vicenda, questa volta, è in apparenza piuttosto semplice: comincia con una gita su uno yacht, tra la mondanità e la frivolezza di un mondo che sembra occupato solo a divertirsi. Tra i gitanti, due ragazze: una delle due è lì con l'amante, un uomo ancora abbastanza giovane con cui, nonostante i rapporti tanto stretti, non sembra andare d'accordo.
A un certo momento questa ragazza scompare: morta in mare, rapita, fuggita, non si sa. L'amico e tutti gli altri si danno a cercarla affannosamente, ma non riescono a saperne più nulla. Durante questa ricerca, però, l'amico e l'altra ragazza, uniti nella stessa ansia, finiscono per provare dell'amore reciproco cui, nonostante un primo tentativo di resistenza (date le circostanze), non tardano a cedere, totalmente.
La ricerca, però, continua e lui, che pure ama lei, trova il tempo di lasciarsi andare anche ad una squallida avventura di viaggio; lei se ne accorge, e anzichè fuggire, rimane: e rimane perché sa cosa sono oggi i sentimenti, perché, prima ancora della gelosia, prima ancora dell'amore, può in lei la pietà.
Per tradurre in immagini questi tormenti così fondi e segreti lo stile di Antonioni si è fatto anche più scabro e disadorno, liberandosi volutamente dal bagaglio tradizionale della narrazione cinematografica. (L'inizio, ad esempio, con quei personaggi di cui ignoriamo tutto e che solo a poco a poco ci vengono chiariti, e sempre per via indiretta, e sempre nei limiti dei loro sentimenti, mai in quelli della loro situazione sociale).
Più avanti, quando la ragazza scompare (in uno scenario primitivo e spettrale di isole siciliane folgorate dal sole), il clima diventa quasi arcano, ricorda, per singolare accostamento, Maeterlinck e Kafka, colpisce per il suo realismo, ma scuote nello stesso tempo per il suo mistero gravido di continue allusioni. E, dopo, il dramma vero, quello dei due cuori che si cercano, si tradiscono, si riprendono, sempre un po' oppressi dal ricordo di colei che è scomparsa. Qui Antonioni si è espresso quasi solo con evocazioni sottili di atmosfere e di stati d'animo e con improvvise intuizioni psicologiche, riuscendo nello stesso tempo a curare con levigata esattezza i contorni (una Sicilia quanto mai nuova e preziosa), gli altri personaggi e le situazioni di sfondo: dandoci un'opera desolata, che in più punti agghiaccia e in altri commuove; con uno stile ed una tecnica che, questa volta, raggiungono la più perfetta fusione anche fra tutti gli elementi secondari: dalla musica, al sonoro, alla fotografia.
Con La notte siamo nello stesso clima dell'Avventura. Anche qui c'è una crisi e anche qui la crisi riguarda i sentimenti, nonostante si allarghi poi a tutta intera una società. Chi ne soffre è una donna sposata da anni a un uomo che ha finito per non amare più dato che lo ha visto a poco a poco crollare dal piedistallo su cui lo aveva posto; un uomo stanco, sfiduciato, incapace di suscitare veri-sentimenti e incapace, pur senza saperlo, di nutrirne. Quando la donna si rende conto di quello che le accade (e lo spunto glielo offre la morte di un amico che, invece, avrebbe potuto ben altrimenti amare e stimare) si dà a vagare senza meta per un giorno e una lunga notte nella speranza, forse, di ritrovare qualche punto fermo. In questo vagabondare (che, fra le sue varie tappe, ne ha anche una ad una festa di gente ricca e un po' fatua) la donna a un certo momento ha compagno anche il marito cui, finalmente, rivela la propria scoperta per averne una risposta solo superficialmente consolante, ma che in realtà ancora una volta testimonia della pochezza dell'uomo, della sua superficialità e, in definitiva, della sua impotenza di fronte alla crisi che lo ha distrutto dal di dentro.
Per dirci di questa crisi e, soprattutto, per farcela risultare evidente senza enunciarla mai, Antonioni ha tentato di farla scaturire dalla descrizione di quello che la protagonista incontra nel suo vagabondare, dosandone le reazioni, accordandole all'ambiente attorno o agli altri personaggi, evitando di precisare gesti, situazioni, stati d'animo e lasciandoceli intuire solo attraverso le allusioni e i riferimenti di un linguaggio che, pur partecipando del cinema, deriva quasi sempre dalla letteratura: e da quella più intimistica, più segreta, più ermetica.
Si veda ad esempio, il peso misterioso e sempre allusivo che ha, sull'azione, la morte dell'amico e come accende di note particolari il primo vagabondare della protagonista, alla ricerca dei luoghi dove nacque, in tempi lontani, l'amore per il marito. Com'è allucinata, dopo, quella passeggiata, com'è carica di realistici accenti, pur navigando quasi nell'irreale 'e nel fantastico, essendo soprattutto la proiezione di un sentimento, lo spettro di un ricordo.
Più in là, nel suo apparente disordine, com'è lucida e livida quella festa notturna in cui attorno ai due protagonisti viene ad aggiungersi il coro degli altri, un coro forse altrettanto disperato e teso a mete che ignora e che oscuramente cerca nell'apatia e nel dubbio.
Pagine « scritte » con una penna che sembra incepparsi in un ritmo poco fluido, ma che, in realtà, riesce a evocare con tecnica preziosa le atmosfere più riposte, i climi più impalpabili e arcani. È qui, forse, che il film rivela la sua maggiore suggestione: in quel suo intimismo che, valendosi quasi dei modi del teatro silenzista, ci svela i temi più reconditi senza affrontarli mai di petto, ma facendoli suggerire da altri dettagli, in un'arsura di cose sottaciute ed espresse sempre e soltanto dall'interno.
La crisi dell'amore, conseguenza della più generale crisi che mina gli uomini del nostro tempo e specchio lucidissimo dei mali che ci distruggono, è alla base anche dell'Eclisse. Lei non riesce più ad amare un uomo cui è stata legata per anni e lo lascia; lo lascia avendo capito che lui non arriverà mai a comprendere quello che lei chiede all'amore e avendo anche capito che lei stessa non saprebbe mai farglielo intendere. Pochi giorni dopo incontra un giovane che è il contrario di lui (e anche di lei): concreto, deciso, dinamico, assetato di vita fa l'agente in Borsa e il denaro è il suo solo idolo; si accorge di piacergli, come una donna giovane e bella piace a un uomo giovane e vivo, e pur sentendolo così diverso si affida, sia pure con riluttanza, alla speranza di un tentativo nuovo, alla possibilità di un incontro in cui riuscire a spiegarsi, a spiegare, a chiedere, ad avere.
Ma è troppo murata viva per riuscire a parlare e lui è troppo figlio del suo tempo per intuire quello che lei non riesce a scoprire in se stessa, nel suo animo soffocato dai troppi « non so », « non capisco », non vedo », e poiché per lui l'amore è solo sesso, suona con lei unicamente quella nota.
È una nota, però, che a lei non basta e che lui, distratto dal turbine della sua vita troppo attiva, deve sottoporre a continue variazioni, a perpetui, veloci mutamenti: così, dopo un pomeriggio di passione, si danno un appuntamento cui nessuno dei due pensa di andare perché sanno entrambi che è inutile. E tutto finisce.
La coscienza di questa inutilità è la chiave poetica del film, come lo è la sensazione dolorosa di questa trasformazione degli uomini in cose, di questo soggiacere dell'individuo alla prepotente materia che dovunque lo circonda, impedendogli ogni gesto, soffocandogli ogni voce, oscurandogli la vista. Antonioni ha descritto questa trasformazione, nel vivo di tre personaggi perfetti, con uno stile che lucidamente è riuscito ad adeguarsi al significato del dramma, uno stile che ha isolato i personaggi in mezzo alle cose per mostrarci meglio il peso che via via le cose esercitano su di loro e che, sia quando ha scritto le splendide pagine della Borsa (radiografia allucinata del mito dell'oro), sia quando ha rievocato attorno alla vicenda la modernissima cornice romana dell'EUR (anticipazione architettonica di un ancora incompiuto domani), ha sempre fatto in modo di puntualizzare liricamente ad ogni passo gli stati d'animo dei protagonisti, la loro paura del vuoto, la loro ricerca, e, soprattutto, la vanità terribile di questa ricerca. Dando vita a un'azione che, pur nell'austerità di temi e di modi a lui sempre così congeniale, sa perfettamente adeguarsi alle esigenze più intelligenti del racconto cinematografico (anche se volutamente inteso, quanto a sviluppi psicologici e a puntualizzazioni di stati d'animo, come un testo letterario).
Tra i momenti in cui più felice è l'incontro tra il senso del cinema e questa nuova dimensione letteraria, la sequenza iniziale - il muto, inaridito distacco all'alba dei due amanti - e quella finale che, annullati i personaggi nelle cose, chiede solo alle cose di « raccontare » il dramma delle crisi di oggi.
E il ritmo? La storia si snoda con un respiro dapprima trattenuto e raccolto, a indicare il silenzio che scende a invischiare i rapporti tra i personaggi, poi concitato, teso, affannoso quando analizza, con la impetuosa descrizione della Borsa, una delle ragioni più evidenti di questo silenzio, quindi trepido ed esitante quando segue il nuovo tentativo amoroso della protagonista, e finalmente solenne, sorretto da cadenze quasi fatali, quando le cose si sostituiscono agli uomini e le immagini, che sembrano da documentario, riecheggiano invece un'umanità gridata e straziata, dolorosa e ferita.
Meno compiuto dell'Eclisse, ma sotto altri aspetti egualmente significativo, Deserto rosso, il film che consentì ad Antonioni di ottenere il « Leone d'Oro » alla Mostra di Venezia del 1964.
Ancora l'incomunicabilità (secondo le tematiche care ad Antonioni), ma una incomunicabilità, questa volta, che, anziché essere il retaggio fatale della nostra condizione umana contemporanea, sembra nascere da un dato molto preciso, una nevrosi, e non da una nevrosi provocata dal nostro modo di vivere, o da un ambiente, o da un rapporto difficile, ma puramente e semplicemente, si direbbe, quasi, traumaticamente, da uno choc seguito ad un incidente di auto.
È proprio dalla concretezza realistica di questo elemento che nascono le riserve nei confronti del film, perché se abbiamo sempre creduto in Antonioni, poeta dei mali psicologici del nostro tempo, specchio, forse anche parziale ma certo lucidissimo, della nostra epoca, riesce più difficile credere in un Antonioni che aspira a diventare il poeta delle malattie psichiche di questo stesso nostro tempo.
A parziale giustificazione di questo « volo » più dimesso, però, va detto che l'interesse che sembra indirizzare Antonioni ad analizzare i sintomi e le conseguenze di una nevrosi, intensa in senso patologico, non solo non è diverso da quello che lo induceva ad analizzare l'incomunicabilità psicologica e morale, ma forse è promosso proprio da quello; quasi, dopo tanti mali astratti, egli abbia sentito il bisogno di analizzarne uno concreto, direttamente colto nel vivo di una realtà spicciola e comune.
Questa giustificazione trova conferma nel modo con cui egli ha tradotto poi sullo schermo il suo racconto, un modo che, quanto a fervore espressivo, non ha nulla da invidiare ai suoi film precedenti (che anzi supera per una novità degna della più viva ed ammirata attenzione: l'impiego del colore, con un gusto e con delle intenzioni del tutto nuove al cinema e con effetti a tutt'oggi mai raggiunti sullo schermo). Ancora una volta, i suoi cardini sono, per un verso, un'assoluta essenzialità di linguaggio, e, per un altro verso, un'assoluta libertà da ogni convenzione drammatica; le situazioni, infatti, la loro preparazione, i loro sviluppi, non obbediscono mai alle esigenze. comuni del "compiuto" e del "risolto", ma ci vengono prospettate solo in parte, spesso senza inizio, né fine, non interessando mai all'autore il significato o il loro peso narrativo, quanto piuttosto (ed esclusivamente), Ili stati d'animo racchiusi nelle loro pieghe e via visi dipanati nel corso del racconto, non in base ad un ordine logico dei fatti, ma sempre e solo in base ad un processo di evoluzione psicologica dei personaggi, chiamati costantemente in causa in quanto possessori di un sentimento e non mai in quanto protagonisti di un'azione (l'azione c'è, ma viene dopo ed è solo la cornice dei pensieri, dei desideri, dei moti del cuore).
Questo sistema, figurativamente risolto con un seguito di immagini preziosissime e quasi sempre statiche (ricche di un ritmo interno, ma sorrette esternamente da un respiro lento e disteso), rischia forse di negare al film le cadenze dello spettacolo cinematografico normale, ma non v'è dubbio che le sostituisca con una concentrazione drammaticamente e psicologicamente così intensa da pretendere, senza fatica, anche con queste remore, almeno l'attenzione dello spettatore provveduto ed attento.
Anche perché - e qui è il pregio più suggestivo del film, forse il segreto più nobile della sua vitalità artistica - Antonioni, per dare la preponderanza agli stati d'animo sui fatti, ha chiesto al colore di soggettivizzare per i personaggi questi stati d'animo, un po' come Wagner aveva chiesto alla musica di dare luce alle parole, e in questa soggettivazione ha raggiunto, tecnicamente e drammaticamente, la più compiuta perfezione.
Le sue immagini, infatti, oppresse dal tedio lugubre di un inverno quasi monocromo, dove la neve e il suo ricordo recente sembra dominare ogni dettaglio, sono soprattutto il riflesso di quello che vedono, sentono e soffrono i suoi personaggi; sono, cioè, la raffigurazione cromatica della nevrosi, il risultato ultimo del modo con cui le cose, le persone e il mondo sono visti da qualcuno che, improvvisamente, ha perso ogni vero contatto (rapporto e comunicazione) con essi. Dominano, così, i colori disfatti, i colori « non colori », i colori irreali, il bianco, il grigio, il lattescente, il fumoso, secondo tutte le gradazioni brumose delle nebbie; dominano - anche là dove c'è luce e dove le cose, illuminate, dovrebbero avere tutte le loro tinte naturali - quei pochi colori sbiaditi con cui le albe piovose o i tramonti d'inverno colorano la natura; e se su queste tinte senza luce (che rendono bianco persino un bosco e cremosa come fango l'erba dei prati) campeggiano alcuni dettagli " colorati ", non si tratta mai di colori realistici; sono soltanto abnormi colorazioni con cui gli occhi dei personaggi, portando la loro attenzione su di un determinato dettaglio, lo fissano, lo ingrandiscono e, in definitiva, vedendolo, lo interpretano.
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
Eravamo insieme sul treno della Cina, vecchi vagoni che sbattevano da una parte e dall'altra, arnesi malandati di prima della guerra e di prima della rivoluzione. Eravamo in un vagone vuoto che correva all’impazzata. Era tutto vecchio ma anche tutto nuovo e mai visto, come nella fantascienza di Jules Verne, il passato che svela il futuro. Tu eri in piedi nel corridoio fra le panche. Guardavi quello strano paesaggio familiare e ignoto che era la Cina ai tempi della rivoluzione culturale. Non volevi perdere neppure un dettaglio. Con l’aria tranquilla e assente che avevi sempre quando stavi preparando un film (ti ho visto nei giorni della Avventura, della Eclisse, di Deserto Rosso, di Zabriskie Point e quando abbiamo lavorato insieme, con Calvino e Tonino Guerra) compilavi mentalmente un tuo percorso di cose da fare che avrebbe provocato una rivolta per troppo lavoro persino tra le guardie rosse.
A un giovane di nome Chou che continuava a dirti che il traffico di biciclette e di camion sulla strada delle tombe imperiali non si poteva bloccare, lo hai detto con severità: «Chow, non lavorerai mai più con me.» e hai mandato Andrea Barbato, con la sua sahariana allampanata, a dirigere il traffico, ovvero a bloccarlo perchè lo potessi filmare il viale delle tombe imperiali deserto, tra lo stupore silenzioso delle migliaia di cinesi che ci stavano guardando.
C'era molto della tua vita in quel viaggio e in quel film in Cina. C'era Enrica, che è restata con te tutta la vita nella buona e nella cattiva sorte, e ha fatto la tua parte, intelligente e amorosa, perchè la tua restasse sempre una vita straordinaria.
C'era Andrea Barbato, amico da tanto tempo, che ha scritto il testo di quel film, e con me c’era anche Alice appena arrivata dall'America (era venuta con me anche nel New Mexico al tempo di Zabriskie Point). E c’era quella tua piccola troupe straordinaria, Luciano Tovoli era il direttore di Fotografia, che ha lavorato come se ci fossero dieci unità di riprese speciali invece di un'unica macchina da presa. Un bel grattacapo lo hai dato alla nostra scorta di bravi ragazzi maoisti quando hai gridato: «Ferma qui. Ho detto qui, adesso». Ma la macchina correva. Avevi visto un mercatino (spontaneo, dunque proibito) di contadini sul ciglio della strada. Nell'epoca della rivoluzione collettiva eri deciso a filmarlo. E poichè, sordi al tuo richiamo, i nostri collaboratori cinesi non si sono fermati, tu non ci hai messo un secondo. Ti sei buttato fuori e giù dalla macchina con una buona tecnica da stunt man che sa come ruotare sulla spalla per alleggerire l'impatto.
ll mercatino proibito c’era nel tuo film, e forse ha contribuito alla condanna ufficiale del film non da parte di Mao ma della Banda dei Quattro. Qualcuno la ricorda? L'intrigante moglie del leader cinese, il ministro della Difesa Lin Hao... Ricordo che - dopo - hai detto, senza l’ombra del vittimismo: «E va bene, ho un miliardo di nemici». Non capita a tutti.
E anche vero che Chou En Lai, rimasto a lungo ministro degli Esteri di quel Paese, ti aveva fatto trovare aiuto quando i percorsi erano sbarrati, e ha impedito la distruzione del film negli anni della «grande condanna». Ho ancora la fotografia dell'incontro in cui promette il suo aiuto.
E poi l’altra metà del mondo (allora eravamo in pochi sulla terra) ha tributato al tuo Chun Kuo l’onore che meritava, unico documento (bellissimo, raccontato da Barbato e con le musiche di Luciano Berio) su un Paese che allora era ermeticamente vietato alle telecamere e alle riprese dei film.
Ma quell'immagine del treno della Cina, un progetto ostinato, un amore, pochi amici, e quel tuo stare in piedi, nel. fracasso e nello sbandare del vagone, a guardare tutto, a non perdere neppure un dettaglio con la coda dell'occhio, ce l’ho davanti adesso perchè è l’immagine della tua vita, un lungo filo di scoperta, invenzione, sguardo nuovo, cambiamento, come se fosse il più normale e tranquillo dei mestieri, la più ovvia delle cose da fare.
Prima e dopo ci sono i capolavori della tua vita e di tutta la nostra epoca di cui in tanti torneranno a parlare perchè il tuo lavoro ha spostato il percorso del Cinema, non solo di quello italiano.
Di recente gli eredi e familiari di Mark Rothko, il grande pittore ucraino-americano, hanno trovato e pubblicato una lettera che lui ti ha scritto negli anni Sessanta. Fa riferimento a un incontro con me nel suo camerino-studio alla Bowery, in cui lui mi parlava del tuo cinema e io gli raccontavo ciò che tu avevi detto della sua pittura.
Poi c'è stato l’incontro e mi resta l’orgoglio di avervi partecipato. Il tutto raccontato in un grande catalogo di Rothko che sarà pubblicato a New York in ottobre. Vi si leggerà che uno dei grandi che hanno cambiato la pittura nel mondo, ha voluto trascorrere un giorno con il regista di cui conosceva tutto, per dirgli che, cambiando il Cinema, anche lui aveva cambiato la pittura.. E tutto ciò è solo una piccola parte del tuo lavoro e della tua vita. Bello essere stato presente.
Da L’Unità, 1 agosto 2007
«È venuta meno una personalità luminosa, uno dei più grandi registi del mondo». Ha la voce commossa, dall'altro capo del telefono, Tonino Guerra. Si capisce quanto sia grande il vuoto lasciato da Michelangelo Antonioni, di cui è stato amico e collaboratore per quasi cinquant'anni.
Era il 1960 quando lo sceneggiatore e il regista iniziarono il loro cammino artistico comune con un titolo profetico: L'avventura. Seguirono altre undici pellicole indimenticabili, tra cui La notte, L'eclisse, Deserto Rosso, Zabriskie Point. «In tutto il mondo i suoi film sono guardati con ammirazione, soprattutto Blow Up e L'avventura - racconta Guerra con orgoglio -. I suoi insegnamenti sono stati seguiti da tutti i registi, soprattutto su come girare le immagini. Il piano sequenza, per esempio è un'invenzione sua». Ma, ricorda lo scrittore, Antonioni fu rivoluzionario anche nei contenuti delle sue pellicole. «Eravamo nel dopoguerra, e mentre nel cinema c'era un grande interesse per la povertà e gli operai, lui guardò per primo alla borghesia e alle donne. Portò, insomma, sullo schermo quel mondo che dalla guerra era uscito più perdente degli altri».
Il grande sceneggiatore, però, si schermisce quando gli si ricorda che il suo contributo è stato essenziale in molti capolavori di Antonioni. «Questo non lo devo dire io: è vero che se abbiamo girato insieme dodici film, un certo singolare feeling tra noi c'era». Una sintonia particolare, non c'è dubbio, nonostante Guerra abbia lavorato con i più grandi maestri del cinema italiano. A partire da Fellini, per cui lo sceneggiatore di Sant'Arcangelo di Romagna scrisse un capolavoro tenero e sanguigno come Amarcord, vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel 1973. Senza contare i lavori con De Sica, Monicelli, i fratelli Taviani, Rosi, Tarkovskji, Wenders, Angelopoulos. Il curriculum di Guerra è da palmarès: nominato tre volte all'Oscar per la miglior sceneggiatura (A marcord, Blow Up e Casanova '70), vincitore a Cannes (Taxidi sta kithira di Angelopoulos), di tre David di Donatello (E la nave va, Kaos dei Taviani, Tre fratelli di Rosi) e di 5 nastri d'argento (tra cui per La notte di San Lorenzo). Eppure con Antonioni, era tutto speciale. E se gli si chiede di spiegare che cosa si sono scambiati di importante in tanti anni di amicizia, Guerra ricorre al suo celebre umorismo disincantato: «Io arrivai a Roma vestito da contadinotto padano e conobbi Michelangelo che mi portò verso l'eleganza della città. Io credo che a suo modo lui, cittadino, da me abbia preso qualcosa di campagnolo». Guerra torna serio quando ricorda la lunga malattia, affrontata con coraggio dall'amico. «Da 20 anni era semiparalizzato da un ictus, camminava a fatica e pronunciava poche parole. Ma per lui lavorare e creare immagini voleva dire essere vivo». Una sofferenza, quella del grande regista, che si trasformava in forza espressiva anche negli ultimi film. «È vero, la sofferenza dà una forza in più, uno sguardo diverso sulla vita - ammette Guerra -. Io l'ho provata in prigionia in Germania, quella di Michelangelo è stata diversa, più violenta, ora era anche diventato cieco, il che per un regista è davvero drammatico. Negli ultimi 20 anni non si poteva parlare tanto con lui, ma si dialogava con gli occhi. Occhi da cui trasparivano eleganza e semplicità, che erano le stesse dello sguardo della sua cinepresa». Il cinema di oggi, quindi, perde un maestro insostituibile. Anche perché i tempi sono profondamente cambiati. «Chi veniva dal dopoguerra aveva provato delle sofferenze comuni, di qualunque e nazionalità fosse. Quindi con i nostri film parlavamo al mondo. Oggi - conclude rassegnato - raccontiamo solo cose che interessano a noi, e i nostri racconti sono di respiro corto».
Da Avvenire, 1 agosto 2007
Poche ore dopo Bergman, se n’è andato anche Michelangelo Antonioni. Quasi una sceneggiatura. Due simboli, due giganti del cinema e della cultura del Novecento. Il grande regista ferrarese è spirato nella serata di lunedì, avrebbe compiuto 95 anni il 29 settembre. Stamane verrà allestita in Campidoglio la camera ardente, domani alle 9.30 le esequie a Ferrara, nella basilica di San Giorgio fuori le Mura.
Prima di perdere l’uso delle proprie membra e della parola per l’ictus che lo colpì nel 1985, Michelangelo Antonioni fece molte cose oltre a dirigere film. Disegnò, fotografò, scrisse molto. Articoli per quotidiani e riviste, saggi, copioni di film, racconti. Ma non credo possano servire come guida diretta per intendere il suo cinema. Non si cerchi in questi scritti, anche se non d’occasione, frammenti di vita, propositi o confessioni al modo di Ingmar Bergman i cui libri ci svelano o ci aiutano a intendere meglio la sua opera. Vi si rinvengono piuttosto intuizioni, prime ipotesi di poetica.
Antonioni non è mai stato uomo di parte. Anche durante il fascismo si tenne lontano da quella "fronda" che interessò parecchi suoi coetanei, specie se intellettuali. Viveva a Ferrara, città di cinefili. Amava gli sport, le gite sul Po, le partite a tennis. Scriveva recensioni di film sul Corriere padano, quotidiano diretto dal padre di Folco Quilici. Venne presto a Roma e trovò un lavoro di redattore presso l’importante rivista Cinema. Intanto era chiamato per sceneggiature. Più avanti, dopo la Liberazione, durante il neorealismo Antonioni difese le ragioni di quel movimento artistico, ma non lo condivise radicalmente anche se colori realistici distinguono tante sue opere. Una delle prime s’intitola I vinti ed è del 1952. Descrive dei giovani, ribelli ovviamente. Ma il ritratto meglio riuscito del film è la figura di un giovanotto indolente e amorale che ruba dei soldi a una ragazza che si è innamorata di lui.
Si prenda una sua recensione a La terra trema di Visconti. Non pro pone alcun rimando di carattere strettamente politico. E, cosa impensabile per i critici del 1949, sottolinea che «forse è proprio nel distacco tra autore e ambiente, tra autore e personaggio, la ragione di un risultato», poeticamente puro. Ad Antonioni non interessa, dunque, la fusione tra autore e paesaggio, tra autore e personaggio.
Non che negli anni della militanza cinematografica a tempo pieno (la regia) Antonioni sia un alieno nel pianeta cinema. Sa bene che il cinematografo è legato alla vita, alla società e lo sottolinea fin dalla stagione del suo sconcertante esordio. Da quella Cronaca di un amore (1950), con Lucia Bosè, che affascinò i giovani spettatori. Li conquistò non con la descrizione, magari perfetta, del mondo escluso, degli altri, dei poveri, ma con la rappresentazione di un ambiente "alto", di una donna bellissima, di un intrigo amoroso che rimandava al grande romanzo e non alla cronaca. Li colpì profondamente per l’uso insolito della cinepresa, quelle sequenze che non parevano dover mai finire e scoprivano particolari "segreti" dei personaggi. Fin da allora, più che altro, Antonioni è interessato a smontare l’oggetto-film, a negarne l’apparente oggettività come avverrà nelle opere della piena maturità: in quel nuovissimo, per allora, Blow-up (Palma d’oro a Cannes nel 1966) o in Professione: reporter (1975). Per lui il soggetto non va considerato come una "trovata", uno spunto bizzarro o insolito (e, infatti, le sue "storie", a cominciare dai sorprendenti film sull’alienazione con una Monica Vitti ancora bionda e sempre in crisi, tormentata e sofferente, si faranno sempre più rarefatte). A contare è l’"intelaiatura" dell’opera finita (la "concretezza" di un film).
Il colore era per lui una proposta anche d’ordine narrativo. E lo dimostra Deserto rosso (Leone d’oro a Venezia nel ’64), che viene dopo film mirabili in bianco e nero come La notte (1960) o L’eclisse (1962) o il pavesiano Le amiche (1955): si badi a quella spiaggia dove nuota, finalmente libera, la protagonista. Tutto vi è rosso, splendente. La coloritura di un film diventa, quindi, una delle sue componenti, ha un’importanza forse non inferiore a quella dei personaggi.
Quello che conta sono per Antonioni le immagini – i dialoghi lo infastidiscono, dice che la gente parla male e fa in modo che anche le sue figure narrative si esprimano in un italiano non perfetto, non da "dialogo da film" –, che scandiscono l’unità ritmica dell’opera. Insomma da sempre Antonioni ha cercato una "visibilità" che enuncia, ma non spiega. Non teorizza, ma dimostra. Lo affascinano le "storie" immerse nel chiaroscuro, nell’ambiguità, sospese tra distacco morale o moralistico e consenso all’"estraneità" dei suoi protagonisti. Come emerge dai suoi ultimi film, quando riprende l’attività dopo l’ictus che paralizzò il lato destro del suo corpo. Aiutato dalla nuova compagna Enrica Fico (sua assistente alla regia, sposata nel 1986) e dal regista Wim Wenders, Antonioni torna dietro la macchina da presa nel 1995 per Al di là delle nuvole e, tre anni fa, per l’episodio Il filo pericoloso delle cose, insieme a Soderbergh e Wong Kar Wai. Il suo ultimo sguardo in celluloide.
Da Avvenire, 1 agosto 2007
Il mondo intero piange il nostro «gigante del cinema» che si è spento serenamente con accanto la moglie Enrica Fico. Messaggi di cordoglio hanno riempito le pagine della stampa internazionale, mentre oggi è stata allestita (dalle 9.30 alle 12.00) la camera ardente in Campidoglio, fino a giovedì, quando la salma di Michelangelo Antonioni verrà portata per i funerali a Ferrara, sua città natale, dove sarà intitolata una piazza o una via in sua memoria. E oggi pure il festival di Locarno gli dedica la sua storica Piazza Grande. Per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Antonioni «ha improntato tutte le sue opere a una profonda indagine sulle tensioni individuali e le difficoltà nelle relazioni interpersonali che segnano la società contemporanea. Con un linguaggio fortemente innovativo ha elaborato una incisiva critica all’indifferenza e alla mancanza di coesione». Mentre per Walter Veltroni, «con Antonioni scompare non solo uno dei più grandi registi viventi, ma anche un maestro della modernità del cinema, che perde un autore senza il quale non sarebbe stato lo stesso, ma anche le arti figurative e la narrativa più penetrante restano prive di una voce inimitabile. Grazie al cinema di Antonioni anche la realtà acquista un significato diverso». Il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Francesco Rutelli, lo ha definito un «osservatore acuto del male del Novecento in tutte le sue espressioni. Riflette il malessere delle nuove generazioni legate alla contestazione, ai dubbi e alle speranze del cambiamento sociale». Ieri sul set di "Tutta la vita davanti" il regista Paolo Virzì lo ha definito «un riferimento importante per il cinema e la cultura, e soprattutto un innovatore del linguaggio. Ha introdotto nel cinema l’interiorità, rendendo questa arte più adulta. Prima è morto Bergman, il giorno dopo Antonioni, una coincidenza importante, entrambi avevano un percorso in comune, quello di dare rilievo all’animo dei caratteri femminili. Antonioni per me è stato uno dei registi più femministi che abbiamo avuto». Il press agent Enrico Lucherini ha ricordato quando in "Deserto rosso", «Monica Vitti dice la famosa frase, "mi fanno male i capelli". E tutti dicevano che era meglio tagliarla, ma lui non volle farlo. Era una persona particolare, a volte andando a casa sua trovavo lui e Monica Vitti che parlavano con i mobili». Per il pungente e brillante Dino Risi è scomparso «un monumento del cinema, anche se non eravamo fatti l’uno per l’altro, lo trovavo un po’ cervellotico. La morte insegue i grandi registi - ha poi aggiunto riferendosi a Bergman -. Ho sempre detto che non ero uno dei fanatici di Antonioni. Alcuni film mi sono piaciuti, molti altri meno, uno tantissimo, "Blow Up"». Non è un caso se Risi fa dire al protagonista del Sorpasso, (interpretato da Vittorio Gassman) una corrosiva battuta sul collega-rivale ("Hai visto "L’Eclisse"? Io c’ho dormito... però, gran regista Antonioni"). Paolo Taviani, «al di là della tristezza del momento», vede il senso di una scomparsa che segue a quella di altri due protagonisti del cinema mondiale come Michel Sarrault e Ingmar Bergman: «Quello di Antonioni è il cinema più imitato nel mondo ancora oggi, specie in Oriente». Rammarico infine da parte di Ornella Muti per non aver lavorato con «un maestro che ha regalato sfumature uniche alla sua cinematografia, con emozioni, ombre, cuore e stato d’animo».
Da Il Tempo, 1 agosto 2007
Per uno strano scherzo del destino, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni, i registi che meglio hanno indagato la profondità dello spirito umano rivoluzionando per sempre la storia del cinema, si sono spenti a poche ore di distanza. Il grande regista ferrarese - che avrebbe compiuto novantacinque anni tra poco più di un mese - si è spento lunedì sera a Roma, verso le ore venti, su una poltrona, con accanto la moglie Enrica Fico. Con la morte dell’ultimo grande Maestro del cinema italiano si chiude un’epoca. Nato a Ferrara il 29 settembre 1912, Michelangelo Antonioni, definito il regista dell’incomunicabilità, frequentò il Centro sperimentale di cinematografia e negli anni Quaranta collaborò ad alcuni progetti di Roberto Rossellini e Luchino Visconti. Nel 1950 dirige il suo primo lungometraggio, “Cronaca di un amore”, in cui descrive la crisi di una coppia e dà il via a quella raffinata indagine delle problematiche più diffuse del mondo contemporaneo, come l’incomunicabilità e l’angoscia del vivere. Nel 1955 dirige “Le amiche”, tratto da una raccolta di racconti di Cesare Pavese, e l’anno successivo “Il grido”, viaggio attraverso la Pianura padana, dolente racconto della crisi esistenziale di un uomo. L’insuccesso commerciale del film costringe il regista a dedicarsi brevemente al teatro. Tornò al cinema nel 1960, con la celebre trilogia composta da “L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse”. E nel 1964 con il suo primo film a colori, “Il deserto rosso”, analizza il difficile rapporto tra ambiente sociale e individuo. In questi quattro, Antonioni film porta all’estremo la sua indagine su alienazione e incomunicabilità. Una tematica che diventa pessimismo e rifiuto della realtà in “Blow-up”. Con “Zabriskie point” (siamo nel 1969), il Maestro racconta a suo modo la contestazione giovanile, e con “Professione reporter” nel ‘74 affronta l’impenetrabilità della realtà attraverso un repentino cambio di identità del protagonista. Dopo aver girato “Identificazione di una donna”, nell’82, viene colpito da ictus cerebrale, che lo priva quasi completamente dell’uso della parola. Nel 1995 torna dietro la macchina da presa assistito da Wim Wenders con “Al di là delle nuvole”, dove traduce in immagini alcuni racconti del suo libro “Quel bowling sul Tevere”. Tutto il cinema di Antonioni è percorso dall’ossessione per la ricerca formale, dal culto dell’immagine, dall’attenzione allo “sguardo”. Ancora di recente, lo scrittore e regista francese Alain Robbe-Grillet, che aveva pensato al regista ferrarese per il suo film “La fortezza” (mai realizzato), dice di Antonioni: “Non ho mai capito come abbiano potuto definirlo il cineasta dell’incomunicabilità: i suoi film sono tutta una festa, un invito, una scuola di sguardi”. Autentici protagonisti “metafisici” dei suoi film sono gli stati d’animo, i vissuti interiori dei personaggi (quasi sempre borghesi di età compresa tra i 20 e i 40 anni), i riflessi dei fatti sugli individui, più che i fatti stessi. È così nelle crisi di coppia raccontate nella trilogia “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”; è così per l’alienazione descritta in “Deserto rosso”; per l’inquietante scoperta di un delitto fatta in “Blow up” (grazie all’elaborazione di un’immagine, non a caso); per l’“incontro” con il cadavere di uno sconosciuto in “Professione reporter”. E le inquadrature lunghe, che hanno fatto parlare di cinema “lento” e “noioso”, servono in realtà a seguire i moti interiori in un tempo che sembra fermo, in uno spazio dilatato ed enigmatico. Anche i luoghi, gli oggetti, le cose, protagonisti del cinema di Antonioni tanto quanto gli uomini, contribuiscono a rappresentare l’ineffabile della condizione umana (l’isola de “L’avventura”, la Milano algida e futuribile della “Notte”, le fabbriche inquinanti di una città industriale del Nord in “Deserto rosso”, il deserto, quello vero, in “Professione reporter”, la nebbia di “Identificazione di una donna”). In questo miracolo di rigore e introspezione, sta l’autorità di un regista che ha segnato un’epoca e fatto proseliti entusiasti conquistando molti premi importanti. Sono due Leoni d’oro a Venezia (nel 1964 per “Deserto rosso” e nel 1983 alla carriera) e una Palma d’oro a Cannes (nel 1967 per “Blow up”). Pur limitato dalla malattia, Antonioni, dopo il definitivo accantonamento del progetto della “Ciurma”, un soggetto conradiano ispirato ad un suo racconto, “Quattro uomini in mare”, ha diretto, a dodici anni di distanza da “Identificazione di una donna”, il nuovo film “Al di là delle nuvole” accanto al suo grande estimatore e collega Wim Wenders: un film che aveva dovuto superare traversie produttive e polemiche, che avevano anche portato alle dimissioni di Felice Laudadio da amministratore delegato dell’Istituto Luce, colpevole, secondo Laudadio, di ritardare la decisione sui finanziamenti al film, poi realizzato col contributo di Vittorio Cecchi Gori. “Sento quest’impegno come fondamentale - aveva detto Wenders -. Aiutare Michelangelo a realizzare un film che insegue con straordinaria determinazione: devo a lui, primo ‘pittore dello schermo’, se sono diventato regista”. Antonioni era poi tornato sul set due volte: prima per un documentario sul Mosè di Michelangelo restaurato (presentato a Cannes) e poi per realizzare uno dei tre episodi (“Il filo pericoloso delle cose”) che compongono “Eros”, presentato a Venezia 2004. Ed era riuscito ancora a far parlare di sé, più che per la consueta eleganza e la rarefazione delle immagini, per il fatto che, proprio dal più anziano dei tre (gli altri sono Steven Soderbergh e Wong Kar-Wai) fosse arrivato l’episodio più osé, tanto da spingere il produttore francese a tagliare tre minuti di una scena in cui la protagonista femminile si masturba. La scomparsa di Michelangelo Antonioni ha provocato grande dolore, nel mondo della cultura e della politica. A cominciare dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui “il nostro Paese perde uno dei più grandi protagonisti del cinema e della ricerca espressiva del Novecento, che nella sua lunga e feconda esperienza artistica ha dato vita a creazioni tra le più significative anche sul piano internazionale. Attraverso un linguaggio fortemente innovativo e una straordinaria capacità interpretativa, ha elaborato una incisiva critica all'indifferenza e alla mancanza di coesione, rivelando sensibilità umana e suscitando riflessioni sul dramma della solitudine”. Con Michelangelo Antonioni scompare “un monumento del cinema”, anche se “non eravamo fatti l’uno per l’altro, lo trovavo un po’ cervellotico”. È brillante e pungente come sempre Dino Risi, vecchio maestro della commedia all’italiana, nel ricordare l’illustre collega scomparso (“È la morte che insegue i grandi registi”, sospira, pensando anche a Bergman). “Ho sempre detto che non ero uno dei fanatici di Antonioni - spiega Risi -, alcuni film mi sono piaciuti, molti altri meno. Uno tantissimo, “Blow Up”. Un rapporto di reciproca stima, dunque, ma con differenze ben marcate. Non per niente Risi fa dire al protagonista del “Sorpasso”, Bruno Cortona (interpretato da Vittorio Gassman) una celebre e corrosiva battuta sul collega-rivale: “Hai visto l’Eclisse? Io c’ho dormito, una bella pennica...Gran regista Antonioni”. “Era una mia piccola frecciatina - ricorda oggi Dino Risi - ma la battuta non è mia, è del protagonista, un cialtrone che non sa nulla di arte, e a cui certo i film di Antonioni non possono che far dormire”. Lo stesso Antonioni, rivela Risi, “era il primo a riderne, era molto spiritoso. So che “Il Sorpasso” gli era piaciuto, e si era divertito alla battuta”. Una “morte densa”, quella di Michelangelo Antonioni. In primo luogo per come è maturata: “Sotto una spinta creativa che portava l’uomo a scrivere e dipingere, fino all’ultimo momento”. In seconda istanza per “la resistenza alla morte del regista, che è il simbolo stesso della forza del cinema italiano e non solo”. In questi due elementi il regista Paolo Taviani, “al di là della tristezza del momento”, vede il senso di una scomparsa che segue a quella di altri due protagonisti del cinema mondiale come Michel Sarrault e Ingmar Bergman. I due si incontrarono, da giurati, a Venezia: “Fu qualche anno fa - ricorda Taviani - e, con mia sorpresa, ci scoprimmo complici nei giudizi ai film”. Due modi di fare cinema molto diversi ma, d’altra parte, “la grandezza del cinema italiano stava proprio in questa varietà di generi e di stili: convivevano Risi e Fellini, Antonioni e Visconti. E tutti contribuivano a fare grande il cinema italiano”. E quello di Antonioni è, per Paolo Taviani, “il cinema più imitato nel mondo ancora oggi, specie in Oriente. Ci troviamo spesso, con amici e colleghi, a guardare un film asiatico e a dire: toh, sembra Antonioni”. “Fu il primo a descrivere, nell’immediato dopoguerra, le storie della borghesia”. Così il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra, ricorda, commosso, l’amico Michelangelo Antonioni con cui ha scritto la sceneggiatura di diversi film. “Di lui - racconta - ho un ricordo molto bello. Nel film non voleva una musica prepotente; preferiva una musica che nascesse dai rumori. Di insegnamenti ne ha dati tanti, ma questo è uno di quelli che maggiormente mi ha colpito. La mia collaborazione con Antonioni - ricorda Guerra - nacque a Roma: ci siamo conosciuti, abbiamo instaurato subito un gran feeling e insieme abbiamo scritto ‘L’Avventura’ Attraverso il cinema Michelangelo parlava al mondo, descrivendolo in tutte le sue sfaccettature. È stato uno dei più grandi registi al mondo non solo per le storie che raccontava, ma soprattutto per gli insegnamenti che ha dato a tutti sul modo di girare e di adoperare le luci”. “Essere morto un giorno dopo Ingmar Bergman sembra quasi un segno del destino. Sono due grandi maestri che se ne vanno. Ho avuto il piacere di conoscere Michelangelo Antonioni e di frequentarlo soprattutto negli ultimi anni, quelli dei grandi silenzi dove riusciva a comunicare soltanto attraverso gli occhi”. Così l’attore Massimo Ghini ricorda il regista ferrarese: “Conservo con grande affetto una fotografia che mi ritrae con lui in un campo di calcio in Abruzzo, scattata dall’amico comune che ci ha fatto conoscere e soprattutto - ricorda l’attore - ho un bellissimo ricordo sul set dell’unica pubblicità che ho fatto dove vestivo i panni dello Sceicco Bianco. La regia era di Francis Ford Coppola e lui, che era l’autore del soggetto del film di Federico Fellini, venne a dare la sua testimonianza. Inutile dire - conclude Ghini - che è stato uno dei maestri che ha composto il nostro cinema, noi abbiamo purtroppo soltanto la funzione di commemoratori”.
Da L'Avanti, 1 agosto 2007
COME sarebbe stato il mondo senza Antonioni? Che immagine avremmo delle nostre città, delle nostre vite, delle “storie” d’amore o disamore che tutti viviamo o crediamo di vivere se dalle nebbie di Ferrara non fosse emerso un regista ostinato, geniale, intransigente fino allo spasimo, capace di rivoluzionare con una manciata di titoli il modo di fare e guardare i film fino a trasformare, attraverso quei film, la nostra stessa percezione del mondo?
E’ difficile rispondere a questa domanda perché è difficile immaginare qualcuno più lontano di Antonioni da ciò che il pubblico, ieri, oggi e domani, tacitamente si aspetta nel buio di una sala. Eppure Antonioni c’è stato, eccome. Anzi, si può dire che con Rossellini e Fellini, ma perfino più a lungo e profondamente di loro, nessun regista italiano abbia avuto più influenza nel mondo.
E’ Antonioni che ci ha insegnato a guardare oltre la “pelle” del visibile con i suoi film, in testa naturalmente Blow Up, ma anche con i suoi racconti e con le sue inquietanti pitture “molecolari” («Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realta, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà»). E’ Antonioni, con le sue ossessioni filosofiche tradotte in immagini indimenticabili, che ha demolito il gusto del romanzesco, dei personaggi pieni, delle passioni forti, degli intrecci ben costruiti, portando il nostro occhio prima sgomento poi incantato a esplorare tutto ciò che il cinema-cinema rifiuta, i vuoti, i silenzi, le assenze, l’insensato. Finendo per trovare in quella mancanza di senso l’immagine più aderente a un presente a una condizione umana che cambiava troppo in fretta.
Ed è addirittura incredibile che la sua morte segua di un giorno quella di Bergman: perché se lo svedese fu l’ultimo grande umanista, l’ultimo regista capace di raccontare l’Uomo e i suoi conflitti restando lontano dalla Storia e dalla Tecnica, Antonioni invece, anche grazie al suo interesse per ogni novità tecnologica, di qua e di là dalla macchina da presa, annuncia e prefigura i grandi mutamenti epocali con una precisione che a volte gelava gli spettatori ma che avrebbe cambiato per sempre il cinema.
Nulla, nel nostro dopoguerra, lasciava presagire l’eleganza disperata di Cronaca di un amore e poi delle Amiche (peraltro il suo primo successo dopo il fiasco cocente della Signora senza camelie). Nessuno, per anni, accettò di produrre Il grido, straziante anti-mélo che disegnava un paesaggio geografico e umano mai visto e con la sua struttura erratica sarebbe stato uno dei capolavori degli anni ’50. Così come quasi nessuno, a Cannes, capì la trama “aperta” de L’avventura, fischiato senza pietà prima che la critica francese ne facesse una bandiera trasformandolo, oggi sembra incredibile, in un successo planetario.
Eppure Antonioni era appena a metà della sua parabola se dopo la trilogia con Monica Vitti L’avventura, La notte e L’eclisse, il più sottovalutato dei tre e dopo il passaggio al colore di Deserto rosso, decide di cambiare orizzonte (una parola che gli piaceva) cercando in una serie di film realizzati lontano dall’Italia la risposta alle sue ossessioni. Ed ecco il “giallo filosofico” Blow-up, con quelle immagini nascoste dentro altre immagini, segnare l’inizio di una nuova era nei rapporti fra arte e realtà, rappresentazione e verità.
Eccolo spingersi nell’America della contestazione non per raccontarne i volti e i fermenti, come avrebbe fatto un qualsiasi cine-cronista, ma per dar forma al caotico ribollire di energie, sentimenti, pulsioni anche distruttive che arrivava dal paese più ricco del mondo. Eccolo quindi, dopo le stupefacenti immagini “lisergiche” di Zabriskie Point, invertire bruscamente rotta per tornare al documentario delle origini con il fluviale e di nuovo incompreso Chung Kuo: Cina, che gli costerà polemiche violentissime con Pechino per l’insistenza poco ortodossa con cui si soffermava sui volti di contadini e passanti (è sempre lo sguardo a fare scandalo in Antonioni).
Fino a quel Professione: reporter che fondendo in un’unica avventurosa parabola terzomondismo e vuoto morale, sdoppiamento d’identità e discorso “etico” sul fabbricare immagini, ricapitola le tappe essenziali del suo percorso. Il gusto per l’informe e l’informale che si sposa alla passione inesausta per la figura umana; il senso del paesaggio (e del deserto in particolare, luogo antonioniano per eccellenza) e quello del tempo, della durata, che sta dietro la giustamente celebre penultima inquadratura del film, 7 minuti di piano sequenza che rendono visibile, né più né meno, l’arrivo della Morte.
Consegnando definitivamente il cinema di Antonioni a quell’alterità, a quella ricerca di un punto di vista oltreumano che è da sempre il suo segreto. E che è forse il segno più forte di una ricerca che lega in un unico, maestoso movimento, il micro e il macro, il volto e il cosmo, la solitudine dell’uomo e l’insensatezza della natura. Celebrata, esplorata, interrogata fino alle ultimissime, strazianti prove (Al di là delle nuvole, l’episodio di Eros, il magnifico “dialogo” con il Mosè di Michelangelo) di questo mistico senza dio.
Da Il Messaggero, 1 Agosto 2007
Mario Monicelli ha di Antonioni un ricordo tutt'altro che plumbeo e problematico. E quando sente che Dino Risi ha definito l'autore di Blow up «palloso» non può trattenere una risata dissociativa.
Monicelli, lei come giudica il cinema di Antonioni?
«Tutt'altro che palloso. Ha raccontato i rapporti tra la gente, tra uomini e donne e ha saputo rappresentare l'irrappresentabile, l'incomunicabilità solo per immagini; la sua grande qualità di cineasta sta proprio in questi sentimenti non facilmente recepibili. Grande lo era anche nella cura dell'inquadratura, dell'immagine, maestro della lunga sequenza. Appunto, era innamorato dell'immagine e della sequenza, teneva ben presente che tutto era concatenato, il momento che aveva filmato prima dipendeva dal momento che avrebbe filmato dopo. II finale di Professione reporter è magistrale con quegli otto minuti di macchina fissa. La cura e la serietà gli sono serviti per analizzare tutti i temi difficili che poi ha trattato. Con Blow up ci ha restituito una Londra che neanche gli inglesi avevano mai saputo descrivere. E poi non dimentichiamo che è stato uno scopritore di talenti. Ha creato Monica Vitti e Lucia Bosè».
Voi vi vedevate spesso, eravate amici. Come era Antonioni nella vita privata?
«Io l'ho frequentato molto, eravamo veramente buoni amici. Infatti non arrivò per caso l'idea di prendere Monica Vitti, che fino ad allora aveva sempre fatto il suo cinema, per una commedia come La ragazza con la pistola che le spalancò le porte della commedia brillante. Io l'avevo conosciuta proprio a casa di Antonioni e avevo apprezzato il suo essere piena di spirito. Con Michelangelo ne parlammo e lui, dandomi ragione, appoggiò la mia intuizione e tutti insieme decidemmo che poteva essere una occasione ottima per lei. La sera lui riceveva spesso a casa sua per un drink. C'erano Guerra, Sonego, Scarpelli, io, erano serate simpatiche e lui era pieno di ironia. Di quei momenti conservo un ricordo bellissimo, anche quando si discuteva con Fellini, Visconti, ma non solo di cinema ma di politica, della vita».
II cinema di Antonioni ha una sua forza politica destinata a durare nel tempo?
«Certamente è un cinema di ricerca, laico e non di assuefazione. Un cinema antiborghese che ha una sua forza di denuncia».
Da La Stampa, 1 agosto 2007
Scompare con Antonioni un altro grande regista del cinema, fra i più grandi delle sua storia. II caso ha voluto che le sua morte sia avvenuta il giorno dopo quella di un altro maestro Ingmar Bergman, quasi a suggello della conclusione di une straordinaria stagione della settima arte. Ed ë un motivo di orgoglio annoverare il nostro cineasta fra le più alte espressioni del cinema, alla cui opera molti studiosi fanno risalire la nascite di quello che si suole definire il cinema moderno, come la critica unanime proclamò al fin domani della presentazione al festival di Cannes del 1960 de L'avventura, straordinario primo capitolo di un'impareggiabile tetralogia che comprende anche La notte. L'eclisse e Deserto rosso.
Come gli autentici innovatori, Antonioni aveva elaborato pian piano i motivi stilistici e tematici che sarebbero diventati predominanti nel suo cinema futuro, fin da quando nel 1950 esordì, non giovanissimo, con Cronaca di un amore, che sembrò subito come un'eccezione, quasi una deviazione dalla linea maestra del nostro cinema postbellico, caratterizzato dalla grande stagione neorealista. Antonioni, dopo un breve apprendistato registico con il francese Marcel Carné e un più duraturo esercizio critico sulle pagine della nostre maggiori riviste cinematografiche degli anni Quaranta, mostrava con la sua opera prima di voler battere altre strade, aprire, nuovi orizzonti, non già in contrapposizione al neorealismo ma da questo quasi originati per spontanea germinazione, segnandone nuovi tracciati lungo un percorso che avrebbe fatto della borghesia, la nostra borghesia che si stava emancipando dai modelli tradizionali, il suo campo privilegiato d'osservazione.
Questo spiega come, apparentemente in contrasto con una temperie culturale egemonizzata appunto dal cinema neorealista, i suoi film in realtà intendevano proseguire il processo di analisi delle nostre classi sociali che era fra gli obiettivi della maggiore corrente cinematografica di quegli anni. Che cosa sono infatti i suoi film, che con una formula riassuntiva e subito soggetta ad usura, si dissero dell'«incomunicabilità», se non un «altro» specchio della nostra società, parallelo a quello di cui il cinema postbellico era stato espressione?
Lo sguardo di Antonioni ebbe una sua netta definizione con il primo dei suoi grandi film, quel Grido che descrisse, da un'angolazione inconsueta, una classe operaia insidiata dallo stesso male di vivere, dalla stessa discrasia che impedisce quella consonanza dei sentimenti invano perseguita dal protagonista (per interpretare il quale Antonioni volle, con perfetto intuito cinematografico, un attore americano poco noto, Steve Cochran). In questa direzione il suo cinema rivelò pure le sue radici culturali nella letteratura nazionale che aveva avuto in Pavese la sua massima espressione (e non senza ragione fu un romanzo breve dello scrittore. Tra donne sole, che egli traspose, con assoluta libertà creativa, sullo schermo con Le amiche e che, a lato della sua opera cinematografica, se ne svolse un'altra prettamente letteraria e non irrilevante).
Lungo questa linea di interessi si svolge la prima parte della sua filmografia, quasi un prologo alla sua «maggiore fase», esplosa con L'avventura. A questo film si sarebbero spesso riferiti i futuri registi della nouvelle vague francese come ad una delle principali fonti di ispirazione del loro cinema, insieme con pochi altri esempi. E infatti tutti gli esperimenti linguistici del nuovo cinema degli anni Sessanta sono in nuce nell'opera di Antonioni, fin dal film d'esordio, che anticipava quella disintegrazione del filo narrativo secondo . gli schemi classici, quel ricorso a soluzioni espressive innovative sul tronco della tradizione che sarebbero diventati centrali nel nuovo cinema: come il piano sequenza, del quale Antonioni offrì un primo convincente esempio in Cronaca di un amore (la scena del mancato omicidio) e che avrebbe poi avuto la straordinaria sanzione con il virtuosistico, bellissimo finale di Professione reporter, un tour de force artistico non meno che tecnico. Alcuni grandi registi successivi come l'ungherese Miklós Jancsó e il greco Theo Anghelopulos fecero di questo modello antonioniano il fondamento della loro filmografia.
Ma non si pensi ad Antonioni come ad un regista solo interessato alle componenti linguistiche del film. Tutt'altro: queste si rivelarono ben presto come lo strumento appropriato per un'indagine sulla nostra società negli anni del cosiddetto miracolo economico, quando si stavano già profilando i modelli culturali cui essa si sarebbe poi conformata. Uno scavo interiore, quello che caratterizza il suo cinema all'apice della creatività, affidato allo scandaglio dei moti più sottili dell'animo, trascritti in modi elusivi e sfuggenti dalla sua macchina da presa: ma, insieme, un'analisi lucida che prefigura in alcuni personaggi il ritratto di quella che sarebbe poi diventata la società italiana negli anni successivi (la soggezione degli intellettuali alle leggi del mercato in La notte, il cinismo e la spregiudicatezza nel raggiungere i propri obiettivi in L'eclisse).
La terza parte della sua opera nasce dal desiderio di allargare lo sguardo su altre realtà, nell'implicita convinzione di una sorta di «globalizzazione» del sentire, come diremmo oggi, tipica delle società avanzate: nasce così un altro dei suoi capolavori, forse il punto più alto della sua filmografia, Blow-up, eccezionale analisi del «disordine» che attraversava le società opulente, della incapacità di trovare un ubi consistam alla loro inquietudine, dell'impossibilità di «possedere» la realtà nella sua interezza, di cui è possibile invece trattenere solo qualche frammento sfuggente, come nella immaginaria partita di tennis mimata dal protagonista a conclusione del film.
Da La Gazzetta del Mezzogiorno, 1 agosto 2007
«Sono contento di essere qui e di aver potuto finalmente visitare Michelangelo Antonioni». A Taormina, un'estate di qualche anno fa. Il maestro, ammutolito da tempo per colpa del maledetto ictus eppure loquace grazie agli occhi dolcissimi, è seduto in prima fila al fianco della moglie Enrica Fico nella magica cornice del Teatro Greco. La frase di saluto è di un regista russo che, prima di ritirare un premio del Festival, la pronuncia in italiano. Con affettuosa premura, l'interprete lo corregge: «Lei forse vuol dire conoscere Michelangelo Antonioni...». Ma il russo, serafico sebbene commosso: «No, no... Volevo proprio dire visitare».
Consapevole o meno del significato del verbo, il giovane collega venuto da lontano in fondo non sbagliava: «visitare Antonioni». Come se Antonioni fosse ciò che in effetti era: un pianeta cui approdare con rispetto ed emozione, un astro lucente e impenetrabile che riesce a orientare nella notte, un frammento di cosmogonia sfuggito alla genesi per palesare alcune leggi ineffabili della vita, a cominciare dalle relazioni tra gli uomini e le donne. Le donne alle quali - lo sappiamo - può capitare che facciano «male i capelli» (Monica Vitti in Il deserto rosso, 1964). O come se Antonioni fosse, in Terra, un paese misterioso della geografia dell'anima, ben più enigmatico della Cina che egli percorse per girarvi lo, storico documentario sulla rivoluzione culturale maoista, insieme con un signor giornalista, Andrea Barbato (Chung Kuo,1972).
Un paese, Antonioni, persino più vivace dell'America ribelle di Zabriskie point (1970) dove fu fermato dalla polizia in aeroporto per il possesso di una «canna» o, prima, della Swingin' London di Blow-up (1966). Fu, quest-ultimo. (unico suo film a conquistare i botteghini, ma soprattutto il più efficace nello svelare l'ambiguità del mondo, la duplicità delle cose, ossia il rischio che quanto vediamo - un omicidio nella trama in giallo del protagonista fotografo di moda - sia invero imperscrutabile, mentre c'è, esiste, agisce ciò che non vediamo, l'invisibile. Esito sublime, Blow-up, della vena borgesiana di un racconto di Cortazar sceneggiato da Antonioni con Edward Bond e Tonino Guerra. Ma tutto il suo cinema riserva un dispositivo contro il delirio di onnipotenza del «vedere tutto» che oggi ci ammorba, noi succubi di un Grande fratello catodico forse più pericoloso dello spettro orwelliano. Lo sguardo di Antonioni fonda una «teoria» antitelevisiva, laddove theoria in greco significa «spettacolo» e nella Bibbia sta per «contemplazione» (Nuovo Testamento, Luca 23,48).
Ecco perché Antonioni è una fonte limpida del cinema contemporaneo; il più poetico e l'unico necessario. Così è per Theo Anghelopulos, Abbas Kiarostami, Lars von Trier. Wim Wenders, Mario Martone, Clint Eastwood, Citto Maselli, Amos Gitai, Wong Kar-wai, Tsai Ming-liang, Ridley Scott. Kim Ki-duk, Steven Soderbergh, Gianni Amelio... Maestri di tutto il mondo, e di diverse generazioni, che non esitano a riconoscersi in debito con Antonioni: molto diversi fra loro, ma affratellati dalla ricerca dell'essenziale e dell'evidenza che si ottiene solo per svuotamento del superfluo (i francesi, poi, lo sanno perfettamente che évider equivale a scavare, svuotare, sottrarre).
Altro che la presunta «incomunicabilità» divenuta la facile etichetta del cinema di Antonioni. l suoi film, fin dallo straziante capolavoro sul disagio di un operaio che è Il grido (1957), presagivano la crisi della ragione, delle «grandi narrazioni», delle ideologie e restituivano quello smarrimento con uno stile più vicino alla realtà che alla finzione. Come? Rispettando i tempi morti - di fatto vitali - propri del prediletto piano-sequenza, cioè di intere scene senza stacchi di montaggio (memorabile, in proposito, il finale di Professione reporter, 1975).
Può darsi che avesse ragione il mordace Ennio Flaiano, quando alla domanda su quali fossero i due più importanti registi italiani, rispondeva: «Fellini e Antonioni. Peccato che il primo sia un costumista e il secondo uno scenografo...». Ma le sue scenografie sono metafisiche, ossessionate dalla segreta corrispondenza dell'uomo col paesaggio, dalla Cina al deserto americano, dalla Padania dei primi documentari alle Eolie dell'Avventura (1960). Negli anni 90 Antonioni venne a più riprese in Puglia perché voleva ambientarvi Destinazione Verna, un film di fantascienza ispirato a un romanzo di Jack Linney, lo scrittore dell'Invasione degli Ultracorpi. Lo accompagnava il barese Felice Laudadio, amico intimo del maestro, che determinò la produzione di Al di là delle nuvole (1995). È un altro barese, Domenico Procacci, che ha prodotto l'ultimo film di Antonioni - l'episodio «Il filo pericoloso delle cose» nel trittico di Eros (2000) - ci confidò: «A tutti i costi Michelangelo voleva una scena con la neve». Come la chiedeva? «Con gli occhi». Già, sul pianeta Antonioni si comunica con lo sguardo.
Da La Gazzetta del Mezzogiorno, 1 agosto 2007
IN UNA SCENA del «Sorpasso», Vittorio Gassman dice a Trintignant. «Ho visto quel film La notte ... Me so' fatto 'na dormita!». Ma poi segue: «Bel regista, Antonioni! ln macchina va forte. Sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto girare il collo!».
Era un mio film, e io prendevo in giro, spero garbatamente, Michelangelo Antonioni. Ci incontrammo, poi: e lui non se la prese affatto per questo sfottò. Era una persona simpaticissima, divertente, spiritosa. Mi verrebbe da aggiungere: diversa dai suoi film, che erano amati moltissimo dalla critica, ma che io non riuscivo ad amare completamente. C'era chi andava a vedere i suoi film perché era, in un certo senso, un gesto chic. Andare a vedere un film di Antonioni voleva dire essere «intelligenti». Andare a vedere un film mio, no. Ma non ci ho mai sofferto troppo.
LE SUE DONNE. Erano parte integrante del suo cinema: il suo era un cinema dell'eleganza, non poteva prescindere dal fascino femminile. Però non erano le stesse donne che piacevano a me. Ero in giuria a Miss Italia quando fu eletta Lucia Bosè, che poi venne la protagonista del suo primo film, La signora delle camelie. E anche in quell'occasione, io votai l'altra concorrente, Gianna Maria Canale, che poi fece i film “peplum” e sposò il regista Freda! Ma mi piaceva molto, come attrice, Monica Vitti. Penso che in questo momento, un pensiero debba andare anche a chi ha dato volto a molti dei personaggi femminili di Antonioni. Monica Viti la immagino triste, addolorata. Penso che de farà piacere che, in questo momento, insieme al nome di Michelangelo il suo non venga dimenticato.
C'era sempre, anche in film di Antonioni che non amavo del tutto, una sequenza che mi seduceva. Quello “stupro”visivo del fotografo alla modesta Verushka in Blow-up. O il minuto di silenzio, nel frastuono della Borsa, che è un epifania, un momento di estrema intensità, nell’Eclisse. Tutto si fermava. Ed era bellissimo.
Ma adesso basta con la malinconia. Faccio unapromessa: soprattutto a me stesso. Mi impegnerò al massimo per non morire in questi giorni anch'io. Anche perché con questo affollamento, finirei nella. pagana sportiva!
Da La Nazione, 1 agosto 2007
Con la morte a novantacinque anni di Michelangelo Antonioni, il giorno dopo quella d'Ingmar Bergman, è un tipo di regista, intellettuale e problematico, a estinguersi (...) di colpo. Simultaneo, l’addio degli esponenti: più settentrionale e più meridionale dell'incomunicabilità. assume - e forse a loro sarebbe piaciuto - dimensione simbolica.
Bilancio dopo questi due giorni di lutto cinematogralico: Il settimo sigillo e Il posto delle fragole Cronaca di un amore e Blow Up appartenevano a un mondo equilibrato, dove lo spettatore poteva scegliere. Oggi non più: il declino della qualità media dei film è così consolidato da parere irreversibile. Quindi non è un caso se a giorni uscirà Idiocracy, il film brillante scritto da Ethan Coen, dove s’immagina che un militare, poco intelligente, si svegli dall'ibernazione, scoprendo che il grande successo del 2506 s’intitola Culo e solo quello mostra, in ogni atdvity. Morale: in un mondo di abbrutiti, l'ex ibernato pare un genio...
Si dirà: con l’ermeticità, Antonioni ha contribuito, come Bergman, a isolare il cinema «alto» dal cinema normale. Ma in ciò ha avuto molti e autorevoli complici, se si guardano i riconoscimenti ai suoi film L'avventura (premio speciales della giuria a Cannes nel 1960), La notte (Orso d'oro a Berlino,1960), L'eclisse. (premio specials della giuria a Cannes, 1962), Deserto rosso (Leone d'oro a Venezia, 1964), Blow Up (Palma d'oro a Cannes, 1966). Ora, se in quel periodo di avvento.della società affluente e insieme di allargamento e dunque crisi d'identità della borghesia, i maggiori festival hanno coronato e ri-coronato Antonioni, signfica che il suo cinema rifletteva una realtà, magari crogiolandovisi. L'anti-borghese Antonioni fu infatti adottato dai borghesi.
Formatosi nei Gruppi universitari fascisti (Guf), critico al Corriere padano di Italo Balbo, all'ombra di Guido Aristarco, sceneggiatore di un soggetto di Vittorio Mussolini per Roberto Rossellini, quello di Un pilota ritorna (1942), Antonioni aveva avuto una formazione di documentarista, attento soprattutto alla qualità delle immagini Sconterà quest'estetismo trent'anni dopo, quando Chung kuo/Cina canterà la Cina di sempre, più che la Cina Popolare, irritando il governo che gliel'aveva commissionato, proprio come un altro documentario; L’Italia non è un Paese povero di Joris Ivens (1960), aveva deluso l’Eni che gliel'aveva commissionato.
Del resto c'è autobiografia anche nel personaggio principale di Blow Up , un fotografo di successo (David Hemwings): delle opere dell'Antonioni maturo, questo è ilcapolavoro, illuminato dallo splendore di Jane Birkin e Vanessa Redgrave. Anche per il delicato rapporto fra cinema e censura Blow Up. fu un evento: per la prima volta, seppur coI divieto ai minori di 14 anni, era ammesso sugli schermi italiani il seno di una donna bianca. (quello della nera era ammesso fin dai documentari coloniali).
Antonioni aveva inclinazione anche per la pittura. ciò l’aveva portato a bussare alla porta di Matisse, a Nizza, nel 1943; invano: non gli erano graditi gli occupanti italiani, come appunto Antonioni, allora ufficiale del Regio Esercito; oltre che aiuto di Marcel Carné per Les enfants du paradis (in Italia Amanti perduti).
Poi c’era la letteratura, e dai film di Antonioni si sente: Cronaca di un amore (1950) era un soggetto originale, sceneggiato da lui stesso. con Francesco Maselli, ma tanto ricordava Ossessione di Visconti, tratto da un romanzo di James Cain; I vinti (1952), a episodi, scritto con Suso Cecchi D’Amico, Turi Vasile e Roger Nimier, mostrava con diffidenza l’Europa che si americanizzava (proprio come Sete di Bergman); La signora senza camelie (1953) riproponeva il sodalizio con Maselli e la Cecchi D'Amico, più Pier Maria Pasinetti, nel mostrare i retroscena del cinema; Le amiche (1955) attingeva a Tre donne sole di Pavese Il grido (1957), scritto da Elio Bartolini ed Ennio de Concini, dava sfondo proletario ai drammi personali che poi Antonioni trasferirà su sfondo borghese.
Proprio ll grido darà modo ad Antonioni di conoscere Monica Vitti, che nel film doppiava Dorian Gray. Cominciava, quando ancora nessuno dei due era davvero famoso, una lunga intesa professionale e personale. La prima avrà momenti anche amari - gli insulti a.Cannes dopo la proiezione dell'Avventura -, ma diverrà tipica di un'epoca; come negli Stati Uniti l’unione fra Arthur Miller e Marilyn Monroe. La Vitti era meno celebre, ma più brava della Monroe e, come lei, veniva dal cinema comico: vi sarebbe tornata;.con immenso successo dopo la separazione da Antonioni. Nella cui vita sarebbe entrata Enrica Fico, sua assistente negli ultimi lavori, quelli dopo, Zabriskie Point (1970); Professione reporter (1975) e Identiicazione di una donna (1982). Ma non sarà per Al di là delle nuvole e tanto meno per l'episodio Il filo pericoloso delle cose, nel collettivo Eros (2004), che ricorderemo Antonioni. Chi rise della seriosa frase «Mi fanno male i capelli» . in Deserto rosso ora può, se non piangere, rimpiangerla.
Da Il Giornale 1 agosto 2007
Pace all'anima sua, naturalmente. Ma Michelangelo Antonioni, parlandone ,da vivo, non l'ho mai potuto sopportare. Certo ci sono fior di critici, la maggior parte, che si divertono soltanto quando si annoiano e con Antonioni dunque era uno spasso continuo: C'è chi si compiace, perché fa fino, nel fingere di aver capito tutto, mentre è lo stesso autore a spiegare, ad opera compiuta, che effettivamente, sì insomma, non è tutto chiaro quel che gli è uscito dalla macchina da presa. A lui. Figuriamoci a noi, comuni mortali. E tra costoro, gli spettatori naïf della settima arte, c'è anche qualche recensore di seconda schiera. Come il sottoscritto, ché, sarà sicuramente un caso, nel suo poco celebre e ancora meno venduto 100 film da evitare, di capolavori michelangioleschi ne ha inseriti a occhio e croce una decina. Con un voto medio attorno al 3.
Il direttore, forzando la mia natura controcorrente, mi chiede un parere serio, e io devo dire, a costo di stupirlo, che i primi film di Antonioni mi erano piaciuti, oserei aggiungere molto. Ma l'allora aspirante Maestro, siamo negli anni Cinquanta, non era ancora stato colto dall'irreversibile sindrome dell'incomunicabilità, tanto è vero che per cogliere i significati di Cronaca di un amore e Le amiche (ritratti amari della buona borghesia, cinica e infelice) non occorre l'interprete in psicologia applicata. Poi, chissà come, Antonioni, uno che insisteva col travaglio interiore anche a parto cinematografico avvenuto, deve aver compiuto il percorso inverso dell'altro nostro grande Michelangelo. Se questi, davanti al Mosè appena uscito dal suo scalpello, esclamò: «Perché non parli?», Michelangelo II davanti al cospetto di personaggi eccessivamente ciarlieri giurò: «D'ora in poi tra una frase e l'altra infilerò dieci minuti di silenzio».
Detto fatto. Chi ha visto, per intero, e non è impresa da poco; il famosissimo trittico dell'alienazione (dello spettatore), ovvero L'avventura, La notte, L'eclisse, può confermarlo. Lo scampolo di dialogo che segue è inventato dal vostro immaginifico cronista; ma è più che plausibile. Il tormentato Gabriele Ferzetti domanda a Monica Vitti: «Che ore sono?», lei si gira dall'altra parte, mentre l'inquadratura si sofferma sui volti pensosi di altri personaggi, poi con aria afflitta gli risponde: «Quando me l'hai chiesto erano le sette, adesso saranno le otto, meno cinque». Mica facile riuscire a reggere il filo del discorso in queste condizioni, così, proprio nell'Avventura, della co-protagonista, Lea Massari, si perdono all'improvviso le tracce. Salvo ritrovarla, finalmente di buon umore, in un altro film. Non di Antonioni.
Zabriskie Point, Professione: reporter, Identificazione di una donna, ecco altre pietre miliari della noia antonioniana, con la fattiva collaborazione di Tonino Guerra: tre estenuanti circumnavigazioni del Maestro attorno all'infelicità umana, che spesso si annïda in platea. Uno dei titoli più noti del Maestro è Blow-up, da sempre ricamato di stellette della critica colta: un film che parte come un giallo, poi, l'autore, temendo forse di essere confuso con un cinematografaro da due penny come Hitchcock, s'addentra, inesorabile, nella selva oscura del «chi vuol capire capisca». E in effetti è uno spasso unico leggere le interpretazioni degli esperti. Quasi come la strepitosa battuta di Monica Vitti nel mitico Deserto rosso: «Mi fanno male i capelli». Vuoi vedere che Antonioni, in fondo, era meglio di Totò?
Da Il Giornale, 1 agosto 2007
Film come «stargate», come porte su altre realtà, non necessariamente «altrove» nello spazio ma in un tempo, il nostro, anche minimamente differito. Film come cancelli in cui i sensi si intrecciano volentieri oltre i tracciati di regia, oltre i percorsi delle sceneggiature. Non sono molti, anzi, e in genere sembrano sfuggire di mano ai loro artefici, quasi a sfidarne la patria potestà, inventando una vita molto più ricca e complessa di quella che i registi hanno loro impresso. Blow up è uno di questi dirigibili della mente che se ne stanno in aria da soli, senza elio, senza pilota dopo che hanno sfruttato tutti i sensi del regista per venire, letteralmente, alla luce. Chissà cosa pensava Antonioni del suo film più famoso. Per molti di noi è stato una frattura salutare, ha inventato un «prima» e un «dopo». C'erano i Beatles, c'era Londra, c'era la swingin' London, c'era il pop che stava abolendo il bianco e nero mentre «svitava» la compostezza sociale, c'erano i «giovani» non ancora ridotti al ruolo di custodi del consumo di massa; erano la fantasia o piuttosto la stanchezza immensa di dover vivere in quella caserma che andava loro troppo stretta. Aspettavamo, senza saperlo, un inno, uno spartito di immagini che ci rappresentasse, capace di contenere tutta l'energia che, ne eravamo convinti, stavamo imprimendo al corso delle cose.
Ci pensò Antonioni nel 1966 a offrirci una sponda, ma era tutt'altro che una bandiera: serviva una piccola «marseillese» e lui ci servì uno specchio già in frantumi in cui provare a riflettere il nostro bisogno di auto-rappresentazione; Blow up era un inno, a suo modo, ma depurato di ogni tentazione eroica e ridotto a immensa smagliatura di un presente inafferrabile. L'eroismo, semmai, stava proprio qui questa discreta e fondamentale tragedia della conoscenza. Ma andava bene lo stesso, andava bene che l'onda di quel presente venisse filtrata dal dubbio esistenzialista, dalla certezza della doppiezza della realtà e della impossibilità di rappresentarla, soprattutto da parte del cinema. Antonioni avvita un gorgo, questa volta dotato di una sua grandiosità visiva, in cui finiscono le speranze del vecchio neorealismo, e anche la serenità narrativa della commedia all'italiana. Tutto chiaro, per converso, già dalle prime inquadrature: David Hemmings esce, vestito da proletario, da una fabbrica al termine di un turno di lavoro e pare un poveraccio come i suoi compagni di lavoro. Pochi istanti dopo, eccolo infilarsi in una Rolls decapottabile e piazzare una Nikon nel cruscotto. Il film decolla così su una pista illuminata dal cozzo di simboli innescato da una simulazione, da un falso che tuttavia contiene una verità. Qualcuno lo avrà detto, forse sì, forse no: ma da quelle sequenze i ragazzi di mezzo mondo furono rapiti, le fotocamere reflex divennero un'espansione dello sguardo «giovane», il terzo occhio di una generazione che si stava dotando di tutti i mezzi destinati a riprodurre la realtà, come il «giradischi» o la tv. Nell'illusione di riuscirci. Antonioni aiuta ad accettare il fallimento del «progetto» ideologico e tecnologico affidando il film a una trama drammaturgicamente quasi impercettibile legata a un delitto che c'è stato ma di cui non esistono tracce, neppure, ad un certo punto, quelle fotografiche che pure inavvertitamente Hemmings aveva fissato con la sua reflex. Nel seguire i passi del protagonista alla ricerca della «verità», Blow up procede per oscillazioni visive fino alla fine, scatenando virate emotive densissime soprattutto in quella lunghissima ripresa del parco silenzioso mosso solo dall'aria: è un bellissimo parco, sereno e verde eppure è uno dei laghi di inquietudine più efficaci che il cinema ci abbia mai offerto, e non succede niente di niente; lì, pace e incubo si alternano, è solo questione di un tempo che sta chiuso nella nostra mente. Da questa postazione Blow up non si muove mai, neppure quando decide di offrirci la sola consolazione disponibile in questo pendolo tra vero e falso, tra visione e rappresentazione: la tenerezza di un gioco fantastico e creatore di mondi possibili, giocando a tennis senza palla né racchetta. Come la politica.
Da L’Unità, 1 agosto 2007-08-03
L'omaggio più giusto e serio che si possa rendere a Michelangelo Antonioni, morto l'altra sera a Roma a 94 anni, e al suo cinema - al di là delle commemorazioni di rito, al di là del lutto autentico di chi ha conosciuto quest'uomo elegante e gentile, schivo e sensibile, intelligente e sottile, al di là del dolore di chi gli è stato vicino con amore, pazienza e acume negli anni di una lunga, difficile, strana infermità che ha fatto di Antonioni la metafora paradossale del silenzio e dell'incomunicabilità da lui cantati -- la vera celebrazione, credo, sta non già nel ricordarlo formalmente per poi archiviare la pratica sotto la generica etichetta del genio, ma nel riaprire il dibattito spesso acceso, sempre appassionato, talvolta virulento, di cui Antonioni è stato a più riprese il protagonista e l'oggetto. Di non dare per scontata la sua grandezza, o, al contrario, di non impallinarlo con l'ironia facile dei franchi tiratori o con le due o tre risicate stellette che gli concede una giovane critica assurdamente feroce, ma di tornare, in questa occasione, a discutere anche criticamente il suo cinema, come ai tempi (leggere "Spari nel buio" di Gian Piero Brunetta per vedere) in cui accadeva che si riunissero attorno a una tavola rotonda a discettare di L'eclisse delle belle teste come Carlo Salinari, Galvano Della Volpe, Luigi Chiarini eAlberto Carocci, o come quando Alberto Arbasino, con brillante bastiancontrarismo, osava «parlar male» del maestro dell'alienazione. E in. questo gruppo di bastian contrari metto, buon'ultima, nel 1995; anche me stessa, colpevole, per taluni, di aver osato criticare negativamente (per quanto rispettosamente) l'ultime film di Antonioni, Al di là delle nuvole.
Una cosa è certa. Da oggi il cinema italiano è orfano, nonostante resistano sulla breccia alcuni grandi registi delle generazioni più giovani, nonostante sembrino esserci buone ragioni per sperare in una nuova ondata che si sta battendo per ritrovare una voce originale - e nonostante Antonion: negli ultimi vent'anni abbia realizzato solo due film e un terzo di film, e non i suoi migliori.
È orfano perché con Antonioni se n’è andato l'ultimo maestro di una generazione chiave la . generazione allargata a cui appartenevano anche Visconti e Fellini. La generazione da cui sono stati creati ( stabiliti i prototipi, i modelli, gli inconfondibili «capolavori» che hanno segnato e lasciato il loro imprinting nel cinema italiano (poi mondiale, la generazione che ha impresso il segno di tre diverse specificità - di temi, di toni e di stile - con tanta forza da condizionare anche il vocabolario. Si dice antonioniano, felliniano, viscontiano, e tutti (o quasi) capiscono di che cosa si parla: anche se magari si tratta di uno stereotipo. Ed è orfano, il cinema italiano, perché c'era ancora la speranza che dal silenzio di Antonioni in questi venti anni scaturisse il capolavoro generato dal silenzio.
Di fronte a una grandiosa ma relativamente rarefatta carriera di cineasta che si è estesa per cinquant'anni, in una continua invenzione e ridefinizione del cinema - dalle prime immagini del debuttante documentarista di Gente del Po a Lo sguardo di Michelangelo, il malinconico confronto di Antonioni con la grandezza del suo omonima-l'atteggiamento più equilibrato è forse quello. di evitare l'ammirazione indifferenziata, di sceglierci il «nostro» capolavoro, ma anche il riconoscimento del fatto che il cinema di Antonioni, con la sua idiosincratica creatività, con la sua esattezza psicologica, con le sue rarefatte atmosfere, ci ha toccato e segnato più nel profondo di quanto non ricordiamo razionalmente.
Siccome ho avuto la fortuna di essere, per gran parte della carriera di Antonioni, spettatrice qualsiasi, libera di sentire in maniera «selvaggia» e ingenua, denuncio subito la mia debolezza: il miglior film di Antonioni è per me Professione: reporter. Non solo perché la magia dell'occhio di Antonioni il suo vero strumento, l'antitesi della visione «parlata» di tanti altri pur grandi registi, lo sguardo allo stato puro - opera qui in stato di grazia (e basterebbe ricordare quell'impossibile e bellissimo carrello finale all'Hotel de la Gloria che dice tutto, la solitudine, la malinconia, la morte, nel solo puro fluire del movimento della macchina). Ma perché, nonostante qualche antonionismo verbale, la metafora pirandelliana sull'identità e la fuga da se stessi inventata da Mark Peploe non ha bisogno di calcare la mano sulle simbologie e le frasi celebri, e il cinema parla da solo.
Professione: reporter (ma com'è bello, e allusivo alla condizione della vita, il titolo inglese, The Passenger), secondo qualcuno, «è forse il più bel film "muto" degli ultimi cinquant'anni». Ed è difficile non dare ragione a questo paradosso, anche perché, se c'è un limite nella grandezza di Antonioni, è proprio la sua incapacità, o il suo disinteresse, di percepire le stonature dei dialoghi, di non soffrire, lui così colto, sofisticato, sensibile, di fronte alla mancanza di ironia, agli eccessi di astrusa intelligenza dei dialoghi dei suoi film (e non parlo della famosa e calunniata battuta della Vitti in Deserto rosso, «mi fanno male i capelli», che risentita nel contesto della ovvia nevrosi della protagonista è, appunto, l'espressione di una totalizzante infelicità).
La grandezza di Antonioni passa attraverso l'occhio, e il vero narratore del suo cinema è lo sguardo che crea le atmosfere indimenticabili della pianura padana di Il grido, dei paesaggi siciliani di L'avventura, della Milano ricca e fredda di La notte, della Ravenna industriale di Deserto rosso, della Londra di Blow Up, del deserto di Professione: reporter. Per questo forse i suoi film meno riusciti, o meno convincenti, sono quelli in cui la visione si è appannata: nell'inseguire un'America che lo affascina ma che non c'è in Zabriskie Point, nel generoso sperimentalismo di Il mistero di Oberwald, nella poco misteriosa e poco seducente Roma borghese di Identificazione dì una donna, nell'irrisolto voyeurismo dei primi tre episodi di Al di là delle nuvole (com'è bello invece l'ultimo, con Irène Jacob) .
Il suo sguardo è stato più importante e ha lasciato il segno più dei suoi temi le incertezze emotive di una borghesia che adesso forse non c'è più, certo non in quel modo, di personaggi che i suoi film esplorano non sociologicamente ma nel loro rapporto personale con gli altri, nella loro difficoltà a comunicare, a parlare, a scoprire la propria identità. «La bellezza è la sola cosa in cui crede» scrisse una volta Mario Soldati, «e lui la cerca e la vede dappertutto, anche negli oggetti e nei momenti più vili». Come dovevasi dimostrare: solo un poeta come Antonioni poteva fare della nettezza urbana, in N U. , un oggetto di bellezza. E di questi anni difficili, in cui, prigioniero del suo silenzio fisico, per lui, per esprimersi, lo sguardo era diventato ancora più importante, c'è un piccolo capolavoro sconosciuto, i brevi film girati nel 1992 sulla Sicilia, senza commento, senza parole, poesia e meraviglia allo stato puro, la quintessenza di una poetica che ci mancherà, il canto di un poeta della visione che parla dal labirinto del suo silenzio.
Da La Repubblica, 1 agosto 2007
È un dispiacere che Michelangelo Antonioni (Michele, per gli amici) se ne sia andato a 95 anni: era un grande regista, ma anche un uomo molto simpatico. Chi non lo conosceva poteva immaginarlo severo, pensoso, tetro. Invece era un vero ragazzo emiliano, spiritoso, divertente, bravissimo tennista, sensuale, ghiotto, amante del vivere: persino dal 1985 quando il male gli aveva tolto la parola e gli rendeva faticosi i movimenti.
Un eccezionale uomo di cinema, da sempre estraneo alle «regole» e alla banalità, in cerca di modi nuovi dell'espressione; un protagonista dei meno enfatici del rinnovamento del cinema italiano dopo la seconda guerra-mondiale e uno dei registi italiani internazionalmente più premiati e celebri; l'erede deluso d'una cultura illuminista. Dotato di una rara moralità d'artista. La fedeltà a se stesso e al proprio mondo, la tenacia nel dire quanto voleva con i mezzi che voleva, nell'affrontare la lunga lotta sempre sostenuta per fare i suoi film, - soltanto quei film e non altri. Insomma, il coraggio calmo e ostinato con cui affrontava ostacoli costanti: le perenni difficoltà di trovare finanziamenti per i suoi film considerati impopolari; gli interventi della censura (il più distruttivo fu per I vinti, 1952); gli scandali, i fischi, le risate, i processi per oscenità (per L'avventura, 1959, a causa di «sette metri di bacetti sul collo»): la grossolanità di irrisioni, vignette o sketches radiofonici che lo sfottevano come «profeta dell'incomunicabilità», che lo prendevano in giro per il gran camminare di Jeanne Moreau ne La notte (1961),che. avevano trasformato in un numero comico fisso la sua decisione di verniciare in grigio un paesaggio, di far dire a Monica vitti «Mi fanno male i capelli».
E la fermezza leggera con cui ha fronteggiato i periodi vuoti, quel tempo (a volte erano anni) tra un film finito e un nuovo film per cui non si trovavano i soldi, quelle parentesi bianche che rappresentano la dannazione nella vita d'un regista: leggeva, dipingeva, scriveva, con l’aiuto di Nancy Ruspoli (la moglie francese di Dado Ruspoli) sperimentava la meditazione trascendentale e la levitazione, si iscriveva a un club di ping-gong...
I suoi film, dal 1950 al 2004, da Cronaca di un amore con Lucia Bosè meravigliosa a Eros, erano connessi nel profondo alle correnti di pensiero contemporanee, ai fenomeni sociali. Senza tradire il suo stile lontano dal realismo, Antonioni ha raccontato le nevrosi dell'alienazione (Deserto rosso, 1964), la rivoluzione giovanile e i dubbi dell'irrealtà (Blow Up,1966), la contestazione del sistema (Zabriskie Point,1970), l'orrore della realtà nello sguardo del giornalista (Professione reporter, 1975). E' stato il narratore di thriller usati per investigare conflitti psicologici, di personaggi femminili straordinari, d'un ambiente borghese e intellettuale visto come teorema essenziale nel quale prendono rilievo i sentimenti come specchio di tutto il resto, cultura, rapporti sociali, speranze; l'analista profetico d'una vacua aridità contemporanea, d'una identità perduta, d'una impenetrabilità del mondo.
Antonioni era molto elegante, il meno provinciale, il meno pigro dei registi italiani (salvo Bernardo Bertolucci, si capisce, che era un poco suo parente per aver sposato Clare Peploe, per qualche tempo compagna di Antonioni). Il più curioso, il più aggiornato (non il più moderno), uno dei pochi registi che frequentasse gli intellettuali, scrittori come Moravia e Pasolini, filosofi come Enzo Paci e Umberto Eco. La prima moglie, Letizia, era una donna còlta, esigente, chic; sua compagna è stata a lungo, si sa, Monica Vitti (pure lei ammutolita troppo giovane dal male); dopo Clare Peploe, l'ultima moglie è stata la cineasta Enrica Fico che ha accompagnato con straordinaria generosità l'ultima parte della vita del regista, la più difficile. Ad Antonioni le donne piacevano, per loro provava curiosità e attenzione inesauste: ascoltarlo descrivere a lungo il fascino della fronte bombée di Christine Boisson di Identificazione di una donna (1982) era un incanto.
Non viaggiava volentieri, a parte naturalmente gli Stati Uniti o Londra. Il suo viaggio più importante e rischioso fu quello in Cina nella primavera del 1972, per realizzare il grandioso documentario sul Paese di mezzo: si trovarono di fronte un artista borghese, anzi aristocratico, innamorato dello sguardo, della razionalità, della storia, e la Cina formalista, cerimoniosa, del Dio vivente Mao: l'incontro fece presto a diventare scontro. Ma Michelangelo Antonioni (Michele, per gli amici), grande artista, uomo di qualità e simpatico, non serbava rancori: gli sgarbi li dimenticava subito, aveva di meglio a cui pensare.
Da La Stampa, 1 agosto 2007
C’erano i film, c'era l'amore, c'erano i mille mondi esplorati insieme. C'era, alla fine, quel «legame di amicizia profonda e stima reciproca» che non si era mai spento, neanche negli ultimi tempi, neanche nei silenzi imposti dalle malattie. Ma c'era stato, prima e più di tutto, lo sguardo, quello di Michelangelo su Monica, quello che aveva creato una coppia irripetibile di vita e di lavoro: «Mi ascoltava e mi guardava vivere con un'attenzione che non avevo mai avuto. Sono così orgogliosa se sono servita ai suoi film». Così la musa Vitti parlava e scriveva del grande autore, devota, appassionata, intrecciando vita privata e vita di set, i sentimenti più intimi con le storie che hanno fatto la «Storia» del cinema: «Michelangelo mi faceva molte domande ed io mi divertivo a rispondere. Capivo di stupirlo. Era incuriosito da quello che facevo e dicevo». Dal primo incontro, nel `57, durante il doppiaggio del Grido, Antonioni aveva notato quella ragazza insolita: «Michelangelo mi aveva vista a teatro, diceva che ero moderna, vera. Ne ero felice». Un commento dell'autore le rimase impresso: «Lei ha una bella nuca». Così nacque l'alchimia, l'intesa, il mistero dell'attrazione. E non era solo il meccanismo classico, quello di un autore che proietta se stesso su un attore. C'era di più, c'era lo scambio: «Il loro rapporto - commenta Roberto Russo, compagno dell'attrice - è stato importantissimo per tutti e due, Monica è stata. l'interprete in grado di esprimere i sentimenti che Antonioni voleva esprimere e lui è stato il regista più grande della sua carriera».
L'avventura iniziò con L'avventura: «Mi è venuta in mente una storia su una ragazza che sparisce su un'isola», aveva detto Antonioni alla Vitti. I discorsi, i confronti, la preparazione, ebbero per teatro «la casa di Michelangelo ai Parioli, elegante, rigorosa». Nel libro autobiografico Sette sottane Monica Vitti ricorda come sul «pavimento di marmi a grandi quadrati bianchi e neri, come una scacchiera», sia nato a poco a poco il film. Una rivoluzione. Per il cinema d'Italia e del mondo, per le vite di chi vi prese parte, quelle del regista e degli interpreti, ma anche quelle dei componenti delle due troupe che si avvicendarono durante la lavorazione. «Michelangelo comunicava con il continente con una radio da campo, residuato di guerra: girava una gran manovella e urlava in un imbuto al produttore che la troupe fosse pagata, che arrivasse la pellicola». Poi vennero altri film e altre storie, La notte, L'eclissi e Deserto rosso. A quest'ultimo, svela Roberto Russo, l'attrice è particolarmente legata: «Forse perché descriveva una fase di insicurezza che le apparteneva molto». Ancora la vita e il cinema che si intrecciano, Monica che, grazie a Michelangelo, vince il timore dell'aereo e vola a New York: «Dovevamo prendere un premio e, dopo mille rinvii, dissi di sì. È stato un bellissimo viaggio». Allora era difficile immaginare che il maestro e la sua musa non sarebbero rimasti insieme per sempre: «I sentimenti non sono eterni - dichiarò Vitti in un'intervista -. Michelangelo ci aveva insegnato con i suoi film che gli amori finiscono, con dolore, ma con naturalezza. Finì, con dolore, per tutti e due».
Rimase tutto il resto, con i nuovi legami che s'intersecavano con quelli passati: «Ho lavorato con Antonioni come fotografo di scena - racconta Roberto Russo - sono felice di averlo conosciuto, ci siamo molto frequentati, lui abitava nella casa al piano di sopra di quello in cui vivevamo io e Monica. Abbiamo trascorso insieme tante serate, ho anche fotografato piccoli disegni del maestro, pochi centimetri, li ho ingranditi e stampati, sono stati presentati a Venezia, durante un'edizione della Mostra di cinema». Con gli anni le esistenze sono diventate più crude, più faticose, anche più eroiche: «Dall'87 Monica è venuta a vivere da me, con Antonioni ci siamo visti di meno, ma la grande amicizia è rimasta». E oggi per la stella dalle lunghe, mute occhiate c'è un'eredità speciale, incancellabile: «Devo agli sguardi di Michelangelo il mio coraggio. Devo alla sua fiducia la mia forza».
Da La Stampa, 1 agosto 2007
NINETEEN-SIXTY-ONE ... a long time ago. Almost 50 years. But the sensation of seeing “L’Avventura” for the first time is still with me, as if it had been yesterday.
Where did I see it? Was it at the Art Theater on Eighth Street? Or was it the Beekman? I don’t remember, but I do remember the charge that ran through me the first time I heard that opening musical theme — ominous, staccato, plucked out on strings, so simple, so stark, like the horns that announce the next tercio during a bullfight. And then, the movie. A Mediterranean cruise, bright sunshine, in black and white widescreen images unlike anything I’d ever seen — so precisely composed, accentuating and expressing ... what? A very strange type of discomfort. The characters were rich, beautiful in one way but, you might say, spiritually ugly. Who were they to me? Who would I be to them?
They arrived on an island. They split up, spread out, sunned themselves, bickered. And then, suddenly, the woman played by Lea Massari, who seemed to be the heroine, disappeared. From the lives of her fellow characters, and from the movie itself. Another great director did almost exactly the same thing around that time, in a very different kind of movie. But while Hitchcock showed us what happened to Janet Leigh in “Psycho,”Michelangelo Antonioni never explained what had happened to Massari’s Anna. Had she drowned? Had she fallen on the rocks? Had she escaped from her friends and begun a new life? We never found out.
Instead the film’s attention shifted to Anna’s friend Claudia, played by Monica Vitti, and her boyfriend Sandro, played by Gabriele Ferzetti. They started to search for Anna, and the picture seemed to become a kind of detective story. But right away our attention was drawn away from the mechanics of the search, by the camera and the way it moved. You never knew where it was going to go, who or what it was going to follow. In the same way the attentions of the characters drifted: toward the light, the heat, the sense of place. And then toward one another.
So it became a love story. But that dissolved too. Antonioni made us aware of something quite strange and uncomfortable, something that had never been seen in movies. His characters floated through life, from impulse to impulse, and everything was eventually revealed as a pretext: the search was a pretext for being together, and being together was another kind of pretext, something that shaped their lives and gave them a kind of meaning.
The more I saw “L’Avventura” — and I went back many times — the more I realized that Antonioni’s visual language was keeping us focused on the rhythm of the world: the visual rhythms of light and dark, of architectural forms, of people positioned as figures in a landscape that always seemed terrifyingly vast. And there was also the tempo, which seemed to be in sync with the rhythm of time, moving slowly, inexorably, allowing what I eventually realized were the emotional shortcomings of the characters — Sandro’s frustration, Claudia’s self-deprecation — quietly to overwhelm them and push them into another “adventure,” and then another and another. Just like that opening theme, which kept climaxing and dissipating, climaxing and dissipating. Endlessly.
Where almost every other movie I’d seen wound things up, “L’Avventura” wound them down. The characters lacked either the will or the capacity for real self-awareness. They only had what passed for self-awareness, cloaking a flightiness and lethargy that was both childish and very real. And in the final scene, so desolate, so eloquent, one of the most haunting passages in all of cinema, Antonioni realized something extraordinary: the pain of simply being alive. And the mystery.
“L’Avventura” gave me one of the most profound shocks I’ve ever had at the movies, greater even than “Breathless” or “Hiroshima, Mon Amour” (made by two other modern masters, Jean-Luc Godard and Alain Resnais, both of them still alive and working). Or “La Dolce Vita.” At the time there were two camps, the people who liked the Fellini film and the ones who liked “L’Avventura.” I knew I was firmly on Antonioni’s side of the line, but if you’d asked me at the time, I’m not sure I would have been able to explain why. I loved Fellini’s pictures and I admired “La Dolce Vita,” but I was challenged by “L’Avventura.” Fellini’s film moved me and entertained me, but Antonioni’s film changed my perception of cinema, and the world around me, and made both seem limitless. (It was two years later when I caught up with Fellini again, and had the same kind of epiphany with “8 ½.”)
The people Antonioni was dealing with, quite similar to the people in F. Scott Fitzgerald’s novels (of which I later discovered that Antonioni was very fond), were about as foreign to my own life as it was possible to be. But in the end that seemed unimportant. I was mesmerized by “L’Avventura” and by Antonioni’s subsequent films, and it was the fact that they were unresolved in any conventional sense that kept drawing me back. They posed mysteries — or rather the mystery, of who we are, what we are, to each other, to ourselves, to time. You could say that Antonioni was looking directly at the mysteries of the soul. That’s why I kept going back. I wanted to keep experiencing these pictures, wandering through them. I still do.
Antonioni seemed to open up new possibilities with every movie. The last seven minutes of “L’Eclisse,” the third film in a loose trilogy he began with “L’Avventura” (the middle film was “La Notte”), were even more terrifying and eloquent than the final moments of the earlier picture. Alain Delon and Ms. Vitti make a date to meet, and neither of them show up. We start to see things — the lines of a crosswalk, a piece of wood floating in a barrel — and we begin to realize that we’re seeing the places they’ve been, empty of their presence. Gradually Antonioni brings us face to face with time and space, nothing more, nothing less. And they stare right back at us. It was frightening, and it was freeing. The possibilities of cinema were suddenly limitless.
We all witnessed wonders in Antonioni’s films — those that came after, and the extraordinary work he did before “L’Avventura,” pictures like “La Signora Senza Camelie,”“Le Amiche,”“Il Grido” and “Cronaca di un Amore,” which I discovered later. So many marvels — the painted landscapes (literally painted, long before CGI) of “Red Desert” and “Blowup,” and the photographic detective story in that later film, which ultimately led further and further away from the truth; the mind-expanding ending of “Zabriskie Point,” so reviled when it came out, in which the heroine imagines an explosion that sends the detritus of the Western world cascading across the screen in super slow motion and vivid color (for me Antonioni and Godard were, among other things, truly great modern painters); and the remarkable last shot of “The Passenger,” where the camera moves slowly out the window and into a courtyard, away from the drama of Jack Nicholson’s character and into the greater drama of wind, heat, light, the world unfolding in time.
I crossed paths with Antonioni a number of times over the years. Once we spent Thanksgiving together, after a very difficult period in my life, and I did my best to tell him how much it meant to me to have him with us. Later, after he’d had a stroke and lost the power of speech, I tried to help him get his project “The Crew” off the ground — a wonderful script written with his frequent collaborator Mark Peploe, unlike anything else he’d ever done, and I’m sorry it never happened.
But it was his images that I knew, much better than the man himself. Images that continue to haunt me, inspire me. To expand my sense of what it is to be alive in the world.
Da The New York Times, 12 Agosto 2007
Decades before it was given a name, Michelangelo Antonioni recognized the malady we now call attention deficit disorder. In his great 1960s films, “L’Avventura,”“La Notte,”“Eclipse” and “Red Desert,” but especially in “L’Avventura,” his masterpiece, it wasn’t diagnosed as a chemical imbalance, but as a communicable social disease.
Spawned in a psychological petri dish in which idleness, boredom and dissatisfaction with the material rewards of life combined to create and spread a chronic, generalized, mild depression, it was an ailment peculiar to the upper middle class. What made audiences susceptible was the glamour that attached to it. As I watched the attractive aristocrats and climbers in his films mope through their empty lives, a part of me wanted to be just like those people: self-absorbed and miserable, perhaps, but also fashionable and sexy.
The ever-acute critic Pauline Kael recognized this contradiction in a famous essay, “Come-Dressed-as-the-Sick-Soul-of-Europe Parties,” which aroused the ire of Antonioni devotees like me. More than four decades later, that contradiction remains unresolved in popular culture. Such is the power of film and television imagery that glamour and sex, no matter how tawdry or morally bankrupt, command our attention and whet our fantasies.
Mr. Antonioni was the movies’ first diagnostician of what back then was called alienation, anomie, angst and decadence. If his films had their silly side (the image of Jeanne Moreau and Marcello Mastroianni, grappling fully clothed in a sand trap in “La Notte”), they were also prophetic. Their melancholy poetry transmuted an overriding mood of self-pity into something deeper and closer to tragedy.
Mr. Antonioni’s death on Monday, so close to Ingmar Bergman’s, should give us pause. Their deaths bring down the final curtain on the high-modernist era of filmmaking, when a handful of directors were artistic gods accorded the respect and latitude of great painters or authors. Among the European masters of the 1960s, only Jean-Luc Godard, that most modern of modernists, remains.
For all their differences of temperament, Mr. Bergman and Mr. Antonioni were staunch moralists. If Mr. Bergman, the Scandinavian, was stern and austere, Mr. Antonioni, the Italian, was a sensuous aesthete who, when it suited him, resorted to painting nature the way he wanted it to look on the screen.
If both had bleak apprehensions of the decline and fall of Western civilization in an increasingly secularized age, Mr. Antonioni’s vision was more urbane and cosmopolitan. The final bleak street-corner montage in “Eclipse” is downright apocalyptic. In that movie, the third part of the trilogy that included “L’Avventura” and “La Notte,” the world is consumed with stock-market fever. Greed trumps love. Sound familiar?
The meticulous compositions in Mr. Antonioni’s films depict a shiny but flimsy new world displacing an older and more solid one. Classic stone architecture constructed to last for centuries is contrasted with bright, new high-rise skyscrapers without character. Nuns in black habits rub shoulders with avaricious starlets and shallow socialites. The affluent new generation senses its own susceptibility to corruption. Sandro, the faithless male protagonist of “L’Avventura,” is a once-serious architect who is bitterly aware that he has sold out his talent.
“L’Avventura” and Federico Fellini’s more flamboyant film “La Dolce Vita,” to which it was continually compared, tugged the European art film toward fashion. Together they inaugurated a vogue among trendy Americans to punctuate their conversations with “Ciao” (often uttered in a petulant, pseudo-Italian accent) instead of “Goodbye.”
As the ’60s wore on, Mr. Antonioni increasingly succumbed to the taint of fashion. His most successful film, “Blowup,” set in swinging London among photographers and models, was clever but shallow. Yet the protagonist’s search for an elusive photographic truth was prescient.
Mr. Antonioni’s vogue ended abruptly in 1970 with the critical and commercial failure of “Zabriskie Point.” At the time, that movie, his first feature made in the United States, was widely misunderstood by fans longing to identify with its young lovers, who dabble in revolutionary politics. When no revolution occurred at the end, the audience that had lined up to see it (I saw its first two New York screenings) left frustrated. In hindsight, its climactic fantasy of a house repeatedly exploding (to the strains of Pink Floyd) predicted the imminent failure of that so-called revolution. The notion that it was just a fantasy was a message nobody wanted to hear.
But Mr. Antonioni’s fashionableness shouldn’t distract us from his accomplishment. He was a visionary whose portrayal of the failure of Eros in a hypereroticized climate addressed the modern world and its discontents in a new, intensely poetic cinematic language. Here was depicted for the first time on screen a world in which attention deficit disorder, and the uneasy sense of impermanence that goes with it, were already epidemic.
The startling conceptual coup of “L’Avventura” was the story’s unexplained disappearance of a young woman, Anna, from a desolate, rocky island where she and a yachting party have landed. Even before the group, which includes Sandro, leaves the island without finding Anna, Sandro puts the moves on her best friend, Claudia (Monica Vitti). She resists his advances, but succumbs once they have returned to the mainland.
As the police search for Anna, the members of the party become distracted. Even for Claudia, the movie’s conscience and Mr. Antonioni’s alter ego, the urgency of finding Anna recedes in the heat of her new relationship. The cycle of betrayal culminates with the final scene: Claudia and Sandro are staying in a hotel, and she awakens to find him gone.
Venturing downstairs, she finds him sprawled on a couch with a prostitute, an exhibitionist with whom they had crossed paths earlier, as the prostitute created a paparazzi frenzy in a village they were passing through. This character may be the movies’ very first “celebutante.” Today she is everywhere. ¦
Da The New York Times, 1 agosto 2007
Michelangelo Antonioni, the Italian director whose chilly depictions of alienation were cornerstones of international filmmaking in the 1960s, inspiring intense measures of admiration, denunciation and confusion, died on Monday at his home in Rome. He was 94.
His death was announced yesterday by Walter Veltroni, the mayor of Rome. No cause was given. In 1985, Mr. Antonioni had a debilitating stroke that left him partly paralyzed, though he continued to make films sporadically for two more decades.
Earlier on Monday, another great director of the 20th century, Ingmar Bergman, died, at 89, at his home on a remote Swedish island.
Tall, cerebral and serious, Mr. Antonioni, like Mr. Bergman, rose to prominence at a time, in midcentury, when filmgoing was an intellectual pursuit, when purposely opaque passages in famously difficult films set off long nights of smoky argument at sidewalk cafes, and when fashionable directors like Mr. Antonioni, Alain Resnais and Jean-Luc Godard were chased down the Cannes waterfront by camera-wielding cinephiles demanding to know what on earth they meant by their latest outrage.
Mr. Antonioni is probably best known for “Blowup,” a 1966 drama set in swinging London about a fashion photographer who comes to believe that a picture he took of two lovers in a public park also shows, obscured in the background, evidence of a murder.
But Mr. Antonioni’s lasting contribution to film came earlier, in “L’Avventura” (1960), “La Notte” (1961) and “L’Eclisse” (1962), a trilogy that explored his tormented central vision that people had become emotionally unglued from one another.
It was a vision expressed near the end of “La Notte,” when his frequent star Monica Vitti observes, “Each time I have tried to communicate with someone, love has disappeared.”
In a generation of rule breakers, Mr. Antonioni was one of the most subversive and venerated. He challenged moviegoers with an intense focus on intentionally vague characters and a disdain for conventions like plot, pacing and clarity. He raised questions and never answered them, had his characters act in self-destructive ways and failed to explain why, and sometimes kept the camera rolling after a take in the hope of catching the actors in an unscripted but revealing moment.
It was all part of his design. As he explained, “The after-effects of an emotion scene, it had occurred to me, might have meaning, too, both on the actor and on the psychological advancement of the character.”
Many of Mr. Antonioni’s cuts, scene lengths and camera movements were idiosyncratic, and he frequently posed his characters in a highly formalized way.
“What is impressive about Antonioni’s films is not that they are good,” the film scholar Seymour Chatman wrote. “But that they have been made at all.”
Boos and Plaudits at Cannes
Perhaps the defining moment in Mr. Antonioni’s career came the night “L’Avventura” was screened at the 1960 Cannes International Film Festival. Unsure what to make of the film’s obscure story, many in the audience walked out. There were boos, catcalls and whistles. The director and Ms. Vitti thought their careers were over.
But later that night, Roberto Rossellini and a group of other influential filmmakers and critics drafted a statement, which they released the next morning. “Aware of the exceptional importance of Michelangelo Antonioni’s film, ‘L’Avventura,’ ” they wrote, “and appalled by the displays of hostility it has aroused, the undersigned critics and members of the profession are anxious to express their admiration for the maker of this film.”
Being booed at Cannes became a badge of honor, and a legend of iconoclastic filmmaking was born.
“L’Avventura” went on to win the festival’s special jury prize and become an international box-office hit, establishing Mr. Antonioni’s reputation. But the debate about it was furious. Some viewers and critics found the film pointless; others read reams of meaning into its languid predicaments. The next year, Sight and Sound, the influential British film magazine, polled 70 critics from around the world. They not only endorsed “L’Avventura” but also chose it as the second-greatest film ever made, behind “Citizen Kane.”
Interviewers found Mr. Antonioni to be sometimes charming but mostly cool. “Even when he is telling stories about himself, Antonioni’s aristocratic face remains set in its habitually serious expression,” Melton S. Davis wrote in a 1964 profile for The New York Times Magazine. “Precise in manner, conservative in dress and quiet in speech, he could be taken for a banker or art dealer recounting an unfortunate business deal.”
After burnishing his reputation in the early 1960s, Mr. Antonioni surprised many of his admirers by making movies with Hollywood’s backing. One result was his biggest success, “Blowup.”
“My subjects are, in a very general sense, autobiographical,” he once wrote. “The story is first built through discussions with a collaborator. In the case of ‘L’Eclisse,’ the discussions went on for four months. The writing was then done, by myself, taking perhaps 15 days.
“My scripts are not formal screenplays, but rather dialogue for the actors and a series of notes to the director. When shooting begins, there is invariably a great amount of changing. When I go on the set of a scene, I insist on remaining alone for at least 20 minutes. I have no preconceived ideas of how the scene should be done, but wait instead for the ideas to come that will tell me how to begin.”
Michelangelo Antonioni was born on Sept. 29, 1912, into a well-to-do family of landowners in Ferrara, in northern Italy, a “marvelous little city on the Paduan plain,” as he described it, “antique and silent.” Around the age of 10, he began to design puppets and build model sets for them. As a teenager, he became interested in oil painting, favoring portraits to landscapes.
He attended the University of Bologna, where he was a tennis champion and earned a degree in economics and commerce in 1935. It was there, too, that he began to write stories and plays and to direct some of them as a founder of the university’s theatrical troupe. A burgeoning interest in film led him to write reviews of American and Italian genre films for the local newspaper. Many were scathing. Soon he decided to try his hand at filmmaking.
An Early False Start
Mr. Antonioni wanted to make a documentary about the local mental hospital. The patients helped him set up the equipment. Then he turned on the floodlights.
The patients went berserk, he later wrote, “and their faces — which before had been calm — became convulsed and devastated.”
“It was the director of the asylum who finally cried: ‘Stop! Lights out!,’ ” he added, “And in the half-darkened room we could see a swarm of bodies twisting as if in the last throes of a death agony.”
He decided to give up filmmaking.
In 1940, at the age of 27, he moved to Rome, where he worked as a secretary to a count and then as a bank teller before joining the staff of Cinema magazine, edited by Benito Mussolini’s son, Vittorio.
In 1943, Mr. Antonioni returned to Ferrara and found a merchant willing to bankroll his first film, a documentary called “Gente del Po” (“People of the Po Valley”), about the wretched lives of local fishermen. The German occupying forces destroyed much of the footage, though a few scraps survived and became a nine-minute curtain-raiser at the Venice Film Festival for Alfred Hitchcock’s “Spellbound.”
After the war, Mr. Antonioni wrote more film criticism and made more short documentaries. But he became skeptical of the neo-realist movement that dominated Italian filmmaking, with its relentless focus on substandard social conditions. He yearned to look beyond such things and into the hearts of individuals. “His films were about street sweepers, not street sweeping,” is the way the film critic Robert Haller put it. But no one would let him make the kind of films he wanted to make.
“For 10 years, the movies forced me not to use ideas but empty words, cleverness, business sense, patience, stratagems,” he wrote in an introduction to a 1963 collection of his screenplays. “I am so scantily blessed with such gifts that I recall that period as being the most painful one in my life.”
At 38, he found backing for his most ambitious nondocumentary project, “Cronaca di un Amore” (“Story of a Love Affair”). Ostensibly about a man and woman plotting to kill her husband, it was the earliest example of Mr. Antonioni’s distinctive approach to storytelling.
In the film, the husband dies, but it is unclear whether he was murdered, committed suicide or died by accident. The plot line vanishes and the story focuses instead on the lovers’ emotions.
In 1954, his 12-year marriage to the former Letizia Balboni fell apart. “We lived in silence,” she told an interviewer. “We reached the point where we communicated with each other only through the characters he created and about whom he wanted my advice.”
Mr. Antonioni sank into depression. His insomnia worsened. He often spent the early morning hours writing screenplays.
In 1955, at the height of this crisis, he had his first important artistic triumph, “Le Amiche” (“The Girlfriends”), about the loveless lives of a group of middle-class women in Turin. It won a Silver Lion at the Venice Film Festival.
Mr. Antonioni began experimenting with improvisation on the set. “It’s only when I press my eye against the camera and begin to move the actors that I get an exact idea of the scene,” he wrote. He used this technique extensively in “Il Grido (“The Cry”) in 1957, probably his grimmest film.
It was while shooting “Il Grido” that he met a young stage actress named Monica Vitti, who would become his most enduring star and almost constant companion during much of the ’60s.
The Turning Point: ‘L’Avventura’
For two years, he could not find a producer to back him. Finally, in 1959, he found someone and finished a long-brewing screenplay. But “L’Avventura” almost died before it was born. Short of money, his producer pulled out as Mr. Antonioni and the actors were working on a craggy island near Sicily.
“It had gotten to the point where there was no food,” he remembered. “One crew deserted us. We got hold of another crew and they, too, left. I had 20,000 meters of film and the actors stayed, so I carried the camera on my back and continued shooting.” Eventually a new producer appeared.
“L’Avventura” proved to be the turning point in his career and is widely regarded as his masterpiece.
Like most of Mr. Antonioni’s films, it focuses on the comfortable, enervated lives of well-to-do Italians, in this case a group of friends on a yachting trip. Without warning, during a visit to a wave-thrashed atoll, one of them, an emotionally troubled woman named Anna, simply vanishes. Had she drowned herself because her lover, Sandro (Gabriele Ferzetti), seemed in no hurry to marry her? Had she fled on another boat?
The small island is searched. It rains. Police arrive. Sandro develops an attraction to Anna’s best friend, Claudia (Ms. Vitti). She resists, then warms to him. The action shifts to a seaside town. They stop mentioning Anna at all. The search is forgotten. Sandro betrays Claudia, for no apparent reason. What happened to Anna remains a mystery.
In “L’Avventura,” Mr. Antonioni’s technique can be seen in full flower, conveying an “overwhelming sense of estrangement,” the film historian Andrew Turner wrote.
Mr. Antonioni’s next two films further explored this theme of alienation. (The three, he said later, were meant to be seen as a trilogy.)
In “La Notte,” Marcello Mastroianni plays an author with writer’s block and a loveless marriage to Jeanne Moreau. The film won the Golden Bear at the 1961 Berlin Film Festival.
“L’Eclisse” (“Eclipse”) most directly addressed the alienating effects of material wealth, portraying the love affair of a young woman of simple tastes — Ms. Vitti again — and a money-hungry stockbroker (Alain Delon).
The film’s ending is much discussed. Abandoning the principal characters, it closes with a montage, several minutes long, of 58 shots, most of them on or near a street corner where the lovers used to meet. Water seeps from a barrel. The brakes on a bus screech. A fountain is turned off. Finally, the camera zooms in on the white, annihilating glare of a streetlight. The end.
Mr. Antonioni said he had intended the ending to show “the eclipse of all feelings.” He saw it as a coda both to the film and to the trilogy.
In 1964, Mr. Antonioni made his first color film, “Il Deserto Rosso” (“The Red Desert)” with Richard Harris. It, too, starred Ms. Vitti, as a woman coming unhinged. Mr. Antonioni used color to mirror her mental state, having houses and even trees painted bright colors and then changing those colors from scene to scene.
By the mid-’60s, Mr. Antonioni was one of the most famous and controversial film directors in the world, and a Hollywood studio, MGM, came calling. He signed a three-picture deal.
“Blowup” was his first effort for the studio. Filmed in English, with the British stars David Hemmings and Vanessa Redgrave in the hip milieu of the swinging London fashion scene, “Blowup” became Mr. Antonioni’s biggest hit. It was also more conventionally plotted and faster-paced than his previous films, though still fundamentally ambiguous.
He then came to America to make his first big-budget film, choosing the student protest movement as his subject. The movie, “Zabriskie Point” (1970), was a flop, one of the biggest financial failures of its day.
After a Setback, ‘The Passenger’
Mr. Antonioni was devastated. He had made six films in the 1960s, many regarded as masterpieces, but would release only four more full-length nondocumentary movies before his death, only one of which, “The Passenger” (1975), was successful in the United States.
With it, Mr. Antonioni recaptured critical respect. The film stars Jack Nicholson as a reporter in North Africa who, for obscure reasons, assumes the identity of a dead gun-runner. It closes with a famous, 10-minute tracking shot in which Mr. Nicholson is seen in his hotel room, waiting to be killed. The camera pulls out of the room and meanders through the courtyard. People and objects move in and out of the frame before the shot comes full circle and re-enters the hotel room to find Mr. Nicholson dead.
“ ‘The Passenger’ leaves no doubt about Antonioni’s mastery,” wrote the film critic David Thomson, who called it “one of the great films of the ’70s.”
In 1980, after taking time to study new technologies, Mr. Antonioni made a television film called “Il Mistero di Oberwald” (“The Mystery of Oberwald”). Shot on videotape and transferred to film, it received an award for visual effects at the 1980 Venice Film Festival, but it made little international impact.
In 1982, he made “Identificazione di una Donna” (“Identification of a Woman”), about a film director who has affairs with two women following the death of his wife.
Mr. Antonioni, who had a stroke in 1985, married for the second time a year later, to Enrica Fico. She was at his side when he died. He had no children.
Mr. Antonioni did not direct a feature film again until 1995, when he was lured out of retirement to make “Al di là Delle Nuvole” (“Beyond the Clouds”) based on a book of stories he had written. Because of his infirmity, though, the German director Wim Wenders joined the production and is listed as co-director.
Because of his stroke, Mr. Antonioni had difficulty speaking, leaving his wife, Enrica, to interpret his demands on the set. The film starred John Malkovich and Jeanne Moreau.
The same year, the Academy of Motion Pictures Arts and Sciences gave Mr. Antonioni an award for lifetime achievement at the Oscar ceremonies. He also made several documentaries during this period.
He then astonished the film world by agreeing to return to narrative filmmaking in his 90s, directing a segment of a film trilogy called “Eros,” which received a limited United States release in 2005. His final release was a 15-minute documentary about art called “Lo Sguardo di Michelangelo” (“Michelangelo Eye to Eye”), which was added as an extra to the “Eros” DVD.
To his champions, like David Thomson, Mr. Antonioni’s place in the cinematic pantheon is assured. “Antonioni’s best films will continue to grow and shift, like dunes in the centuries of desert,” Mr. Thomson wrote.
“In that process,” he added, “if there are eyes left to look, he will become a standard for beauty.”
But for others, Mr. Antonioni remained not only enigmatic but also unreachable to the end.
One interviewer asked him to look back over his life. “In a world without film, what would you have made?” he was asked.
Mr. Antonioni replied: “Film.”
Da The New York Times, 1 Agosto 2007
BY an awful and uncanny coincidence — the kind of occurrence that, in a movie, would have to be taken as symbolic lest it seem altogether preposterous — Michelangelo Antonioni and Ingmar Bergman died on the same day. Since Mr. Bergman was 89 and Mr. Antonioni 94, neither man’s death came as much of a shock, but the simultaneity was startling. Not only because they were both great filmmakers, but more because, in their prime, Mr. Antonioni and Mr. Bergman were seen as the twin embodiments of the idea that a filmmaker could be, without qualification or compromise, a great artist.
Not that everyone agreed or saw them both in equally glowing light. There will always be those who scoff at the idea of cinema as a form of art. And those who do embrace the notion have always been notoriously prone to quarrel and dissension. In “Anticipation of ‘La Notte,’ ” for instance, his touching, self-aware memoir of youthful cinephilia, Philip Lopate recalls being part of an undergraduate claque of film buffs in the early 1960s who worshiped Mr. Antonioni and disdained Mr. Bergman.
The title of Mr. Lopate’s essay records a giddy state of waiting for Mr. Antonioni’s “sequel” to “L’Avventura” — before he went to see it on opening night, the author recalls, “I began dreaming, for several nights in a row, preview versions of ‘La Notte.’ ” It seems that he experienced no such ecstasy at the prospect of Mr. Bergman’s “Virgin Spring.” (Not that ecstasy would necessarily be an appropriate response to that bleak, brutal film about rape and revenge in medieval Sweden.) Mr. Bergman was, as far as Mr. Lopate and his friends were concerned, “the darling of the suburbs.”
“I once debated a fellow student for six hours,” he remembers, “because he called ‘The Seventh Seal’ a great movie.”
That argument ended long ago. Mr. Lopate, as his youthful ardor cooled and his critical sensibility matured, was able to see some of Mr. Bergman’s virtues as well as Mr. Antonioni’s limitations. By the time I entered my own phase of undergraduate cinephilia, about a quarter-century later, Mr. Bergman’s greatness was beyond dispute, and Mr. Antonioni’s reputation was only slightly less secure. The two of them — along with the other masters whose work had defined, from the mid-’50s through the late ’60s, a golden age of high-brow movie love — were pillars in the pantheon, canonical figures toward whom the only acceptable posture was one of veneration. They were discussed in seminar rooms, dissected in honors theses and ritualistically projected in darkened dining halls by the more serious of the campus film societies.
This was truer of Mr. Bergman than of Mr. Antonioni, some of whose later works still carried a frisson of countercultural daring and disrepute: the desert orgy at the end of “Zabriskie Point”; the rock ’n’ roll in “Blowup”; Jack Nicholson in “The Passenger.” But with both directors, the impulse that brought you to their movies was less likely to be aesthetic ardor than a sense of cultural duty or historical curiosity. This was true even though both continued to make films. Your appreciation of “Fanny and Alexander” or “Identification of a Woman” rested on the understanding that these were late works and that their authors belonged definitively to an earlier era.
Which is not to say that a passionate response to some of their earlier films — that feeling of profound disturbance, of being overpowered and rendered speechless that can signal the presence of genuine art — was out of the question. It did not always come easily, though. The institutions that keep art alive do so at the risk of embalming it. For generations that were not part of the great cinephile vanguard of the ’50s and ’60s, for those of us who grew up in the drab age in between the flourishing of the art houses and the rise of the Criterion Collection, the masterworks of modern cinema had lost their novelty. Their assaultive energies were ensnared in a version of the paradox identified by Lionel Trilling in his great essay “On the Teaching of Modern Literature,” first published in 1961, the year after Mr. Lopate dreamed of “La Notte.”
“Time has the effect of seeming to quiet the work of art,” Mr. Trilling observed, “domesticating it and making it into a classic, which is often another way of saying that it is an object of merely habitual regard. University study of the right sort can reverse this process and restore to the old work its freshness and force — can, indeed, disclose unguessed-at power. But with the works of art of our own present age, university study tends to accelerate the process by which the radical and subversive work becomes the classic work.”
The particular works Trilling had in mind were the (to him) still-fresh monuments of literary modernism, writings by the likes of Joyce, Eliot, Kafka and Yeats whose difficulty was not merely formal, but also, to use a word much in vogue at the time, existential. Their radicalism seemed to dwell in the challenge they posed to reflexive assumptions about society, consciousness, being and time.
Mr. Antonioni and Mr. Bergman, for their parts, were the supreme modernists of world cinema. Mr. Antonioni helped to push Italian film beyond realism, infusing landscapes with psychological rather than social meaning and turning eroticism from a romantic into a metaphysical pursuit. Mr. Bergman, heir to a Nordic strain of modernism represented by Strindberg and Ibsen, developed a film language dense with psychological symbolism and submerged emotion. The two of them upheld, as filmmakers, T. S. Eliot’s observation that “poets, in our civilization, as it exists at present, must be difficult.” “L’Avventura” and “The Seventh Seal,” though they have little else in common (apart from exquisite black-and-white cinematography, courtesy of Aldo Scavarda and Gunnar Fischer), are both hard to watch. Not because the content or the imagery is upsetting, but because they never allow the viewer to relax into a conditioned expectation of what will happen next or an easy recognition of what it means.
There was, among certain filmgoers in the 1960s, an appetite for difficulty, a conviction that symbolic obscurity and psychological alienation were authentic responses to the state of the world. More than that, the idea that a difficult work had special value — that being challenged was a distinct form of pleasure — enjoyed a prestige, at the time, that is almost unimaginable today. We would rather be teased than troubled, and the measure of artistic sophistication is cleverness rather than seriousness.
Given all that, it may be hard for someone who wasn’t there — who never knew a film culture in which “La Notte” didn’t already exist — to quite appreciate the heroic status conferred on Mr. Antonioni and Mr. Bergman 40 years ago. I don’t believe that the art of filmmaking has necessarily declined since then (I’d quit my job if I did), but it seems clear the cultural climate that made it possible to hail filmmakers as supreme artists has vanished for good. All that’s left are the films.
Da The New York Times, 2 Agosto 2007
Una malattia da anni lo aveva privato della parola. Ma non della volontà di vivere né, lui che era stato il poeta dell’incomunicabilità, del bisogno invincibile di comunicare. Sia scrivendo testi finissimi e colti, sia, continuando a fare del cinema, proprio rifacendosi a uno di questi. Come, appunto, con Al di là delle nuvole. La somma, forse, di quasi tutto quello che ci aveva dato nel corso della sua preziosa carriera. Non solo delle cronache di amori quasi impossibili all’insegna, come sempre, della incomunicabilità, ma quel suo costante rifiuto di «narrarli» per mettere gli accenti soprattutto sulla loro «rappresentazione». Luoghi, facce, momenti intensi e raccolti che, con la ben nota magia del suo cinema, arrivavano a manifestare dal loro interno perfino gli stati d’animo. Riuscendo a fargli fare di ogni immagine, o tra le nebbie o al sole o nelle compiute prospettive di insoliti panorami, degli autentici capolavori. In linea con quella sua pittura che, con forte ispirazione, lo aveva visto felicemente cimentarsi negli Ottanta, quando, avendogli tenuto a battesimo, in occasione di una mia Mostra del Cinema a Venezia quella sua «personale» intitolata alle Montagne incantate, Paolo Portoghesi, allora presidente della Biennale, aveva potuto vedervi la continuazione «con altri mezzi e con altra tecnica, di quelle sue memorabili riflessioni sul tema dell’ingrandimento fotografico che ebbero in Blow-up il loro clamoroso esordio». Cinquant’anni di cinema, da quel 1942 quando, appena trentenne, aveva collaborato con Rossellini alla sceneggiatura di Un pilota ritorna, fino a quel 1995 in cui io avrei avuto l’onore e la gioia di presentargli alla Mostra di Venezia il suo affascinante Al di là delle nuvole. Una carriera di certo fra le più alte e le più colte del nostro cinema e anche di tutto il cinema mondiale perché Antonioni, anche quando si era fatto direttamente ispirare dal nostro quotidiano, geograficamente e idealmente era andato sempre oltre pur sapendo che, dopo la tappa inglese, con Blow-up dopo quella americana con Zabriskie Point, quella spagnola e africana, con Professione reporter, e quella cinese con Chung Kuo, gli era sempre necessario tornare a ritrovare stimoli nuovi là dov’era nato. Perché - come disse qui a me nel ’75 - «siamo tutti radicati a una lingua, a una cultura, a un ambiente storico». Precisando subito dopo: «Girando in altri paesi ho finito per assimilarne certi aspetti, perdendo qualcosa di quello da cui provenivo. Un po’ come quegli scrittori che vivono sei mesi negli Stati Uniti e sei mesi in Europa. A un certo momento non sanno più che cosa raccontare. Per questo, spesso, io sento il bisogno di ritrovare le mie radici. Come adesso, che penso di raccontare la storia di persone nate e vissute in Italia. Magari all’ultimo momento questo Paese, che ci dà già i brividi se lo si guarda bene, improvvisamente ti respinge e ti fa cambiare idea. Lo so, non è una critica molto originale ormai, ma può forse essere originale cercare di amarlo lo stesso, questo Paese, pur disprezzandone una parte. E quando dico «una parte», intendo proprio una gran parte di gente, quella che vediamo nelle strade, nei locali...». Antonioni e noi, perciò, fin dagli inizi, quando con la sua opera prima Cronaca di un amore (1950) aveva mostrato subito il suo interesse primario nei confronti della nostra borghesia, tanto spesso trascurata, soprattutto allora, dai nostri autori più seri. Con un cinema che già lo rappresentava e che era lui: in quel primo film e dopo in tutti quelli che lo avrebbero seguito. Mi disse infatti un giorno: «Il mio cinema è quello che è perché io sono quello che sono. C’è chi dice che io sono un regista tipicamente di èlite. La verità è che io ho, nei confronti delle faccende artistiche, un atteggiamento più sciolto, meno impegnato di quanto si pensi. Sono sempre degli interessi personali che mi muovono. I personaggi dei miei film sono tutti inventati, ma nello stesso tempo sono anche reali perché è la realtà a suggerirmene i modelli. Basta una battuta ascoltata, un gesto, una faccia, un’espressione, un fatto, un racconto che qualcuno mi fa. Questo punto si allarga, diventa una sequenza, la sequenza un blocco di sequenze e si arriva alla storia completa. Non si sa mai bene come questo avvenga. Forse c’entra anche una mia esigenza di fare un film ogni volta per qualcuno. No, non il pubblico, una persona precisa, un amico, una donna. È sempre stato così. Come quando da giovane giocavo a tennis. Se avevo un pubblico giocavo meglio. Una volta, a Bologna, nella finale di un torneo non c’era nessuno e ho perso i primi due set. A poco a poco è venuta gente e ho vinto gli altri tre». Un cinema suggerito dalla realtà, dunque, un cinema dedicato agli altri - singoli non masse - e un cinema nello stesso tempo personalissimo e non di rado chiuso in se stesso; per analizzare, sempre dall’interno, il cammino di un’epoca e, attraverso gli anni, l’evoluzione o l’involuzione di una classe, la nostra borghesia appunto. Cronaca d’un amore era già questo, con uno sguardo sulla coppia, con l’analisi di un rimorso e la rappresentazione, anche tecnicamente già perfetta, di una frattura nei sentimenti. Subito dopo I vinti - che avrebbe dovuto intitolarsi I nostri figli andando a fondo nei guasti di quegli anni - finì invece per limitarsi, a causa di varie controversi censorie, a darci un quadro, comunque veritiero, della gioventù bruciata d’Europa, in Italia, in Francia, in Inghilterra. Ma ecco La signora senza camelie che, con l’occasione di un’indagine spesso spietata nell’ambiente dello spettacolo, doveva cominciare a farci sentire la nota dominante di tutto il cinema di Antonioni: l’assenza di speranza e di speranze nei confronti del mondo che osservava e ci proponeva. Il nostro mondo, il suo. È stato da quel giorno, da quel film che io, come critico, avevo cominciato ad adoperare il termine «disperazione» per un autore che, andando controcorrente attraverso le finte o superficiali euforie dei Cinquanta, metteva invece in evidenza il vuoto e la disgregazione di una società che inutilmente si interrogava su sé stessa. Come subito dopo, nelle Amiche (1955), dove quella stessa disperazione si alimentava a quella analoga di Cesare Pavese nel suo racconto Tre donne sole, e come dall’osservazione della borghesia passando intenzionalmente a quella del mondo operaio, nel Grido (1956), dove la crisi esistenziale, da filosofica e sociale, si faceva drammatica. Con echi alti di tragedia. Per arrivare all’incomunicabilità, l’approdo alla grande poetica del silenzio forzato, forse la più esemplare di Antonioni. Tre film nella stessa chiave, L’avventura (1959), La notte (1960), L’eclisse (1962), con il sostegno di un volto femminile - quello intensissimo di Monica Vitti - che precisarono sempre di più in lui la sua attenzione per la donna come figura emblematica di un’epoca senza più certezze e, non solo senza più speranze, ma senza più neanche la possibilità di trovare conforti attraverso una «comuncazione» via via sempre più negata: dalla società e dai mutamenti nella psicologia dell’uomo (e soprattutto della donna) all’interno di questa stessa società. Dall’incomunicabilità alla sua forma «malata», la nevrosi, attraverso le arsure di Deserto rosso. Con invenzioni nuovissime sul colore. Quindi, nell’arco di dieci anni, i suoi due film stilisticamente più ardui, con l’autorità dei capolavori assoluti, Blow-up (1966), Professione reporter (1975). Ai quali, in virtù delle sue continue ricerche sul cinema e sull’immagine, doveva seguire quel Mistero di Oberwald (1980), che sarebbe rimasta la prima sperimentazione dell’elettronica applicata al grande schermo. Per approdare alle ricerche sofferte di Identificazione di una donna (1982). Ancora un’analisi fine e dolente di un personaggio femminile. La sua cifra maggiore. Rivisitata, appunto, nel suo ultimo film veramente d’autore, Al di là delle nuvole. Il suo estremo saluto e, nello stesso tempo, la riconferma della sua rigorosa fedeltà a sé stesso, alla sua arte, alla irripetibile vitalità del suo cinema.
Da Il Tempo, 1 agosto 2007
Cinema. Arte fundamentalmente figurativa, il cinema come la pittura ha il suo mezzo di rappresentazione formale nell'apparenza estema della natura e degli individui, perché lasci chiaramente trasparire la loro interiorità. Si badi bene: apparenza, non materia; perciò si rende indispensabile un rapporto preciso tra spirituale e sensibile, l'ottenimento del quale coincide: da un lato con la trasfigurazione dell'aspetto reale del mondo in pura illusione d'arte, dall'altro con il colore, i cui passaggi, differenze e sfumature consentono la trasfigurazione medesima...
Basta tenere per valida l’asserzione per cui il cinema in bianco e nero sta al cinema a colori come il disegno sta alla pittura (10 dicembre 1942).
Inquadratura. È rarissimo che io abbia delle inquadrature già fissate in mente. È chiaro che nella fase di preparazione di un film un regista si crea delle immagini nella mente, ma è sempre pericoloso innamorarsi di queste immagini pensate, poichè poi si finisce per rincorrere l’immagine astrattamente pensata in una realtà che non è più la stessa che ci appariva a tavolino (...). (febbraio 1961)
Politica. Non so perchè ho cominciato a interessarmi, nel cinema, ai sentimenti piuttosto che ad altri temi piu scottanti, come la guerra, il fascismo, i problemi sociali, la nostra vita di allora. Non che questi altri temi mi lasciassero indifferente, c'ero dentro e li vivevo, sia pure in modo abbastanza solitario. Deve essere stata una mia esperienza sentimentale finita in modo inesplicabile (...). (1964)
Stile. I critici francesi hanno parlato di una nuova formula: il «neoralismo interiore». Io non avevo mai pensato di dare un nome a quello che per me è sempre stata, fin dam tempi di quel documentario sui malati di mente, una necessità: guardare dentro l'uomo, quali sentimenti lo muovano, quali pensieri nel suo cammino verso la felicità o l’infelicità o la morte (...)
Donne. Do sempre molta importanza ai personaggi femminili, poichè credo di conoscere meglio le donne degli uomini. Penso che attraverso la psicologia delle donne si possa meglio filtrare la realty Sono pifr istintive, pima sincere.
Eclisse. A Firenze per vedere e girare l’eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altre luci. E poi buio. Immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che durante l’eclisse probabilmente si fermano anche i sentimenti. È un'idea che ha vagamente a che fare con il film che sto preparando, una sensazione più che un'idea, ma che definisce già il film quando ancora il film è ben lontano da essere definito. Tutto il lavoro venuto dopo, nelle riprese si è sempre rapportato a quell’idea o sensazione o presentimento. Non sono più riuscito a prescinderne. (1964)
Da Michelangelo Antonioni, di Giorgio Tinazzi - edizioni Il Castoro
Un Kim Rossi Stuart ventiquattrenne, dodici anni fa, fu scelto dal maestro per interpretare Al di là delle nuvole. «E’ stata un’esperienza indimenticabile», racconta il bravissimo attore e regista. «Pur avendo lavorato in precedenza con maestri del cinema, mi trovai per la prima volta al cospetto di un mito. E appena misi piede sul set, rimasi impressionato dal carisma e dalla forza di Antonioni: non poteva parlare, ma riusciva a mettere sotto tutti. Non aveva perso la sua forza di domatore di leoni, che esercitava con gentilezza e ironia…Indimenticabili le scaramucce con Wenders, l’angelo custode che cercava di aiutarlo in tutti i modi». Aggiunge, Kim: «In quel cast di interpreti straordinari, mi resi subito conto di rappresentare l’ideale di attore secondo Antonioni: fragile, esposto, portatore di un disagio che traspariva e che in qualche modo era lui stesso a provocare…Era il suo modo di trattare gli attori maschi: forse voleva rappresentare lo sperdimento dell’uomo nei confronti delle donne. Faceva così con tutti. Solo Jack Nicholson gli teneva testa».
Da Il Messaggero, 1 Agosto 2007
Inés Sastre, 34 anni, da Valladolid. Luisa Ranieri, 32 anni, da Napoli. Entrambe belle, sia pure di una bellezza diversa. Sofisticata e altera, quasi distante, la spagnola; solare e sorridente, molto carnale, la seconda. Antonioni volle l'una, nel più autobiografico e platonico degli episodi di Al di là delle nuvole (1995), l'altra nel più nudo e sensuale dei frammenti di Eros (2004). Per entrambe è un giorno triste.
Sospira al telefono l'attrice iberica. «Domenica Serrault, ieri Bergman, oggi Antonioni. Ma che sta succedendo? Tre talenti enormi che se ne vanno così, l'uno dietro l'altro. Ricordo con molto piacere le riprese a Ferrara, la città di Michelangelo. lo nei panni di Carmen, Kim Rossi Stuart in quelli di Silvano. Un amore immaginato dal regista, sospeso tra desiderio vibrante e rinuncia fisica. Si vedeva che Antonioni metteva in gioco qualcosa di sé». L'attrice, reduce da La cena per farli conoscere di Avati, si esprime nel suo incantevole italiano punteggiato di coloriture spagnole e francesi. «Non parlava, Antonioni, per via della malattia, ma ci si capiva benissimo sul set. Comunicava meglio di tanti registi chiacchieroni che non hanno niente da dire. Quel film segnò il mio ritorno al cinema. Mi consegnai completamente a lui». Esperienza cruciale, accanto ad attori del calibro di Malkovich, Mastroianni, Ardant, Morceau. «Per certi versi era un omaggio alla donna, come lui la vedeva, Due anni dopo fui invitata a Cannes, insieme a Jeanne Moreau e Vanessa Redgrave, per consegnargli un premio alla carriera. E l'emozione si raddoppiò». Il suo Antonioni del cuore? «Forse L'avventura, con quella Vitti così misteriosa, sensibile, intensa».
Più laconica Luisa Ranieri, alle prese col nuovo film di Vincenzo Salemme, Sms. Fa sapere di essere «molto addolorata» per la morte di Antonioni, che considera «un maestro oltre che un amico». Nell'episodio di Eros incarnò, letteralmente, il potere salvifico della Femmina. Ricorderete. Una facoltosa coppia in crisi, Christopher Bucholz e Regina Nemni, finiva nell'orbita salvifica di una disinibita ragazza, Lina, chiusa dentro una torre medioevale dalle parti di Orbetello. In una cornice di stilizzato estetismo, tra morbide allusioni e nudità poetizzanti, colpì alla prima veneziana l'acrobatica performance autoerotica della. fanciulla, poi alleggerita per l'uscita in sala. Racconta: «Onestamente trovai anch'io quelle scene un po' insistite e forti. Però come dire di no ad Antonioni? Ero un' attrice al mio secondo film, un'occasione da non perdere. Per certi versi fu devastante lavorare con lui, ma nel senso buono del termine: riuscì a sbriciolare i miei moralismi e le mie convenzioni. Certo, non mi sentivo a mio agio sul set, Antonioni dirigeva a gesti. Sono molto grata alla moglie, Enrica, il suo aiuto contribuì a sbloccarmi. All'emozione per la scena più audace, far l'amore spogliati e in modo veritiero, si aggiungeva la paura per l'esame da sostenere davanti al mito del cinema». Il primo incontro? «A casa sua. Mi chiese di parlare in inglese e io mi esibii nel mio inglese alla napoletana. Alla fine gli dissi: maestro, tutto quello che sapevo, l'ho detto! E lui sorrise».
Da Il Giornale, 1 agosto 2007
Undici lungometraggi, da Cronaca di un amore (1950) a Identificazione di una donna (1982), la magnifica, stupefatta immersione nella Cina della rivoluzione culturale (Chung Kuo, Cina, più di 4 ore), i cortometraggi, da quelli noti e apprezzatissimi della fine anni Quaranta (come N.U., Gente del Po, L’amorosa menzogna) a quelli più recenti e rari, come Ritorno a Lisca Bianca, girato nell’83 sui luoghi de L’avventura, e un piccolo documentario girato nel 1977 in India, Kumbha Mela. In pratica, trent’anni della nostra vita, della nostra società, attraverso lo sguardo acuto, tormentato e sempre stimolante dell’autore più anomalo e isolato del nostro cinema. Sempre stimolante: anche quando fa un brutto film (Il mistero di Oberwald del 1980), su un registro melodrammatico che non gli si addice, usandolo però quasi come un gioco emotivo per esplorare le possibilità cromatiche e suggestive della nuova tecnica dell’alta definizione; o quando si lascia suo malgrado affascinare dalla magia e dal mito dello sterminato spazio americano (in Zabriskie Point, 1970) e finisce per trarne più poesia che rabbia; o torna, vent’anni dopo L’avventura, al percorso introspettivo puro ed enigmatico, spiazzando gli spettatoti da effetti speciali anni Ottanta con una riflessione tutta interiore e i critici con una bellissima impennata della fantasia (Identificazione di una donna).
Quanto all’aggettivo "isolato", non ha bisogno di molte spiegazioni: uno dei grandi autori emersi nel nostro cinema, è sempre stato considerato un po’ eccentrico nel suo ambiente e "difficile" dal pubblico. L’etichetta dell’incomunicabilità gli è rimasta appiccicata addosso, anche quando tutti ormai sperimentavano nella vita quotidiana il peso soffocante del vuoto, dell’isolamento, della crisi. In realtà ha tracciato alcuni dei ritratti più intensi e pietosi della condizione umana per esempio facendo suicidare un operaio anzitempo (nel 1957, in Il grido), tra il disappunto saputo di buona parte dei nostri critici "sociologi". Il vero problema è che Antonioni, almeno da Rossellini in poi, è stato il più internazionale dei nostri cineasti. E non solo per la libertà e la disponibilità con cui è andato a riprendere altri mondi, ma soprattutto per la limpidezza e il coraggio della sua ricerca e per il rigore con cui ha evitato le trappole dell’ideologia e dello strapaese. Visconti si è sempre rifatto alla grande tradizione borghese nazionale; Fellini ha amalgamato i suoi umori provinciali con le mollezze romane; Bertolucci ha se mai riportato le visioni del mondo esterno all’interno di ritmi affabulanti parmigiani.
Antonioni, invece, è stato una specie di "alieno", discreto nei chiaroscuri e nelle inflessioni dialettali, lontano da caricature, melodrammi e nostalgie della provincia, persino quando gira intorno a Ferrara, dove è nato. Non ha mai ambientato un film nella Roma della dolce vita; non si è mai lasciato incantare dall’architettura dolce delle nostre città medie. In pratica, ha anticipato quel recente abbozzo di fuga del nostro cinema da location e personaggi stravisti, quell’apertura su paesaggi e psicologie che sono sempre più "vicine all’Europa".
In questo senso è sintomatica la sua identificazione accuratissima e anomala di ambienti e spazi, contro i quali si stagliano disperate le sagome dei personaggi. Milano non è tanto il Duomo quanto le torri asettiche che circondano Jeanne Moreau ne La Notte; Roma è l’Eur; Ravenna è la distesa piatta degli insediamenti industriali, contrappuntati con le case, i muri, gli alberi colorati in tinte squillanti per le riprese del suo primo film a colori (Deserto rosso). Non c’è da meravigliarsi che la sua macchina da presa si trovi perfettamente a proprio agio anche fuori d’Italia: il suo ritratto londinese di Blow Up (1966) è uno dei più efficaci della Swinging London. E non meraviglia neppure la fascinazione continua che prova per i deserti, dalle Eolie tutte sassi e introspezione dell’Avventura, alla Death Valley di Zabriskie Point, al deserto africano nel quale si perde Jack Nicholson in Professione: reporter. Il deserto è pieno di miraggi, ma è anche una grande superficie riflettente, nella quale ricercare o annullare la propria immagine.
Da Il Sole 24 Ore, 20 giugno 1993
"Mi sono sempre domandato se sia giusto dare un finale ai racconti, letterari teatrali o cinematografici che siano. Una volta chiusa in un suo alveo, una storia rischia di morirvi dentro, se non le si dà un’altra dimensione, se non si lascia che il suo tempo si prolunghi in quello esterno dove siamo noi, protagonisti di tutte le storie. Dove non c’è niente di concluso. "Datemi dei finali nuovi - disse una volta Cechov -, e io vi riinvento la letteratura". È la conclusione di Tanto per stare insieme, uno dei 33 racconti pubblicati nel 1983 da Michelangelo Antonioni in Quel bowling sul Tevere. Sono piccole storie abbozzate, spesso di poche righe, sempre costruite più di immagini che di parole, spunti per film mai realizzati, che riflettono con un’intensità quasi dolorosa le situazioni e gli stati d’animo dei film diretti dal regista in quarant’anni di carriera. Storie di abbandoni, solitudini, incomprensioni e silenzi. Dai primi cortometraggi documentari girati a metà degli anni Quaranta (Gente del Po e il bellissimo Nettezza urbana) all’ultimo lungometraggio diretto nel 1982, Identificazione di una donna, le sue storie senza finale sono sempre state interminabili rebus per gli occhi, dove il rigore e l’acume dell’inquadratura potevano aprire una tormentosa breccia di comprensione nella sensibilità dello spettatore.
I silenzi, gli sguardi, gli scorci urbani valevano molto di più delle parole, che spesso nei film di Antonioni sono proprio brutte, da dimenticare, tutte intente a "tradurre" per orecchie distratte l’eccezionalità del groviglio di sensazioni e dubbi rimandato dalle immagini. "Mi fanno male i capelli" di Monica Vitti in Deserto rosso è una delle battute più disgraziate della storia del cinema; ma la faccia di Jeanne Moreau pedinata in La notte vale qualsiasi dialogo sbagliato, riassume una classe, una sensibilità, un periodo storico. Antonioni ha appena compiuto ottant’anni. Lo stanno celebrando a Parigi e a New York. In Italia, dove pure è stato molto celebrato in passato (soprattutto a Ferrara, dove è nato), le iniziative sembrano meno risonanti; forse perché da circa 10 anni si aspetta un suo film (il regista è da tempo molto malato), forse perché non si è mai messo troppo in mostra, o forse perché il suo rigore scomodo non è mai stato veramente amato. Antonioni non ha mai corrisposto all’ideale nazionale del maestro; e non solo perché il suo cinema è sempre stato un po’ elitario, ma anche perché la sua fisionomia personale, riservata, un po’ distratta, non è di quelle che colpiscono l’immaginario collettivo italico. Ma tra i nostri autori emersi alla fine degli anni Cinquanta è l’unico che possa permettersi di andare a fare film all’estero, a Londra, nella Death Valley, in Africa o in Cina, senza suonare falso o provinciale (l’altro è Bernardo Bertolucci, che appartiene però alla generazione successiva).
Che differenza fa che i soggetti di questa crisi siano le giovani donne della borghesia dei primi film (Cronaca di un amore, La signora senza camelie, Le amiche), le eroine in fuga della "trilogia" degli anni Sessanta (L'avventura, La notte, L'eclisse), una coppia di adolescenti hippy americani (Zabriskie Point), un fotografo alla moda della Swinging London (Blow Up) o un reporter americano che insegue la propria morte in Africa (Professione reporter)? I personaggi di Antonioni sono l’espressione di una condizione umana assoluta; le sue immagini altrettanto puntuali se inseguono i picchi gelidi dei palazzi milanesi o gli abissi sabbiosi della Valle della Morte, le distese siciliane, quelle africane o quelle verdi e inquietanti di Hyde Park. è indicativa in questo senso la sua acuta sensibilità nei confronti del paesaggio: urbano o desertico, non fa differenza, nella chiusa concitazione della Borsa di Milano o nella malinconia della pineta di Ravenna, il paesaggio è sempre una cornice immota e silenziosa, né partecipe, né ostile.
"I miei pensieri sono quasi sempre dei film", ha detto Antonioni. "Quando non so cosa fare incomincio a guardare". Ed è stato capace di guardare con la stessa passione soffocata gli angoli più disparati, senza legarsi a casa, alla provincia. Proprio a casa sua, nella provincia tra Ferrara e Rovigo, ha messo in scena nel 1957 il primo dei suoi suicidi (Il grido). Forse sarebbe ora che anche noi ricominciassimo solo a "guardare" i suoi film. Era un suo invito esplicito, ai tempi di Professione reporter: "Un film - non mi stancherò mai di dirlo - non ha bisogno di essere "capito", basta che sia "sentito". Per uno spettatore vedere un film deve essere soprattutto un’esperienza personale, intuitiva; come quando uno legge una poesia. Chi si sognerebbe di farsi spiegare una poesia?".
Da Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 1992
Enrica aveva 18 anni, Michelangelo Antonioni 59 quando si sono conosciuti. Sono insieme da 32 anni. Vivono da sempre nello stesso piccolo attico. Era lo studio di Michelangelo, che non si vuole muovere da lì. «È l‘unico uomo che potrei sopportare qui, perché è silenzioso, indipendente. Lo amo», dice con tenerezza Enrica seduta sul divano blu, davanti alla grande vetrata con vista sul Tevere, accanto al tavolo con i colori e i quadri dove Michelangelo passa i pomeriggi a dipingere. Qui Antonioni ha scritto la sua ultima opera, Eros, film a tre episodi (di uno ha firmato anche la regia) che poteva - doveva - rappresentare l‘Italia a Cannes. Se non fosse scomparso all‘ultimo momento dal programma del festival, misteriosamente ma non tanto, sarebbe stato accompagnato da un film-documento di 15 minuti di cui Michelangelo era regista e attore in coppia con il Mosè, la statua di Michelangelo Buonarroti fresca di restauro. Michelangelo e Michelangelo: «Si è creato un legame speciale, fatto di attenzione ed emozione. Ha voluto girare secondo le regole del suo cinema, dando a se stesso un ruolo muto, in un film che parla con immagini e musica». Enrica sapeva che avrebbe funzionato. Lo sapeva perché Antonioni lo conosce bene. Lo conosceva prima di conoscerlo.
Il loro primo incontro, spiega, fu come rivedere una persona già conosciuta. «Mi sembrava di sapere già tanto di lui. Quando ci siamo incontrati ero giovane, contestatrice, e gli ho subito dato del tu, mentre lui mi dava del lei. L‘appuntamento era a Piazza del Popolo, ho visto Michelangelo arrivare in macchina da via del Corso, posteggiare, pagare il posteggiatore e attraversare la piazza. Lo studiavo. Era bello, elegante e aveva una camminata nevrotica, nervosa che mi ha incuriosita, volevo scoprire tutto di lui. Quando si è seduto era già fatta, sentivo che era inevitabile. Per lui forse era diverso, perché era spaventato all‘idea che io avessi solo diciotto anni. Per me l‘età non contava niente».
Aveva timore, Michelangelo, ed era ancora legato a un‘altra donna, Clare Peploe, oggi moglie di Bernardo Bertolucci. Enrica parla con calore dell‘inizio della loro storia. «Con Clare aveva molti problemi perché lei voleva stare a Londra e Michelangelo no. Erano appena tornati da un giro del mondo e lui era innamorato, parlava molto di lei. Non è uomo che subisce sofferenze in amore, non ha mai sofferto pene d‘amore, è proprio maschio. Ma non ha mai lasciato le sue donne, è sempre stato lasciato: da sua moglie Letizia, da Monica Vitti, da Clare. Da me no».
Le esperienze, nel racconto di Enrica, erano comuni nonostante i quarant‘anni di differenza. «Lui aveva fatto la contestazione, aveva girato Zabriskie Point, aveva letto come me Carlos
Castaneda. Poi la Cina, dove siamo andati insieme quando lui ha girato il documentario per la Rai, è stato il nostro viaggio di nozze: per me la Cina era un mito, avevo fatto tutta la contestazione parlando del sistema comunista cinese, del libretto di Mao, al liceo artistico di Brera a Milano.
Andarci insieme era il segno del destino». Antonioni ha una personalità forte, Enrica era giovane: com‘è riuscita a essere se stessa? «Si è se stessi un po‘ sì, un po‘ no. Posso dire che, se in alcuni momenti mi sono snaturata per riuscire a stare accanto a Michelangelo, poi ho sempre avuto il modo di ritornare a essere me stessa. Oltre all‘arte ho molti interessi che vanno dalla meditazione alla medicina ayurvedica, all‘India, questo mondo è una mia seconda vita. La mia famiglia d‘origine mi ha dato dei valori che mi hanno protetto dall‘ambiente del cinema, dalla nevrosi, dalla follia. A Brera ho avuto professori straordinari che mi hanno insegnato che cos‘è l‘arte, che cosa significa essere un artista. Sapevo distinguere il bello dal brutto. Sono ligure, una natura chiusa come quella di Michelangelo. Accanto a lui sono molto migliorata».
Da diciotto anni Antonioni ha perso l‘uso della parola, del braccio e della gamba destra ed Enrica è anche diventata la sua voce, lei capisce quello che lui vuol dire, e che dice a gesti, qualche parola, un disegno. «Ho dovuto difendere la sua persona, la sua opera perché rimanesse integra, e conosciuta in tutto il mondo. Per diciotto anni non ho fatto che questo, sempre per lui, accanto a lui. Questa è stata la mia missione». È questo l‘amore? «Ancora lo devo capire, cosa sia l‘amore. Lo scoprirò quando sarò libera di essere donna veramente, di non dover sostituire l‘uomo. In questi ultimi diciotto anni ho agito più da uomo, usando tutte le mie energie maschili, che da donna. Ma sono sempre stata molto amata e la persona che ho amato di più in assoluto è Michelangelo. Lo amo sempre». «Amare Michelangelo è cosa complessa, parte da molto lontano, vuol dire dedicarsi completamente a lui. Essere padroni l‘uno del corpo dell‘altra attraverso l‘abbandono completo, essere padroni delle nostre menti, della nostra storia profonda, questo è amore. Michelangelo mi piace fisicamente, è bello, elegante. C‘è una grande am-mirazione tra di noi». Ma anche complicità e ami-cizia. «Spesso la notte, insonni entrambi, lo vado a trovare e lui mi ascolta, mi dà consigli. Ci piaccia-mo, tutto di lui è compatibile con me. Intendo oggi come prima, lui riesce con sforzo a dirmi delle co-se. Invecchiando è diventato più paziente».
A novantun anni Antonioni è stato il primo, fra i registi della trilogia, a finire il suo episodio di Eros. La professione è, per lui, cosa acquisita, ma come riesce a comunicare ciò che vuole agli altri? «Sul set di Eros era sempre arrabbiato perché il suo sforzo per fare il film era costante. Hai voglia offrirgli le cose giuste, per lui non lo sono mai. Ha sempre un‘altra soluzione in testa. E non ti dice mai qual è la sua intuizione di regia, non ti considera, non è affare tuo, è il suo film e tu de-vi fare esattamente quello che lui ha nella testa, ma è molto difficile catturare quello che pensa. Si va per esclusione fino ad arrivare a quello che vuole. A volte ci vogliono giornate intere per trovare la luce giusta, il movimento della macchina da presa, gli attori, la sceneggiatura. Non vuole mai niente di semplice, di ovvio, è sempre il contrario di quello che si pensa. Ha ancora tutto un suo modo, totalmente intatto, di girare una scena. È rimasto al suo tempo, sempre quello, anche se sono passati settant‘anni da quando ha cominciato a fare cinema. Ha sempre quel ritmo dentro al quale aggiunge continuamente nuove invenzioni. Con gli attori è stato più facile, perché lui non dava mai direzioni, aspettava di vedere come agivano, e poi cambiava togliendo, semplificando, dicendo: meno, un po‘ meno».
Enrica ha scoperto la musica e il canto e ha scritto e cantato alcune canzoni che sono la colonna sonora di Eros. «Sono tre brani. Michelangelo ha nicchiato, perché è una cosa strana per lui che io canti. Ma l‘ho spuntata». Quello fra Enrica e Michelangelo è diventato un rapporto totalmente simbiotico. «Perché io sono senza regole, ho bisogno della sua routine così regolare, nella quale succedono sempre cose straordinarie. Lui senza di me non ha la qualità della vita che vuole, gliela posso dare solo io. Ci divertiamo tanto insieme. Non posso stare più di due giorni senza di lui».
Da Vanity Fair, 13 maggio 2004
Di un maestro come Antomoni si possono prendere poche immagini e trovarci l’invenzione della modernità. Prendiamo due sequenze memorabili. Quella di Lisca Bianca nell'Avventura (195g) e quella che chiude L'eclisse (1962). L'avventura fu una vera e propria, fatícosa e pericolosa “avventura“: il produttore che si ritira, la troupe in sciopero, mesi alle Eolie senza un soldo, tutti bloccati come naufraghi per giorni e notti su Lisca Bianca che è poco più di uno scoglio, senza coperte, senza niente da mangiare e con il mare forza nove. La lavorazione del film è roba da forzati. L’avventura, al contrario, è una storia borghese: un gruppo di benestanti in gita su un’isola con lo yacht, chiacchiericci su amori e capricci, la messinscena, anche frivola, dell'incomunicabilità. E Anna (Lea Massari) scompare. Così. Il fidanzato Sandro (Gabriele Ferzetti) e una sua amica, Claudia (Monica Vitti) la cercano senza troppa convinzione, anche perché tra i due nasce una relazione (una relazione “alla Antonioni“: che non si bene cosa sia, se ci sia mai stata, se ci sarà ancora...).
La sequenza della scomparsa, evaporazione, assenza, dissoluzione di Anna, del suo volontario celarsi o di un suo misterioso annullamento su quell'isolotto desertico, è condotta con lucidità fenomenologica. Scompare un personaggio e appare il cinema dello spaesamento. A svanire non è solo Anna: a evaporare sono le coordinate con cui il cinema rappresenta, di solito in maniera solida e geometrica, lo spazio, il rapporto tra un luogo e i personaggi, di ogni personaggio con gli altri. Una volta Antonioni ha detto cosa significasse per lui «fare del cinema-verità», quale potesse essere la verità del suo cinema: «Attribuire a una persona la sua storia, cioè la storia che coincide con la sua apparenza, la sua posizione, il suo peso, il suo volume in uno spazio». Niente di più, niente di meno. Fenomenologia di un essere. Avere un peso e un volume, apparire e stare in uno spazio. Anna invece, e sorprendentemente, scompare, rinuncia a un volume, non occupa più spazio.
In quella sequenza sull'isola, con il suo cinema disadorno e diluito, elegante e vuoto, con quei suoi sguardi lunghi e lontani, con una macchina da presa distaccata e ironica che osserva e registra ciò che accade non più con affetto neorealistico ma con moderna lucidità, Antonioni dichiara che quei suoi personaggi non sanno cos'altro essere oltre che peso e volume. Lo spazio indifferente e vuoto dell'isola diventa, grazie al puro reticolo delle immagini, la rappresentazione della loro inconsistente inesistenza. Nel finale dell'Eclisse, Antonioni si spinge ancora più in là. Non spariscono soltanto i personaggi, la fossile Vittoria (Monica Vitti) e l'integrato Piero (Alain Delon): sparisce tutto, anche la possibilità di raccontare una storia, di portarla a una sia pur misera e sfilacciata conclusione, come potrebbe essere quella di un altro, inutile incontro tra i due. Nei dieci minuti finali dell'Eclisse personaggi e storie si eclissano e svaniscono. Restano un palazzo in costruzione all'Eur, un cavallo che passa al piccolo trotto, una domestica con carrozzina, un'aiuola innaffiata, un rivolo d'acqua che finisce in un tombino, gente che scende da un autobus, il cielo che si fa scuro.
L'ombra di un ramo sembra un quadro astratto, la corteccia di un tronco è un’ opera materica, i tubi di un’impalcatura sono linee alla Kandinskij, il profilo dei balconi di un condominio rimanda a Mondrian. Antonioni lascia il neorealismo fin dal primo film, Cronaca di un amore (1950), e non smette di interrogarsi su come si possa con la macchina da presa «cogliere una realtà che si matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, con una nuova percezione». La modernità del cinema sta qui (e in Blow up, Zabriskie Point, Profèssione: reporter...)
Da Film Tv, n. 21, 2004
Il silenzio a colori si intitola l’ultima opera di Michelangelo Antonioni: una mostra di dipinti, realizzati a partire dal 2002, vista al Tempio di Adriano a Roma dal 28 settembre al 22 ottobre 2006. Centinaia di immagini, per lo più astratte, che colpiscono per la profusione dei colori e delle forme: tutto l'opposto, si direbbe, del rigore monotematico delle precedenti Montagne incantate, assai più facilmente comparabili ai suoi film. Stavolta ci troviamo di fronte a un «nuovo» Antonioni, come se l'anziano artista avesse scoperto nelle limitazioni fisiche della malattia una incredibile giovinezza della fantasia. Faceva parte della mostra anche un video realizzao dalla moglie Enrica Fico, con Michelangelo, dove lo si vede comporre con entusiasmo e infinita pazienza i suoi collage: come un bambino che gioca, viene voglia di dire.
Antonioni era tutt'altro che un artista in ritiro. Va detto con chiarezza che i film realizzati negli ultimi anni sono integralmente «suoi», nonostante gli impedimenti fisici. Al di là delle nuvole (1995) e il cortometraggio Lo sguardo di Michelangelo (2004) possono essere annoverati, anzi, tra i suoi capolavori; e sul primo vale la pena di leggere la testimonianza di Wim Wenders (in Il tempo con Antonioni. Cronaca di un film, Socrates, 1995) per capire quanto la sua mediazione fosse integralmente al servizio dell'artista.
Ho invece l'impressione che da un po' di tempo circolasse nella critica una sorta di condiscendenza dietro la quale si nascondeva l’inconfessabile sospetto che si trattasse di opere «per interposta persona» . Ma basta guardare e ascoltare per rendersi conto della padronanza con cui ogni inquadratura è pensata e costruita, e di come l'opera nel suo insieme sia un'architettura dove tutto si tiene (non inganni per esempio, in Al di la delle nuvole, la suddivisione in episodi e «intermezzi»). Questo vale anche per «ll filo pericoloso delle rose» (2004), episodio di Eros che, lo ammetto, richiede più di una visione per essere compreso al di là dell'imbarazzo che può sollevare a un primo impatto.
Antonioni è per molti versi un artista «segreto»: uno sperimentatore che però, al di là di momentanei insuccessi, ha avuto l'ardire di confrontarsi con grandi temi e col grande pubblico. In questo senso lo si può definire un artista overground. Per la sua ricerca formale avrebbe potuto essere confinato ai margini dell'industria e della distribuzione, come i filmaker underground; invece ha sostanzialmente goduto, almeno da L'avventura in poi, del favore di entrambe: parente in questo di Ejzenstejn, di Gance, di Hitchcock, di Kubrick, cineasti che, «pensando in grande», non hanno mai rinunciato al rigore della forma. In quanto « formalista», richiede anch'egli dal critico una lettura «in chiave», che vada al di Ià dei contenuti per inoltrarsi nei segreti della composizione. Non so quanto questo lavoro di analisi del testo sia stato fatto avendo presenti tutti i dettagli dei suoi film. Ho l'impressione che troppo spesso la critica abbia considerato Antonioni come un «intellettuale», privilegiandone le tematiche e sentendosi in dovere di adeguare il proprio punto di vista a un livello «alto», senza tenerne in debito conto la materia: suoni e immagini.
Per esempio i suoni. Quanta spesso si è sentito dire che le immagini di Antonioni sono straordinarie, ma i dialoghi... In questo caso, il problema è che siamo inconsciamente predisposti ad accettare la formalizzazione delle immagini - il loro antinaturalismo - ma non quella dei dialoghi, altrettanto costruiti e «falsi». Si potrebbe arrivare a dire che la sfida di Antonioni nei confronti delle abitudini del pubblico è assai più spinta sul piano dei dialoghi che su quello delle immagini...
Ciò mi porta ad aggiungere che poco si è considerato quanto Antonioni debba al cinema commerciale, addirittura ai generi del cinema popolare, in particolare al melodramma. Non dimentichiamoci che ha realizzato un cortometraggio sui fotoromanzi: L'amorosa menzogna e che i suoi dialoghi, appunto, sono spesso una rielaborazione « critica» di quella da melò, donde il ridicolo che molti vi hanno rilevato. Una volta, forse proprio per defilarsi da un tipo di critica che lo prendeva, per cosi dire, troppo sul serio, ha detto che lui faceva i film «con la pancia». Bisogna credergli, e rendersi conto di quanto attingesse, per entrare in sintonia col proprio pubblico, a forme di comunicazione di tipo emotivo, compreso un immaginario inconscio di tipo hitchcockiano. La forza del «modernismo» di Antonioni sta anche nelle radici antiche del suo stile.
Spero che Antonioni non venga «monumentalizzato», come è accaduto con Fellini e Pasolini. La sua grandezza non sta tanto nel fatto che può incarnare agli occhi di molti, nel cinema, il mito dell'artista puro, solitario e rigoroso. Sta semmai nella capacità che ha dimostrato con tutti i propri film di saper costruire un universo autonomo, scarsamente legato a un referente «esterno»; o forse sarebbe meglio dire «parallelo» rispetto a quello in cui viviamo, potentemente concluso in se stesso e dotato di una qualità visionaria che lo espande configurando un «altrove»: al di là delle nuvole, appunto.
Quest'ultimo film, uno dei suoi più complessi, è un film-saggio, un film filosofico che rivela il segreto del suo cinema: ma per spostarlo ancora più in là. Questa lontananza potrebbe, tuttavia essere molto vicina, tanto vicina che rischiamo di non vederla: e nella mano anziana che sfiora sensualmente le forme sinuose del Mosé di Michelangelo e nei silenzi che avvolgono sonoramente la cappella di San Pietro in Vincoli; nei suoni e nelle immagini enigmatiche oltre la grata della stanza dove un uomo dalla duplice identita si lascia morire; nel bianco accecante che conclude un'eclisse post-atomica; nel tempo e nello spazio sospesi della pianura padana che accarezzano, come un'invocazione di pieta, il grido disperato di un operaio.
Antonioni fantascientifico? «Il futuro ha un cuore antico», ed egli ci sospinge a ricercare incessantemente «ciò che non siamo noi stessi».
Da Il Manifesto, 1 agosto 2007
C'è una lunga sequenza non montata nel film L’Avventura che Antonioni e la Vitti hanno mostrato in un'intervista filmata, trasmessa in televisione anni fa, con alcuni «si gira» a Lisca Bianca, intitolata «Il ciabattino» che fornisce alcuni elementi di considerazione. Più o meno siamo nel momento in cui Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti), in macchina stanno raggiungendo Noto. Qualcosa è mutato tra loro nonostante la reticenza di lei, i dubbi, i falsi pudori. Per la strada un uomo fa segno di fermarsi e propone loro il gioco del ciabattino. Un momento di pausa nell'intrigo dei loro scambi di umore, una parentesi in una tensione che potrebbe anche sembrare arbitraria. Ma arbitraria non è. Il gioco consiste nell'invito a sedersi per terra, sul ciglio di una strada solitaria e nel battere, con il tacco della scarpa della donna, sulle mani del ciabattino ogni volta che questi, mimando i gesti del suo lavoro, con rapida sveltezza tocca terra. l due accettano il gioco, divertendosi, allentando la tensione emotiva, abbandonandosi allo scherzo con una allegrezza che non sembra forzata. La molteplicità delle loro voci e la sottomissione all'abilità del giocatore suggerisce il gioco della partita il coup de dés mallarmeano e questo richiamo non ha un significato casuale, perché nella prospettiva decostruzionista del cinema di Antonioni sembra legittimarsi proprio per la sua arbitrarietà. Così, in modo apparentemente paradossale, possiamo dire che l’episodio del ciabattino può essere visto come la radicale. consapevolezza dello stesso Antonioni, in una prospettiva ermeneutica della voluta incertezza dei personaggi, una «spia» della casualità delle loro storie.
Da Il Manifesto, 1 agosto 2007
È morto Michelangelo Antonioni. Il regista era nella sua casa romana, accanto a lui c'era la moglie, Enrica Fico. Erano le 20. Aveva 94 anni. Da domani, nella protomoteca del Campidoglio, sara allestita la camera ardente. Successivamente la salma sarà trasferita a Ferrara, città natale di Antonioni, e giovedì saranno celebrati i funerali.
Ormai non aveva piu parole il Maestro, non ne aveva mai avuto bisogno, per evocare in immagini, emozioni senza tempo. La complessità della vita, le relazioni umane, gli sguardi sul mondo. Michelangelo Antonioni lascia noi ma non il cinema, con fotogrammi immortali, dalle prime sperimentali opere, da quel N.U., che sta per nettezza urbana, un lavoro giovanile che indaga con occhio poetico e spirito da cronista su un mestiere della notte, come tanti, quello del netturbino.
Arrivato al cinema dopo lunghe e significative esperienze negli anni '50, alla sua scuola si sono riferiti importanti registi quali Akira Kurosawa, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Wim Wenders.
Il suo lungometraggio di esordio è Cronaca di un amore del 1950, acuta analisi d'una crisi di coppia. Seguono, tra gli altri, La signora senza camelie (1952) e Le amiche (1955), angosciata lettura del bel racconto Tra donne sole di Cesare Pavese.
Nei suoi lavori e nella sua anima inquieta ci sono la difficoltà a stabilire rapporti interpersonali veri, l'inafferrabilita del reale, lo spaesamento dell'individuo alle prese con una società fredda e poco umana.
La sua ricerca affronta tematiche individuali che proprio nel linguaggio cinematografico trovano la forza per esprimere i tempi e gli spazi della psicologia umana.
Concentrato sulla realtà sociale, il regista cerca di comprenderne la complessità, le tensione e gli sviluppi.
La strada, intrapresa è quella di focalizzare i personaggi, di far parlare i loro comportamenti piuttosto che i fatti. Dall'analisi di questi il regista giunge alla critica della società, e attraverso i conflitti dei personaggi descrive l'asettico ambiente borghese in cui si muovono. L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964), pongono personaggi femminili al centro di storie segnate della perdita e dallo sgomento.
Il periodo inglese, da Blow-up a Zabriskie Point (1969) sottolinea la necessità di inserire i suoi personaggi nella realtà contemporanea, come dal resto Professione reporter, attenta riflessione sui rapporti tra Occidente e Terzo Mondo. Controversi gli ultimi lavori, Al di là delle nuvole del 1994 (con Kim Rossi Stuart, Ines Sastre e Sophie Marceau), diretto insieme a Wim Wenders, e Eros (2004), diviso in tre capitoli diretti da Antonioni, Wong Kar-Wai e Steven Soderbergh.
Il maestro si è spento nello stesso giorno in cui è morto anche un altro grande regista, Bergman, quasi a suggellare un sodalizio tra geni, con un grido senza parole, che solo il cinema sa immaginare.
Professione reporter è uno dei film più famosi, discussi e celebrati del cinema di Michelangelo Antonioni. Il regista ferrarese scomparso oggi. Quel lungo piano sequenza, realizzato grazie alla trovata di far «aprire» da una gru invisibile le sbarre della finestra, ha un lontano precedente in una scena del primo cortometraggio realizzato da Antonioni per l’esame al Centro sperimentale di cinematografia. Tutto il cinema di Antonioni è percorso dall' ossessione per la ricerca formale, dal culto dell' immagine, dall'attenzione allo «sguardo». Ancora di recente, lo scrittore e regista francese Alain Robbe-Grillet, che aveva pensato a lui per il suo film La fortezza, film mai realizzato, diceva di Antonioni: «Non ho mai capito come abbiano potato definirlo, il cineasta dell' incomunicabilità: i suoi film sono tutta una festa, un invito, una scuola di sguardi». In Cronaca di un amore (1950) le suggestioni figurative seguono I'ottica introspettiva che contraddistingue tutto il suo cinema. Nei suoi lavori, i veri protagonisti "metafisici” diventano gli stati d'animo, i vissuti interiori dei personaggi, quasi sempre borghesi e di età compresa tra i 20 e i 40 anni. Ma hanno un ruolo preminente anche i riflessi dei fatti sugli individui, più che i fatti stessi. Qualche esempio: L'avventura (1959), La notte (1960) L' eclisse (1962), Deserto rosso (1964), Professione reporter (1974) .
Le inquadrature lunghme, che hanno fatto parlare di cinema «lento» e «noioso», servono per seguire i moti interiori in un tempo che sembra fermo.
Pur limitato della malattia (l'ictus lo aveva colpito nel 1985, privandolo quasi completamente della parola), Antonioni, ha diretto il nuovo film Al di là delle nuvole, tratto da quattro dei suoi brevi racconti del 1983 con il titolo "Quel bowling sul Tevere". Il film fu diretto con Wim Wenders, suo estimatore.
Da Il Quotidiano della Sera, 1 agosto 2007
Anche Antonioni se ne è andato. In vita mia è la prima volta che una notizia luttuosa di questo genere mi trova spaesato, in uno stato d'animo così contraddittorio: in bilico tra la pena, per me, e la liberazione, per lui.
Non è soltanto una questione di età (la morte lo ha colto lunedì sera a Roma, all'età di 94 anni), ma di salute fisica: a metà degli anni 80 fu colpito da un ictus che non gli toccò la testa, la lucidità mentale, ma gli rese difficile la comunicazione orale. Passano quattordici anni tra Identificazione di una donna (1982) e Al di là delle nuvole (1995) e altri dieci prima dell'episodio, uno dei tre,di Eros ( 2004), film vicino, ma già dimenticato perché dimenticabile.
In un certo senso – e lo si dice con desolata tristezza – vent'anni fa per Antonioni di Ferrara la vita finì e cominciò la sopravvivenza, almeno sul piano professionale, per noi, suoi spettatori e ammiratori.
Il malinconico privilegio dell'età mi permette di dire che ho seguito, come spettatore e recensore, il suo cammino registico fin da Cronaca di un amore (1950), quando esordì nel lungometraggio narrativo dopo un'intensa e ammirevole attività di documentarista.
Esordio tardivo: aveva trentotto anni. Ricordo ancora l'ironia, non sempre benevola, con cui nel decennio dei 50 e nell'ambiente spesso pettegolo dei giornali, si parlava e si scriveva di lui come di un "giovane regista". In quei tempi il documentario era considerato soltanto un banco di prova, un apprendistato, una fase di passaggio per i film lunghi a soggetto. Oggi si direbbe per la fiction.
Per me Antonioni era un signore. Lo dico nel senso ormai anacronistico che un tempo si dava alla parola: scontroso, riservato, un po' rigido, non molto loquace, accanito nel tenere a distanza gli interlocutori, ma con una gentilezza spontanea e un rispetto non formale. Nascondeva una generosità interiore che svelava soltanto con gli amici e con le persone in cui aveva fiducia. Insomma, un vero signore. Non fu soltanto per la differenza di età che faticai non poco a dargli del tu, come mi invitò a fare verso la fine degli anni 60.
Quello fu un decennio di felicità creativa per Antonioni ( e del suo straordinario sodalizio con il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra): L'avventura (1959-60), La notte (1960), L'eclisse (1962), Il deserto rosso (1964), Blow-up (1966). «Cosa devo guardare?» «Come devo vivere? È la stessa cosa». Con questo scambio di battute tra Monica Vitti e Richard Harris in Il deserto rosso comincia il saggio di Michele Guerra, neolaureato di Parma, che ho avuto occasione di leggere quest'estate come giurato del Premio Ferrero 2007.
Il saggio è intitolato Lo sguardo smarrito: fine di un mondo e alba di un altro Riflessioni intorno a "Il grido" di Michelangelo Antonioni. C'è ancora qualcuno tra i giovani che, grazie ai dvd, si ricorda di lui, e che mi spinge a fare una piccola confessione: forse Il grido
(1957) è il suo film che ho più amato nel mio lungo esercizio di spettatore. Non dico che sia il suo film migliore anche perché detesto questi giuochini da salotto e d'altronde non l'ho più rivisto da molti anni. Dico soltanto che l'ho molto amato. È il film che, più dei precedenti, mi fece capire il suo stile, quel che di nuovo Antonioni portò nel cinema sonoro moderno.
Che cosa trova il giovane Michele Guerra in quello scambio di battute? «L'impossibilità di concentrarsi su un oggetto, di dar forma allo sguardo, di giustificarlo, di ancorarlo a qualcosa di concreto e determinante, viene messa sullo stesso piano di una scelta di vita, di una linea di condotta dell'esistenza, costruita sulla coerenza a principi e a idee. Nell'un caso o nell'altro si tratta di relazionarsi al mondo e agli altri. La grande speculazione di Antonioni sullo sguardo aveva già trovato, nel Grido, una consapevolezza molto maggiore e moderna rispetto ai film precedenti, consapevolezza che crescerà sempre più nella tetralogia a venire (L'avventura, La notte, L'eclisse, Il deserto rosso) ».
Antonioni non è un formalista, come molti credono. Corse quel rischio, forse, nell'ultima fase del suo percorso quando sfiorò il manierismo, la ripetizione, l'imitazione di se stesso. In Il grido si può leggere, magari sottotraccia e in modi non didattici, la trasformazione socio-culturale che l'Italia stava attraversando, la fine del mondo contadino e l'avvento della società industriale.
Sette anni dopo, col Deserto rosso, raccontò come quella metamorfosi era stata compiuta. Alla sorgente del suo cinema, e del suo stile, c'è una profonda pietas per l'uomo e la sua solitudine.
Da Il Sole-24 Ore, 1 Agosto 2007
Voglio dire che sono molto addolorato. Provo un dolore che si rinnovava ogni volta che incontravo Michelangelo, impedito dalla malattia ma sempre attraversato da una grande energia e dalla voglia di fare. Infatti, nonostante tutto ha lavorato, ha fatto film: il cinema era la sua vita. Aveva addosso questa carica di voler fare, di volersi esprimere, si era messo anche a dipingere malgrado l'immensa difficoltà nei movimenti. Mi offriva la dimostrazione di una forza di resistere alla malattia e di dominarla; faceva parte del suo carattere. Io ho fatto l'assistente per un suo film, I vinti, girato in Francia, Italia e Gran Bretagna; tre episodi di cronaca che vertevano attorno alla angoscia esistenziale nei giovani del Dopoguerra. L'episodio inglese è un vero gioiello, esempio illuminante di come Antonioni riusciva a caricare la narrazione di emozioni e significati che andavano al di là delle immagini. Era questa, è questa la grande forza di Antonioni: il linguaggio del cinema è l'immagine, che però lui animava attraverso i movimenti di macchina di cui è stato e rimane maestro assoluto, attraverso un dettaglio, un silenzio; un concerto di segni che esprimevano significati al di là di quel che vedevi. Il dialogo a volte non doveva comunicare quello che Antonioni esprimeva attraverso l'immagine, nell'inchiesta che svolgeva nei pensieri più segreti dell'animo umano. Questa, in fin dei conti, è la famosa incomunicabilità di Antonioni, la incomunicabilità dei sentimenti che non riescono, attraverso la complessità dell'animo umano, a esprimersi nella libertà e nella verità. Invece, ecco che ti conduceva nel mistero di questa incomunicabilità e della complessità dell'animo umano: i suoi film sono tutti fondati su questa relazione apparentemente impossibile, negata. L'immagine usata come parola; in fondo, ciò che il cinema stesso è e deve essere, riuscire a fare a meno della parola. Ricordo in Blow up quella sequenza famosissima e bellissima in cui due giocatori mimano una partita a tennis. Ora, questo gioco di mimare l'incontro senza strumenti ci fa pensare a quello che noi vediamo e insieme a quello che si nasconde sotto ciò che vediamo. Credo che Antonioni sia stato uno dei più grandi, anzi, togliamo quel «credo»: Antonioni è stato uno dei più grandi narratori di cinema da quando il cinema esiste. Mi chiedono chi ne raccoglierà il testimone. Bisogna avere fiducia nei giovani. Hanno attraversato un periodo difficile, vent'anni di terrorismo folle nel nostro paese durante i quali si ammazzava un professore, un giornalista; questo terrorismo ha lasciato un vuoto terribile e naturalmente lo hanno riempito come hanno potuto, si sono rifugiati nel cinema delle «due camere e cucina», si sono ritirati nei sentimenti. Ma mi pare che oggi ci sia la voglia di tornare a un cinema che approfondisca i rapporti dell'uomo con la società, con la realtà che lo circonda.
Da L’Unità, 1 agosto 2007
Le figure centrali del nostro cinema dagli anni cinquanta in avanti non sono state, come fu per molto tempo abituale teorizzare a sinistra, quelle di Zavattini, Visconti, De Sica, De Santis e altri – pur rispettabilissimi – autori “impegnati”, bensì quelle dei più spericolati e azzardanti Rossellini, e poi Fellini, e poi il “borghese” Antonioni (e più tardi Pasolini) che furono tra gli autori meno imitabili e i più originali, in grado di reggere il confronto e spesso di superare registi più o meno coetanei che, in giro per il mondo, da Bergman a Kurosawa, da Bunuel a Mizoguchi, da Kubrick a Wajda (e più tardi a Godard e a Tarkovskij, e più tardi ancora a Fassbinder, e oggi a Lynch, Cronenberg, Tsai Ming Liang e pochissimi altri) imposero una figura di regista che poteva essere più importante, nel campo della produzione artistica e dell’influenza culturale, di quelle di grandi scrittori, di grandi pittori, di grandi artisti in campi espressivi più riconosciuti. Senza affatto esagerare, insomma, di rilievo paragonabile a quello dei Faulkner e dei Picasso, degli Strawinsky e dei Le Corbusier.
Antonioni fu uno di questi pochi registi, e il suo cinema, dopo il lento e rigoroso avvio dei documentari, dopo un primo insolito capolavoro come Il grido, doveva affermarsi mondialmente con l’inimitabile definizione di uno stile assolutamente autonomo, che creò una scuola e una moda. L’importanza di Antonioni negli anni delle nouvelles vagues, dell’esplosione di una generazione che faceva della soggettività, dell’individualità, della ricerca di nuovi linguaggi la sua bandiera, non è da dimostrare: la “trilogia della incomunicabilità” ha lasciato il segno (anche se Antonioni avrebbe preferito che si parlasse di “crisi dei sentimenti”, e di fatto della mutazione antropologica dell’uomo e della donna nella nuova società del benessere) ed è una delle vette raggiunte dall’arte cinematografica. E dall’arte di quegli anni.
L’avventura, e poi La notte, e poi L’eclisse cercarono di sfuggire al ricatto della sceneggiatura e della narrazione codificata del cinema tradizionale, e imposero uno stile la cui base era nella composizione fotografica, nella cura dell’immagine portata avanti con attenzione di pittore e di architetto. Il ritmo ne conseguiva, lento, allusivo, antidichiaratorio nel rifiuto di ogni retorica – di quel sentimentalismo che è stato il maggior peccato del neorealismo ufficiale. Il coraggio dell’Antonioni di quegli anni è giustamente proverbiale, partì dal racconto del suicidio di un operaio nel Grido (che scandalizzò tanti), attraversò una Sicilia anticonvenzionale e una coppia senza amore nell’Avventura (il film che impose Monica Vitti) e culminò nella cosiddetta “passeggiata alienata” di Jeanne Moreau per la periferia della Milano che cambiava nella Notte, e nell’appuntamento cui non si presenta nessuno dei due “innamorati” nel finale dell’Eclisse, uno dei finali più spiazzanti e anticommerciali che il cinema abbia mai osato. Con questi film, Antonioni diventava l’autore centrale, il più rappresentativo degli anni del “boom”, forse più dello stesso Fellini di La dolce vita, più di tutta la commedia all’italiana, più dei giovani straordinari che esordivano allora, i Pasolini Olmi Bene Bertolucci Bellocchio Petri…
Divise la critica, ma come la dividevano il nouveau roman, il rock o la pop art, per via della sua radicalità, in anni di estrema vivacità delle arti, gli ultimi così straordinari. Diventò presto un fenomeno mondiale, che venne ribadito e ampliato dal trionfo nel mondo anglosassone di Blow-up, il suo film più lodato, un film sui ricatti delle apparenze e sulla inafferrabilità del vero. Le ricerche sul colore di Deserto rosso fecero scuola; Zabriskie Point fu una sorta di essenziale favola sessantottesca, senz’altro da rivalutare; e Professione: reporter il suo ultimo grande film, tecnicamente sbalorditivo ma tematicamente non più sorprendente. La lezione di Antonioni era stata assorbita, e produsse imitatori e anche una buona dose di kitsch. L’ultimo grande cinema socialmente rilevante, quello degli anni settanta, sembrò poterne fare a meno, ma il coraggio e diciamo pure la novità assoluta dell’Antonioni degli anni sessanta non saranno facilmente dimenticabili.
Antonioni va comparato ai grandi pittori piuttosto che ai grandi registi, è stato in qualche modo il Klee del cinema, e ha detto, in quegli anni, cose di cui appena oggi siamo in grado di capire la portata – quando si parla di nuovo, con molta superficialità, in cinema e letteratura di mutazione, di nuovi sentimenti, di inafferrabilità del senso dell’esistenza e della storia e sì, più che mai, di solitudine e di incomunicabilità.
Da Il Messaggero, 1 Agosto 2007
«Ho scritto con lui una dozzina di film. Michelangelo ha cambiato il mio lavoro, la mia vita, perfino il mio modo di vestire: come tutti quelli che vengono dal paese, quando lo conobbi portavo abiti di velluto...E aveva una chiarezza stordinaria, ha dato un’arrangiata anche ai miei pensieri». Tonino Guerra è affranto, parla con la voce rotta. La notizia della morte di Antonioni gliel’ha datta Enrica chiamandolo a Pennabilli, in Romagna, dove il poeta vive da sempre. «Domani andrò a Ferrara, per i funerali», racconta lo sceneggiatore dei capolavori del maestro, da L’avventura a La notte, da Blow Up a Zabriskie Point, Identificazione di una donna, Al di là delle nuvole, Eros. «E’ giusto che Michelangelo riposi là. Era un po’ che non ci vedevamo: lui non stava benissimo, io che ormai ho 87 anni non mi muovo facilmente...». Un ricordo, fra tutti: «Qualche anno fa navigavamo insieme sulla Modaria, un fiume dell’Ubzekistan. Sopralluoghi per un film mai fatto, L’aquilone. Procedevamo a zig-zag e quando la barca s’infilò in una zona d’ombra. E lui disse: mi pare che dobbiamo arrivare a Ferrara. Sono sicuro che in quel momento pensava alla morte».
Da Il Messaggero, 1 Agosto 2007
NEGLI anni Sessanta, il mondo del cinema (e anche il pubblico) si spaccò in due: da una parte c'erano i "felliniani", dall'altra gli ammiratori di Michelangelo Antonioni. lo, da regista ma soprattutto, come storico del cinema, non presi partito. Mi limitai ad analizzare il fenomeno, a studiare da vicino il rapporto strettissimo che i due maestri avevano con il neorealismo. E arrivai alla conclusione che, sia pure in forme diverse e attraverso percorsi del tutto personali, entrambi affondavano le radici in quel movimento che, subito dopo la guerra, aveva rappresentato un'autentica rivoluzione, formale e di contenuti, nel modo di concepire e di fare il cinema.
Quando, negli anni Cinquanta, il neorealismo si esaurì, sia sellini sia Antonioni ne hanno incarnato l'evoluzione: il primo esplorando l'inconscio, il mondo della fantasia e dei sogni; il secondo analizzando gli aspetti esistenziali della società, la difficoltà dei rapporti umani, le angosce moderne attraverso la rappresentazione di personaggi borghesi che forse erano insoliti per i nostri schermi, ma non per questo risultavano meno realistici. Personalmente, sia pure ammirando la fantasia prodigiosa di sellini, io mi sono sempre sentito più vicino ad Antonioni proprio per la sua capacità di osservare la borghesia, classe emergente del nostro cinema che fino ad allora aveva avuto per protagonisti partigiani, disoccupati, bambini. Tra i film del maestro ferrarese, i miei preferiti sono I vinti, L'eclissi, e Le amiche che racconta l'universo femminile. tanto caro anche al mio universo creativo.
Cosa rimane oggi di Antonioni? La lezione impartita dal grande regista è l'attenzione all'aspetto formale del cinema, il modo del tutto nuovo di accostarsi al nostro-mestiere. 1 lunghi piano-sequenza che arricchiscono i suoi film, il rapporto inscindibile ed emozionante tra la figura umana e il paesaggio restano l'eredità più potente di questo maestro che purtroppo ci ha lasciati.
Da Il Messaggero, 1 agosto 2007
ANTONIONI è stato la nevrosi della coscienza italiana, il conflitto inconscio fra l'individuo e l'ambiente, un fiume controcorrente in un dopoguerra in cerca di una logica. Un dopoguerra che cercava. spesso in modo illusorio, di ricomporre una logica della vita lungo i binari di possibilità prevedibili: il benessere economico, la pacificazione borghese, il superamento del diverbio delle classi sociali. Della nevrosi, che lo portava a giudicare le apparenze. Antonioni non è stato soltanto interprete, ma anche l'elemento incarnante, a scapito dei sogni collettivi, delle buone speranze. Potremmo parlare di nevrosi precognitiva, vibratile come l'inquietudine degli animali della giungla quando avvertono che lo tsunami non ha esaurito la sua forza distruttrice, ma ha solo preso pausa, in attesa di tornare a infierire. Col suo istinto o religio rovesciata, Antonioni ha sofferto le piaghe che i santi portano nei palmi per immedesimarsi col golgota cristiano, ossia si è lasciato abitare da quel disagio delle libre ultime che la guerra aveva profondamente inciso nell'uomo. in tutti gli uomini che pensavano di essere usciti vincitori dal cataclisma bellico, ma in realtà erano infettati e "vinti". Vinti anche se non sconfitti, perché quel disagio sarà, attraverso gli anni, la' piaga mai guarita che tornerà a dettare la sua legge impietosa. E oggi, proprio nel nostro tempo, sappiamo bene quanto quel disagio sia esploso. I titoli stessi dei film testimoniano la verità di una diagnosi "psichico-artistica" che. per questa doppia origine, resta di una singolarità sofferta e stupefacente. Blow-up è del 1966: ebbene, pochi altri film si confermano. Più di questo,il calco esatto della nostra contemporaneità estrema, della sua asimmetria morale e cognitiva. Un fotografo di moda. convinto di aver casualmente fissato nell'obiettivo un caso di omicidio, arriva alla fine a dubitare dell'effettiva esistenza del crimine. Le apparenze ingannano, è vero. ma oggi è anche peggio: le apparenze convincono. "Sii quello che sembri" per dirla con il Lewis Carrol di Alice. Antonioni intuisce questo "passo nel peggio". rispetto alle sue convinzioni di base, e tenta di esprimerlo, dopo il suo ritiro a causa di una malattia, con le sue ultime, irrisolte prove. Resta assoluta la coerenza d'artista. L'intima frattura. con l'esperienza neorealistica, ovviamente lontana dalla sua sensibilità, Antonioni la testimonia, a mio avviso, con Il grido, nel 1957, dove già si disegna l'errare dell'uomo in crisi, senza meta, senza nemmeno l'alibi, alle spalle, della glorificazione di un passato. La trilogia dell'incomunicabilità. (L'avventura, La notte; L'eclisse), rimasta ed equivocata come un marchio di produttività, è in realtà una fissazione programmatica e intellettualistica di ammorbidite folgorazioni che qui abbiamo esposto nell'essenza, assai più essenziali e drammaticamente vive. Chiudo con un ricordo strambo. Mi capitava di andare, con Antonioni, a qualche proiezione ufficiale, anche di pellicole rispettabili. Durante la proiezione, lo vedevo a tratti cedere al sonno, per poi riprendersi, fingere attenzione, tornare a ciondolare con la testa. Gli dissi: "Hai dormito". Aveva dormito, sì, ma in un caso mi rispose con una giustificazione, falsa, di poetica vera: "Era per dimostrare, a me stesso che un film può e deve prescindere dalla schiavitù alla trama, Infatti, mi sono svegliato nei momenti essenziali".
Da Il Messaggero, 1 Agosto 2007
La Roma di Antonioni… Vogliamo dire che era la Roma dell'ambiguità? Ricordo il titolo di un libro di Pio Baldelli, pubblicato nel 1969 da Samonà e Savelli e dedicato a chi? A Bergman e Antonioni. Quel libro era intitolato «Cinema dell'ambiguità» e recava nel sottotitolo i nomi dei due grandi registi! Ma se davvero la Roma di Antonioni si possa racchiudere in una formula che ha perduto strada facendo la sua pregnanza, noti so. Bisogna stare ai fatti. Alla Roma che realmente appare nell'opera del regista ferrarese.
Comincio non già dal cinema ma dal suo libro di storie che avrebbe voluto tradurre in immagini: «Quel bowling sul Tevere» del 1983. «Ero dunque a Roma fermo con la macchina sul lungotevere che fiancheggia la zona dove sorge il villaggio olimpico Cercavo qualcosa che avevo perduto (io passo gran parte del tempo a cercare). Alzando gli occhi vidi un uomo uscire dall'edificio dove si gioca al bowling. Il suo modo di raggiungere la macchina. Di aspettare prima di aprire lo sportello di salirvi erano insoliti. E così lo seguii. Quello che segue è il racconto del mio fantasticare su di lui».
In questo incipit di racconto non c'è nulla di ambiguo: l'occhio della cinepresa è troppo aperto perché si possa produrre ambiguità. Fantasticare è tutto, la realtà è nulla, di essa si potrà dire qualunque cosa. E però non c’è un sol giorno dal 1983 in cui io sia passato davanti al bowling sul Tevere senza pensare ad Antonioni. Quel luogo è suo. Suo per sempre. Egli vi ha posto il segno della poesia, il contrario del fantasticare, dell'oscillare, dell'andare vagando di qua e di là.
Peraltro, questo è ciò che fanno molti suoi personaggi. In specie la sua attrice più rappresentativa, Monica Vitti. Che fa la Vitti ne «L’eclissi»? Non fa nulla, gira a vuoto, gira per la città, ne guarda i marciapiedi, ne scrosta i muri. Ma la scena cruciale del film è un interno. Siamo in piazza di Pietra. L'interno è quello della Borsa. La macchina da presa all'improvviso si solleva. Riprende dall'alto, stringendoli in un imbuto, tutti quegli uomini in affanno, in sospensione, in un frenetico, tumultuoso divenire. Il miracolo che Antonioni operò nella celeberrima sequenza è che se l'occhio s'innalza l'udito si spegne, non si sente più nulla, tutto tace. Il mondo che nella fattispecie, benché sia quello romano, è il mondo moderno - il mondo tace. Si apre un'improvvisa e metafisica frattura tra la parola e il gesto. L'ambiguità non è più ambigua. Roma, città per eccellenza ambigua, ha smesso di esserlo. Viceversa, essa è dannata, è sprofondata nel caos della modernità, nella sua insignificanza.
Il vero tema di Antonioni, ovvero della Roma antononiana. È quello della modernità. La modernità in quanto cinema. Che cosa è Roma per un giovane regista venuto da Ferrara? Roma è Cinecittà. Roma è il cinema, vale a dire il sogno - di un paradiso per definizione fantasmatico e illusorio, dunque pericoloso, doloroso. Quasi dieci anni prima de «L'eclisse», ne «La signora senza camelie» del 1953, Antonioni aveva descritto e apposto su Roana il suo sigillo. Clara, la protagonista, è un'attrice di successo, che ha sposato per convenienza un produttore. E infelice. Pure, rifiuta la via di fuga che le propone un tipo, un console. Clara (Lucia Bosè), negandosi alla fuga si nega all'avventura, ma il suo gesto-noni gesto è indeterminato. Neppure lei sa perché rifiuta. Ella si sottrae al mondo - da Cinecittà al Palazzo della Civiltà e del Lavoro - che ne ha fatto senza ragione un personaggio. Ma meno sono le sue ragioni (le sue camelie). Di più e meglio a quel mondo somiglia. Clara è Roma, la moderna metropoli senza centro, senza moralità, senza vie d'uscita.
Da Il Corriere della Sera, 1 Agosto 2007
«HO CONOSCIUTO Antonioni metta redazione di Cinema, la storica rivista diretta da Vittorio Mussolini, quando evocando la grande letteratura ed esercitando la critica cinematografica sognavamo un cinema nuovo e diverso, il Neorealismo. Ricordo poi la fase in cui dal Neorealismo emerge uria idea nuova di cinema che Antonioni ha propugnato prima di altri e di cui tutti noi in misura diversa sentivamo l'urgenza.
IL NEOREALISMO aveva rinnovato il linguaggio cinematografico. Era stata una rivoluzione non tanto di contenuti quanto formale. Si trattava in quegli anni di far avanzare il discorso iniziato dal Neorealismo e Antonioni lo fa con coraggio; era la fase in cui Visconti da La terra trema passava a Senso cioè a una visione mento angusta della storia, io stesso con Cronaca di poveri amanti vada verso una narrazione più articolata. Ma certamente la strada intrapresa da Antonioni fu particolarmente coraggiosa e di duplice importanza: scopriva una zona della società italiana che lo stesso Neorealismo non aveva esplorato, quella del ceto medio e della borghesia e poi riusciva a fare entrare nel cinema italiano l'esistenzialismo o meglio il rapporto tra gli individui che indipendentemente da qualsiasi contesto sociale esigeva un approfondimento. Poi anche dal punto di vista stilistico i suoi lunghi piani sequenza illustravano lucidamente il rapporto tra figura umana e paesaggio.
Pur così vicino ai problemi esistenziali Antonioni situa i suoi personaggi in grandi spazi; dalla Avventura a Blow-up a Zabriskie point in tutti i suoi film c'è incomunicabilità tra i personaggi ma invece una grande sintonia tra individui e paesaggio. Malgrado tutto i suoi personaggi anche difficili e complessati non sono mai posti in situazioni claustrofobiche e tanto meno teatrali ma sempre collocati in grandi spazi della natura o della città. Continua quindi con lui la scoperta del paesaggio italiana.
Antonioni è stato soprattutto tra i pochissimi autori italiani capaci di immedesimarsi in altre culture. Blow-up è in fin dei conti un film totalmente inglese. Zabriskie point fa lo stesso con l America, Professione reporter anche. Sono film in cui Antonioni come quasi nessun altro ha saputo fare ha attinto alla nostra identità lontana del Rinascimento.
Da La Nazione, 1 Agosto 2007
Ho incontrato Michelangelo Antonioni moltissimi anni fa a Roma. Io venivo da Santarcangelo di Romagna, da una civiltà agreste e vestivo di velluto. Lui pian piano mi ha fatto smettere quegli abiti troppo contadini per introdurmi nel mondo del cinema: dovevo pur presentarmi con una certa forma per incontrare attori e produttori.
Quando ci incontravamo prima di tutto inventavamo un gioco, cose da nulla.
Gettavamo una palla di carta dentro un cestino alla distanza di due o tre metri, ma erano sfide terribili, perché uno controllava l'altro in maniera implacabile. Oppure con dei bastoncini spingevamo una palla che doveva andare a battere contro una colonna o una gamba del tavolo. Era quasi una specie di golf.
Ci cimentavamo anche nelle corse, ma lui, in questo caso, mi batteva sempre. Quando arrivavamo sotto casa mia, abitavo al quinto piano, gli consegnavo le chiavi. Io salivo in ascensore e lui a piedi.
Quando giungevo al piano, lo trovavo seduto nell'appartamento.
Michelangelo era un atleta potente, era stato anche un bravissimo tennista.
Giocando aspettavamo che arrivasse un'idea, una battuta, uno spunto. Non stando lì, bloccati, a chiedersi: «Cosa facciamo? Che cosa si farà?».
No, si giocava e piano piano saltava fuori la trama del film.
Ce la siamo vista brutta quando lavoravamo alla sceneggiatura de La notte.
Non avevamo niente di pronto, il produttore aveva mandato già la troupe a Milano e intanto noi giocavamo, seduti nel corridoio della casa romana di Antonioni, che aveva un pavimento di marmo bianco a strisce oblique nere. A distanza di otto metri, con un cuscino sotto il sedere, lanciavamo delle piastre di sasso in modo che, scivolando sul marmo bianco, finissero al centro della striscia nera che avevamo accanto. Quando capivo che la mia piastra aveva raggiunto l'obiettivo, lui scattava e gridava: «No!».
Allora io ribattevo: «Adesso mi alzo e vado a controllare».
Erano battaglie feroci.
Poi abbiamo pensato di inserire il gioco nella trama del film. E infatti se guardate
La notte c'è proprio il gioco con le piastre che avevamo inventato noi.
Giocavamo perché era un modo di pensare. Non era una distrazione, perché di colpo ci fermavamo e dicevamo: «Guarda, è meglio se lei arriva in macchina in quel posto».
Erano interruzioni rapide.
Antonioni aveva un grande, immenso senso della democrazia. Avevo il diritto di difendere quello che pensavo fino all'ultimo e lui, il regista, non inseriva mai un cambiamento che dispiacesse allo sceneggiatore. C'era un grande rispetto, anche se lui era perfettamente consapevole che io ero convinto che l'autore del film è sempre il regista.
Aveva lo stesso modo di porsi anche con gli attori. Io capitavo qualche volta sul set e vedevo come si muoveva. Non dava mai ordini su come recitare. Dava al massimo delle indicazioni e poi aspettava di vedere quel che poteva fiorire da ciò che aveva capito l'attore.
Io penso che il film più importante di Antonioni sia stato L'avventura. È la prima pellicola in cui si sente come una specie di malattia dei sentimenti. Poi c'è La notte e L'eclisse. Un gruppo di film che hanno segnato non solo il cinema italiano, ma ha dato indicazione a tutti i registi del mondo sul modo di girare, sulla maniera di usare, per esempio, il piano sequenza o su come adoperare le luci. Su questo Antonioni era eccezionale. E poi nel dopoguerra con il Neorealismo, proiettato sulle vicende più piccole, lui sorprese tutti con la sua attenzione alla borghesia, alle donne, ai loro vestiti eleganti, alla malattia di questi sentimenti e all'incomunicabilità, ai problemi che ormai confondevano l'anima.
Per me Antonioni non fu importante solo sul piano professionale. Noi eravamo anche molto amici. Io mi sono sposato in Russia e lui e Andrej Tarkovskij furono i miei testimoni di nozze. E in Russia facemmo anche viaggi favolosi.
L'ultima volta che ci siamo visti fu l'anno scorso. Lui era quasi cieco. Aveva allestito una mostra con le sue ultime pitture. Sono quadri bellissimi, vivaci, astratti, ma pieni di commozione. Ci siamo visti, ci siamo guardati e io ho capito che c'era nel suo sguardo,non dico un ringraziamento, ma un segno di forte affetto. Ci siamo toccati le mani. Cioè non ci siamo dati la mano, ci siamo solo toccati. La bellezza di questo momento magico l'ho rivissuta in Puglia pochi giorni fa, vedendo passare due ottantenni che camminavano tenendosi per mano. Era un momento di affetto, di aiuto e di conforto per due persone incerte nell'usare i piedi su quelle pietre irregolari.
Da Il Sole-24 Ore, 5 Agosto 2007
100 o 10 film da salvare, tra gli infiniti girati in ogni tempo e in tutto in mondo, non fa differenza: ammesso che questi esercizi abbiano qualche significato, in ciascuna delle liste che si possono proporre entrerà sempre un film di Michelangelo Antonioni.
Almeno uno. L’opera privilegiata è di solito, per unanime consenso, L’avventura. Ma il consenso su questo capolavoro non fu affatto immediato. Al festival di Cannes del 1960, dove apparve la prima volta, il film venne fischiato. Quel pubblico borghese, tuttavia appartenente alla borghesia meno ignorante d'Europa, lo ridicolizzò. Era profondamente irritato perché non riusciva a capire dove fosse finita la ragazza scomparsa. Ciò che Hitchcock gli avrebbe spiegato per filo e per segno, Antonioni glielo sottraeva. Una provocazione intollerabile.
Ci volle una specie di manifesto firmato dai migliori cineasti e critici presenti a Cannes per ristabilire l'equilibrio, restituire dignità alla competizione e probabilmente influenzare la giuria perché non si facesse scappare L’avventura e il suo autore nei premi. Poi, quando il film stava per uscire in Italia, a Milano vigilavano i due famigerati procuratori della Repubblica che avevano già imposto all'esercente di "oscurare" Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Nell'ovattata sala sotterranea del Mignon, Antonioni dovette lottare con tutto il suo spirito, che è grande, per strappare alle grinfie degli improvvisati censori anche un solo minuto del metraggio complessivo. Ci riuscì quasi per intero: i tagli che fu costretto ad accettare per uscire da quella situazione umiliante e grottesca si misurano forse in una manciata di secondi.
Il 29 settembre scorso Antonioni ha compiuto settant'anni e pochi se ne sono accorti, anche perché nessuno, vedendolo di persona o vedendo i suoi ultimi film, si sognerebbe di attribuirgli l'età che ha raggiunto tra il perfetto silenzio della cultura accademica. Eppure il suo nome è tra quelli che ancora ci danno voce fuori confine; all'estero l'entusiasmo può giungere al punto di vedere in lui il Michelangelo del nostro tempo. Nessuno è profeta in patria anche se Antonioni, col suo lavoro, è stato il più profetico dei nostri cineasti.
La sua attività nel cinema dura da quarant'anni, esattamente dal 1942 quando girava il documentario Gente del Po, mentre sull'altra riva del fiume Visconti realizzava alcune sequenze di Ossessione. Non c'è da stupire che proprio Visconti, nel 1950 a Milano, fosse spettatore attento alla mattinata popolare promossa dai critici al cinema Astra per appoggiare l'approdo di Antonioni al lungometraggio narrativo. Cronaca di un amore era diviso nell'ambientazione tra Milano e Ferrara, tra la metropoli dell'industria e la sua città natale.
Ebbene, non sono mai stati facili, questi quarant'anni di cinema, per un uomo che ha sempre voluto esprimersi come gli dettava dentro, e non come dettavano le convenienze e le mode, anche quelle ideologiche e politiche d'avanguardia. Da vero laico ante-litteram, praticamente solo nel panorama cinematografico italiano, Antonioni non si è fatto condizionare né dai produttori né dalle mitologie e ha navigato controcorrente, quando la tendenza dominante gli sembrava esaurita o, comunque, non più adeguata ai tempi che cambiavano. S'intende che i mutamenti, quasi sempre dolorosi, che la sua sensibilità e il suo sguardo registravano, lo coinvolgevano come artista e come cittadino con eguale dolore. Ma, questo è il punto, non ne alteravano la lucidità.
In un'epoca in cui l'interesse del cinema era rivolto all'esterno sociale, ai grandi problemi irrisolti, ai drammi pubblici del popolo, egli fu il primo a rinchiudersi nel privato, a ridare attenzione e valore all'interno dell'essere umano, fosse pure il borghese all'estremo della sua parabola, nel vuoto dei suoi sentimenti. Ciò gli permise, nel film del 1957 Il grido, allora discusso ma che oggi risulta premonitore, di aggregare anche un personaggio operaio in questo deserto esistenziale. Comunque l'indagine interiore non era mai condotta al di fuori dell'ambiente, il paesaggio imponeva e guidava le scelte o, meglio, le non-scelte dei protagonisti. In tale rapporto, anzi, l'arte di Antonioni ha sempre esercitato il suo splendore e il suo rigore. Partendo dal cuore inaridito dell'uomo, invece che dalle colpe della società, il cineasta rovesciava la prospettiva abituale. Poteva ancora bastare la denuncia di una realtà che non era più quale la si sarebbe voluta e anche meritata? Oppure era il momento di rendersi conto che i rapporti di forza stavano mutando e di esaminare questa mutazione alla luce, per esempio, della astronomica distanza tra l'irrompere disordinato e feroce delle nuove tecnologie, dei nuovi consumi, delle nuove ambizioni scientifiche, e la coscienza dell'uomo penosamente attestato su antiche consuetudini sentimentali, ora poste in crisi e anzi vanificate, senza alcuna possibilità di resistenza?
Ecco, di questo e non d'altro parlavano i film del quinquennio 1960-'64 che fissarono lo stile del regista e ne fecero un maestro non solo per l'Italia: L’avventura, La notte, L’eclisse, Il deserto rosso. Anzi, dire che "parlavano" può essere un'imprecisione, perché il linguaggio di Antonioni non si fonda sulle parole (i dialoghi sono spesso banali) ma sulle immagini, sui suoni e, a partire da Il deserto rosso, anche sul colore. Cosi come il dramma, o meglio la tragedia del nostro tempo, non si basa su uno sviluppo drammatico tradizionale, bensì sull'assenza e l'impossibilità di tale sviluppo, sui tempi morti piuttosto che su quelli pieni. Sono le pause, i vuoti, la mancanza d'azione, a esprimere assai meglio la paralisi, e insieme a condurre ineluttabilmente alla sintesi del finale, che sempre più si distende in metafora astratta quanto eloquente.
Nel finale dell'Eclisse, la "materia" sembra sospesa come l'uomo, di fronte al sole che non ritorna e alla pace che è in pericolo. Più tardi, nel film "inglese" Blow up del 1967, la verità non è più accertabile e una partita a tennis può essere giocata senza gli strumenti che occorrono. E nell’"americano" Zabriskie Point del 1970, l'immagine della ragazza fa esplodere la villa del capitalismo con tutti i simboli del suo potere, nel deserto della morte.
Ora Antonioni ha un nuovo progetto americano, che segnerà il 1983, e per l'occasione va ricordato che la critica negli Stati Uniti non fu affatto unanime, come allora si credette, nel respingere Zabriskie Point. In genere si dimostrò ostile quella dell'establishment, e sarebbe stato curioso che non lo fosse; ma in compenso i giovani capirono il film così bene, che lo stesso Antonioni si lasciò andare a uno dei suoi rarissimi moti di orgoglio. Fu quando scrisse a proposito del "delirante" finale, e del resto con piena ragione: «Ebbene, come autore io reclamo il diritto di delirare, se non altro perché i deliri di oggi potrebbero anche essere le verità di domani».
Quanta ironia venne sprecata a sud tempo, perché il regista "colorava" i muri e le piante per Il deserto rosso. Eppure, quando voleva un bosco biancastro a Ravenna, era perché quel solo pezzo restava ancora della distruzione che il cemento industriale aveva apportato all'intera selva che prima verdeggiava. L’inquadratura non si poté girare, una volta preparata, per un cambiamento di luce poi sopraggiunto, ma sarebbe rimasta anch'essa a testimonianza futura: non si dice oggi (vedi il disastro ad Ancona) che le colline franano perché in passato furono distrutti gli alberi?
li discorso centrale per il cinema di Antonioni non può più accontentarsi di ribadire i concetti di alienazione e di incomunicabilità diventati ormai proverbiali e retorici. Si tratta piuttosto di verificare, film dopo film, la funzionalità delle sue geometrie stilistiche così perfettamente orchestrate, in rapporto alla fragilità morale dei suoi personaggi, all'ambiguità così frastagliata e ingannatrice delle situazioni, alla decomposizione della realtà che fa seguito alla sua de-drammatizzazione. Ma si potrà allora rispondere che, in fin dei conti, il suo "occhio" professionale è sempre quello di un fotografo, come in Blow up, di un giornalista abituato a guardare, come in Professione: reporter, addirittura di un regista del cinema, come in Identificazione di una donna. Tutte persone che sono poi la stessa persona, che il mestiere ha reso sempre più esigente, sempre più perfezionista, ma alla quale la verità tende pure a sottrarsi sempre di più. Antonioni ha il merito di porsi con onestà istintiva tale problema; nel suo ultimo film, lui che ha sempre amato la donna e che nel suo cinema ne ha sempre apprezzato la superiore sensibilità, giunge a confessare quanto il suo identikit gli riesca misterioso.
Certo più misterioso della Cina. Se nel suo documentario i cinesi non riconoscono il paese che vorrebbero, a noi sembra invece chiarissimo che nell'ospite italiano c'era soltanto l'intenzione sincera di trasferire su quel paesaggio e su quella gente quanto di più intimo e provinciale, cioè di "padano", questo cineasta che ha conquistato il mondo, poteva donare.
Stasera si vedrà in televisione, invece, un Antonioni libero da ogni altro assillo che non sia quello di sperimentare un nuovo mezzo. Lo affascina il mostro sacro e invadente della tecnologia e vuol scoprire se mani umane riusciranno a piegarlo e addomesticarlo. Per la seconda volta dopo Le amiche che nel 1955 "riscriveva" un racconto di Pavese, Il mistero di Oberwald "riscrive col colore" un dramma di Cocteau. Ma la vicenda regale, in costume, appartiene tutta al passato, non ha più importanza. Il regista la cancella per concentrarsi sul colore elettronico. Ora non ha più bisogno di ridipingere la realtà, può ottenere lo stesso effetto manipolando, artigianalmente, il nastro magnetico. Il dramma d'altri tempi gli serve semplicemente per non distrarsi, per saggiare con giovane fantasia uno strumento del futuro. Il mistero è qui.
Ci sono in Italia dei giovani che vanno via spediti, ricominciando da tre. Soltanto un veterano del cinema come Michelangelo Antonioni, poteva avere la pazienza e l'ardire di ricominciare da zero.
Da L’Unità, 22 dicembre 198
Giovane, elegante intellettuale, cresciuto in una raffinata città di provincia, si laurea, stranamente, in economia e commercio. Si esercita nella critica cinematografica, prima al Corriere padano, poi a Roma nella redazione di Cinema. A Parigi è assistente, nel 1942, di Marcel Carnè per L'amore e il diavolo. Nel 1943 avvia un documentario (Gente del Po) che terminerà quattro anni dopo. Partecipa ad alcune sceneggiature, scrive soggetti (anche per Visconti), realizza alcuni brevi, suggestivi documentari (N.U. , L'amorosa menzogna), e giunge nel 1950 al lungometraggio, procedendo controcorrente rispetto al neorealismo (lui che ha scritto un saggio puntualissimo su La terra trema). Narra di due «amanti impossibili», a Milano, invischiati in un giallo: Cronaca di un amore. L'ambiguità è il suo terreno di regista. Fra le tappe successive da ricordare La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955) dal racconto pavesiano Tra donne sole, II grido (1957), film di transizione, L'avventura (1959), con il quale si conclude il periodo, per così dire, sperimentale.
Un linguaggio morbido, internamente teso e complesso, permette ad Antonioni di approfondire il tema dell'ambiguità (sentimentale, morale, culturale) che sarà al centro delle sue opere migliori: La notte (1960), L'eclisse (1962), Deserto rosso (1964), film a colori di rivoluzionaria tessitura, Blow-up (1966), indagine sulla inafferrabilità del reale che si colloca fra i capolavori del cinema europeo, Zabriskie Point (1970), un «aereo» balletto americano sulla irrealtà della realtà, Professione: reporter (1975), un inganno di cui la vittima è un uomo in fuga. Sono film glaciali, implacabili, che non facilitano la carriera di uri intellettuale così intransigente. Poco, e con fatica, lavorerà in seguito (nel 1982 girerà Identificazione di una donna e nel 1994 - dopo essere stato colpito da un ictus che lo priva della parola - il film a episodi Al di là delle nuvole in collaborazione con Wim Wenders, da un suo vecchio progetto). Pur con tutte le manchevolezze (squilibri narrativi, dialoghi spesso gracili), questa filmografia rimane una delle pietre miliari della storia del cinema, uno dei segni più significativi della modernità.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Facciamola fuori una buona volta, con Antonioni! Era questo il mio pensiero, qualche giorno fa, una splendida mattina di sole e di vento, mentre in macchina con Filiberto Lodi passavo la frontiera francese, tra mare e roccia, per il nuovo valico di San Ludovico. Andavamo all'aeroporto di Nizza, a prendere Bassani in arrivo da Roma. Era un pensiero naturale, Antonioni, Lodi e Bassani sono tutti e tre ferraresi, e coetanei... Un momento! Siccome di maligni ce n'è tanti, e siccome Antonioni è sollecitato, dalla propria natura mesta e suscettibile (quasi una mania di persecuzione), ad ascoltare i maligni, è forse prudente che io precisi. Pensando «facciamola fuori con Antonioni!» non pensavo affatto «facciamo fuori Antonioni! » neanche figurativamente; ma soltanto: facciamo una buona volta i conti con Antonioni, risolviamo finalmente, se ci è possibile risolverlo, il problema della sua arte, che ogni film da lui firmato torna a presentarci, e che l'ultima opera, il recentissimo sketch da lui girato per I tre volti di Soraya, e da lui intitolato Prefazione, propone con la chiarezza, addirittura, di un paradigma. E di nuovo, subito, devo preoccuparmi dei maligni, e del conseguente pericolo che Antonioni mi fraintenda. Non voglio, Michelangelo mio, Michelangelo nostro, Michelangelo dei nostri tempi, non voglio dire che Prefazione sia un'opera schematica, fredda, fatta su commissione: uno sketch alimentare, e basta. Per carità. La credo, a oggi, una delle tue opere migliori, se non la migliore tout court: la più perspicua, la più esemplare. Forse perché il soggetto è il più esile che mai tu abbia immaginato e che qualunque regista possa immaginare: il provino di una nuova attrice. Se ben ricordi, del Deserto rosso ti avevo detto questo: che tu avresti dovuto cercare, appunto, un soggetto estremamente rarefatto: per poterlo riempire, appunto, come volevi e finché volevi, fino all'orlo della sua capacità, fino alla sua saturazione, col fluido irrazionale, informale, viscerale del tuo strapotente lirismo. Ecco che il provino di Soraya ti ha dato, non so se per tua fortuna o per tuo calcolo, e non so con quanta consapevolezza da parte tua, questa straordinaria e forse irripetibile possibilità. Senza contare che il paragone inevitabile con i due sketches seguenti, l'elegante Amanti celebri del pur bravissimo Bo-lognini, e il decoroso Latin lover dell'esordiente Indovina, questo paragone aiuta noi ancora meglio a capire te fino in fondo, Michelangelo: così come l'impegno, per te nuovo, di una siffatta concorrenza (non ti offendi per l'espressione commerciale?) può avere aiutato te a essere il più sfrenatamente possibile soltanto te stesso.
Quando arrivammo all'aeroporto, Bassani era già lì, che ci aspettava: non era solo, era con sua madre. Filiberto fa sedere la signora Bassani davanti, vicino a lui: e, per mostrarle bene Villafranca e Montecarlo, invece di passare per la Grande Comiche, prende la strada lungomare. Così, il viaggio è più lungo, più lento di quello di andata, e senza svolte violente. Bassani e io, nei sedili posteriori, abbiamo tutto l'agio per discutere: anche se la discussione, ogni tanto, è alternata, o addirittura «mixata», con le spiegazioni turistiche che Filiberto da alla signora Bassani.
Cominciammo subito. Non eravamo ancora usciti dal recinto dell'aeroporto, che dicevo: «Lo sai? A Milano ho visto il film di Soraya, il primo sketch è di Antonioni, bellissimo, e...».
Bassani: «A proposito, ho incontrato Antonioni, ieri. Dice che tu sei una gran testa di...».
Io: «Esattamente quello che anche io penso di lui. Con la grande differenza, però, che il suo è, forse, un giudizio tranchant e definitivo. Il mio, invece, si riferisce soltanto a una parte, e alla parte meno importante, di un giudizio totale su di lui: un giudizio totale su di lui, che non è affatto negativo, ma anzi pieno di rispetto e di ammirazione. Lui, forse, dice che io non capisco niente di niente, e mi boccia. Io, invece, dico che c'è, in lui, una contraddizione, che lui non sempre è capace di superare: ma sovente la supera, e quando la supera è un poeta: perciò lo promuovo. E non mi offendo che lui, in cambio, mi bocci: perché lui è, appunto, un poeta, e i poeti non sono necessariamente tenuti a capire gli altri, tutti gli altri: tanto più quando la loro poetica prescinde quasi totalmente dalla razionalità, come è appunto il caso di Antonioni».
Bassani: «Non trovo, in Antonioni, questa contraddizione che dici tu. O forse tu vuoi dire altro».
Io: «Mi spiego. Per farla breve, prendo l'esempio più chiaro. L'elemento, nei film di Antonioni, che più mi offende. Il dialogo. Come mai, mi chiedo continuamente mentre vedo i suoi film, e l'ho già scritto, e in questo sketch di Soraya è la stessa cosa... come mai, tutto ciò a cui Antonioni mette mano è così raffinato, così curato, così sentito, così trasfigurato, così portante, e l'inquadratura, e l'arredamento, e gli oggetti, e i volti, e i gesti, e i colori, e il ritmo del montaggio, e i suoni, i rumori, la musica, tutto, insomma, è così vivo, pregnante, carico di simboli e di significati, tutto, meno il dialogo? Meno il dialogo, che resta inerte, imbecille, casuale, rozzamente trasferito dalla vita, come se Antonioni non vi annettesse importanza alcuna, come se fosse un elemento che lui non calcola e che lui disprezza: un dialogo che non sembra neppure scritto e neppure pensato, ma quasi affidato all'improvvisazione degli interpreti stessi che dovranno pronunciare le battute, e deciso, o meglio accettato da Antonioni soltanto all'ultimo istante, all'ultima prova prima di girare? Mi pare quasi di sentire la voce di Antonioni, rivolgendosi all'attore: "Che cosa deve dire? Dica questo e quello. Ma lo dica come vuole, con le parole che le vengono naturali. Non ha nessuna importanza". L'attore prova, poi chiede se va bene. E Antonioni: "Ma sì, bene, benissimo! Andiamo avanti. L'importante è che lei si fermi lì, non un millimetro avanti, né un millimetro indietro, e che prenda quella luce...". Come è possibile che un artista così raffinato come Antonioni non avverta l'orribile stonatura di tutti i suoi dialoghi? Come è possibile che lui, che calcola tutto e da peso a tutto, trascuri questo elemento, così importante, del cinema? Ho perfino pensato, ti giuro, che lo faccia per disprezzo della letteratura! Eppure Antonioni ha certamente il senso dell'eleganza letteraria: basterebbe la civetteria con cui ha voluto intitolare questo sketch Prefazione: perché è anche una prefazione, non soltanto a Soraya, ma a tutta l'opera di Antonioni stesso. È una opera straordinaria, la vedrai, dove Antonioni interpreta l'angoscia e la ferocia disumanante della lavorazione cinematografica: dove lo stabilimento di notte, i teatri di posa, i macchinari, la sala trucco, la sartoria, e i gesti e i movimenti dei tecnici e degli operai, tutto, magicamente, concorre a dare un'idea estremamente concreta, precisa, straziante di che cosa sia, per chi lo fa, il cinema. Ti assicuro, sono rimasto sbalordito. Il cinema, lo conosco, no? Per trent'anni è stata la mia vita. Ebbene, Antonioni ha saputo renderlo come se lo vedesse "per la prima volta": e ha restituito a me stesso la freschezza, lo stupore e l'orrore delle mie impressioni, quando, per la prima volta, trent'anni fa, entrai in un teatro di posa. Perché, dunque, questo fenomenale Antonioni, mentre così mi rapisce e incanta, deve, ogni tanto, darmi dei maledetti pugni nello stomaco con le battute dei suoi dialoghi, che sono tutte, eh sì, tutte, irrimediabilmente inerti e cretine?».
Bassani, che da un po' di tempo sta crollando la testa e fa vani sforzi per parlare, finalmente riesce a interrompermi: «Hai torto, hai torto, e hai torto! Oppure, hai ragione ma ti fermi anche tu a un certo punto, sebbene non per obbedire a Michelangelo, e non vai oltre. Tu ti ostini a giudicare Antonioni come se fosse un altro te stesso, o un altro me stesso. Antonioni è profondamente diverso da noi due. Stai pure tranquillo, io lo conosco da quando eravamo tutti e due ra-gazzini, e sono sicuro di non sbagliare. Il dialogo, che tu dici brutto e inerte, è veramente tale: brutto e inerte. Soltanto che, ed è qui il tuo errore, non è che Antonioni non se ne accorga. Lui lo vuole proprio così. Un dialogo bello, un dialogo portante...».
Io: «... un dialogo efficace e poetico, allo stesso modo che tutti gli altri elementi di un film di Antonioni sono efficaci e poetici... ».
Bassani: «... Lasciami dire! Se no parli sempre tu!... Dunque, un dialogo bello, a lui rompe le scatole».
Io: «Ma perché?».
Bassani: «Eh sì, perché, ragiona un momento: escludi per un momento il dialogo, e chiediti quale sia l'immagine, che Antonioni ti da, del mondo, della vita... ».
Io: «... un'immagine angosciosa, disperata...».
Bassani: «Sì, angosciosa, disperata, ma, al tempo stesso, positiva: e positiva non per l'angoscia o per la disperazione, che quell'immagine contiene, ma positiva per l'estrema bellezza, per l'estrema raffinatezza...».
Io, entusiasta: «Sì, sì, come una patina, come uno smalto che ricopre tutto e sempre...».
Bassani: «Ecco, bravo, proprio così: come una patina; come uno smalto; come una liscezza, una geometria, una perfezione di cui quell'immagine, che pure è un'immagine angosciosa e disperata, non può mai fare a meno. E ti sei chiesto perché Antonioni sia, in tutti gli altri elementi dei suoi film meno il dialogo, così liscio, così perfetto, così bello? Ma proprio perché la bellezza è la sola in cui lui crede, e lui la cerca e la vede dappertutto, anche negli oggetti e nei momenti più vili: lui è come un Mida che trasforma in oro tutto ciò che tocca. Soltanto che questa visione del mondo è la visione che ne hanno, appunto, gli esteti: coloro per i quali la realtà è soltanto bellezza, coloro i quali non credono in niente se non nell'arte. Antonioni, anche se non lo sa e non lo pensa, appartiene agli esteti. Ma, ed è qui la sua nobiltà, la sua modernità, la sua differenza dagli esteti di ieri e di ieri l'altro, lui sente cupamente, visceralmente che la realtà, vista così da lui soltanto sotto la specie della bellezza, gli sfugge: subcoscientemente, sente che la realtà gli sfugge, non sa capire bene in che consista, ne soffre: ecco la ragione del suo pessimismo, della sua angoscia, della sua modernità: un esteta, certo, ma un esteta insoddisfatto, un esteta disperato. Per questo, commuove, Michelangelo, fa pena. Io non lo invidio...».
Io: «Neanche io, umanamente, lo invidio. Ma artisticamente, sì».
Bassani: «E lo credo bene. Dunque...».
Io: «Insomma, la pietà di...».
Bassani: «Lasciami finire, interrompi sempre. Michelangelo, dunque, sente che la realtà non è espressa
dalla ininterrotta, incorrotta, allucinante bellezza delle sue immagini cinematografiche, bellezza a cui, però, lui non intende e non può in nessun modo rinunciare. Allora, che fa, Antonioni? Sente, lui stesso, la fragilità, l'inconsistenza della sua fede nella bellezza pura: che fa, allora? Cerca un contrappeso, cerca una zavorra? Ha perduto il senso della realtà? Bene: cerca un qualche cosa che gli ridia il senso della realtà! E questo qualche cosa lo trova... ».
Io: «Nel dialogo! Cioè nel più razionale, nel più storicistico di tutti gli elementi!».
Bassani: «Bravo, nel dialogo! Dialogo che, per lui, è, dunque, tanto più bello quanto più è brutto. Tanto più bello, cioè, non perché sia fuso nella bellezza di tutti gli altri elementi, ma proprio perché se ne differenzia violentemente, brutalmente, pesantemente; e serve, così, a mettere ancora più in valore la bellezza di tutti gli altri elementi. Un po' come gli oggetti grezzi, che i maestri della pop-art introducono a forza nelle loro composizioni pittoriche».
Io: «Questo, giuro, non lo avevo capito. Credo che tu abbia ragione. Ma resta un fatto: che la sintesi non c'è. Ecco perché ammiro moltissimo Antonioni, ma non mi sento di approvarlo».
Bassani: «C'è la sintesi, a cui lui può arrivare. Un estetismo che ha coscienza di se stesso, ma non ha la forza di superarsi. È già molto, però, che abbia questa coscienza. Vedi? se lui cercasse di fare belli i suoi dialoghi, sarebbe un estetismo ancora più chiuso. Quei dialoghi stonati sono la spia, psicologica se non artistica, del mondo senza storia, del mondo sfiduciato e disperato di Antonioni. E non ci sono rimedi tecnici, per questo male. Non ci sono rimedi, se non uno».
Io: «Essere diverso? Credere a qualche altra cosa al di là della bellezza? Credere nella storia e nello storicismo? Nel valore assoluto della tradizione e dell'evoluzione? O vogliamo dire, con coraggio, la parola che gli esteti, più o meno apertamente condannano: credere nel progresso? È questo il rimedio?».
Bassani tace. Ma non può non approvarmi, penso. In quel momento, Filiberto dice alla signora Bassani: «E questo qui, a sinistra, è il club nautico di Onassis». Siamo infatti a Montecarlo. Lentamente, nel traffico, la macchina sale verso il Casinò. E io, tra di me, pensavo che anche Antonioni è come tanti nostri contemporanei, che rinunciando alla vecchia religione nelle sue forme razionali e pratiche hanno rinunciato anche al cuore profondo di quella religione, cioè ai valori perenni della religiosità, alla fede nell'evoluzione dell'umanità. Hanno fatto come quelli che, con l'acqua del bagno, buttano via anche il bambino. «Ihr musst nicht das Kind mit dem Bade ausschùtten». Tuttavia, la sua disperata illusione che la fede in una bellezza immobile, e staccata dalla storia, sia sufficiente, e, nel profondo, il pietoso, angoscioso dubbio che, invece, non sia sufficiente, fanno di lui quell'artista che vediamo.
Forse un grande artista. L'anonimo recensore americano del Deserto rosso, nel numero del 19 febbraio di «Time Magazine», così conclude il suo articolo altamente elogiativo: «Paradossalmente, Red desert è un fallimento come dramma perché Antonioni, con la sua arte scrupolosissima, fa i luoghi e gli oggetti talmente più interessanti dei personaggi, che il pubblico molte volte non sa distinguere i cristiani dai leoni. [Questo è un modo di dire: ho voluto tradurlo letteralmente, perché mi sembra così giusto, nella sua semplicità. Chi, se non un esteta, può confondere cristiani e leoni?]. Tuttavia, il fallimento di questo film è qualche cosa di meraviglioso, è un enorme tuffo caleidoscopico che certamente modifica la forma stessa di tutta l'arte del cinema, e in qualche modo, addirittura, ne da una nuova definizione».
Ho letto la recensione del «Time» dopo aver parlato con Bassani. Ma concorda perfettamente col nostro dialogo. E mi pare impossibile, su Michelangelo, dire meglio né di più.
7 marzo 1965
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
Nella sua tipologia, Nietzsche distingue due figure: il prete e l'artista. Di preti, ne abbiamo oggi da vendere; di tutte le religioni e anche senza religione; ma di artisti? Vorrei, caro Antonioni, che tu mi prestassi per un attimo qualche tratto della tua opera per permettermi di fissare le tre forze, o se preferisci, le tre virtù che ai miei occhi costituiscono l'artista. Le dico subito: la vigilanza, la saggezza e la più paradossale di tutte, la fragilità.
Contrariamente al prete, l'artista ammira e si stupisce; il suo sguardo può essere critico, ma non è accusatore: l'artista non conosce risentimento. Proprio perché tu sei un arti sta la tua opera è aperta al Moderno. Molti prendono il moderno come una bandiera di combattimento levata contro il vecchio mondo, i suoi valori compromessi; ma per te, non è il termine statico di una facile opposizione; anzi, al contrario, il Moderno è la difficoltà attiva di seguire il mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all'interno di quella piccola Storia di cui è misura l'esistenza di ciascuno di noi. Cominciata all'indomani dell'ultima guerra, la tua opera si è così rivolta, di momento in momento, secondo un doppio movimento di vigilanza, al mondo contemporaneo e a te stesso; ognuno dei tuoi film è stato, a livello personale, un'esperienza storica, l'abbandono cioè di un problema vecchio e la formulazione di una domanda nuova; il che significa che tu hai vissuto e trattato la storia di questi ultimi trent'anni con sottigliezza, non come la materia di un riflesso artistico o di un impegno ideologico, ma come una sostanza di cui tu dovevi captare, di opera in opera, il magnetismo. Per te, il contenuto e la forma sono storici allo stesso modo; i drammi, come tu hai detto, sono indifferentemente psicologici e plastici. Il sociale, il narrativo, il nevrotico, non sono che livelli, pertinenze, come si dice in linguistica, del mondo totale, che è l'oggetto di ogni artista: c'è una successione, non una gerarchia degli interessi. Per essere precisi, contrariamente al filosofo, l'artista non evolve; come uno strumento molto sensibile, egli percorre le successioni del Nuovo che la propria storia gli presenta: la sua opera non è un riflesso fisso, ma una moire su cui passano, secondo l'inclinazione dello sguardo e le sollecitazioni del tempo, le figure del Sociale o del Passionale, e quelle delle innovazioni formali, dal modulo narrativo all'impiego del Colore.
La tua inquietudine per l'epoca non è quella dello storico, del politico o del moralista, ma piuttosto quello dell'utopista che cerca di scorgere su punti precisi il mondo nuovo, poiché ha voglia di quel mondo e vuole già farne parte. La vigilanza dell'artista, che è la tua, è una vigilanza amorosa, una vigilanza del desiderio.
Chiamo saggezza dell'artista non una virtù antica, ancor meno un discorso mediocre, ma, al contrario, quel sapere morale, quell'acutezza di discernimento che gli permette di non confondere mai il senso e la verità. Quanti crimini l'umanità non ha commesso in nome della Verità! E pure tale verità non è mai stata che un senso. Quante guerre, repressioni, terrori, genocidi, per il trionfo di un senso! Lui, l'artista, sa che il senso di una cosa non è la sua verità; questo sapere è una saggezza, una saggezza folle, si potrebbe dire, che trae il sapere dalla comunità, dal branco dei fanatici e degli arroganti.
Non tutti gli artisti, tuttavia, hanno questa saggezza: alcuni ipostatizzano il senso. Tale operazione terroristica generalmente si chiama realismo. Così, quando dichiari (in un'in tervista con Godard): "Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici", tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film (uso ancora lo stesso termine) una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. È proprio in questo che tu assolvi il compito dell'artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatíco, né insignificante. Così, nei tuoi primi cortometraggi sui netturbini romani o sulla fabbricazione del rayon a Torviscosa, la descrizione critica di un'alienazione sociale vacilla, senza venir meno, a vantaggio di un sentimento più patetico, più immediato, dei corpi al lavoro. In Il Grido , il senso forte dell'opera consiste, se si può dire, nell'ambiguità stessa del senso: l'errare senza meta di un uomo che in nessun luogo può confermare la propria identità e l'ambiguità della conclusione (suicidio o incidente) conducono lo spettatore a dubitare del senso del messaggio.
Questa fuga dal senso, che non è la sua abolizione, ti permette di scuotere le fissità psicologiche del realismo: in Deserto rosso, la crisi non è più una crisi di sentimenti, come nell'Eclisse, poiché i sentimenti qui sono certi (l'eroina ama il marito): tutto si intreccia e fa male in una zona seconda in cui gli affetti - il disagio degli affetti - sfugge a quell'armatura del senso che è il codice delle passioni. Infine - per non farla troppo lunga - i tuoi ultimi film portano la crisi del senso nel cuore dell'identità degli avvenimenti (Blow up) o delle persone (Professione: reporter). In fondo, nel corso della tua opera, c'è una critica costante, dolorosa ed esigente ad un tempo, di quella traccia profonda del senso che si chiama destino.
Questo vacillare - preferirei dire con più precisione: questa sincope del senso, segue vie tecniche, propriamente filmiche (scenografia, piani, montaggio) che non spetta a me analizzare, poiché non ne ho la competenza; sono qui, mi sembra, per dire in che cosa la tua opera, al di là del cinema, coinvolge tutti gli artisti del mondo contemporaneo: tu lavori per rendere sottile il senso di ciò che l'uomo dice, racconta, vede o sente, e tale sottigliezza del senso, questa convinzione che il sensonon si ferma grossolanamente alla cosa detta, ma si spinge sempre più lontano, ammaliato dal fuorisenso, è quella, credo, di tutti gli artisti, il cui oggetto non è questa o quella tecnica, ma quello strano fenomeno che è la vibrazione. L'oggetto rappresentato vibra, a scapito del dogma. Penso alle parole del pittore Braque: "Il quadro è finito quando ha cancellato l'idea". Penso a Matisse che disegna un ulivo, dal suo letto, e si mette ad osservare, dopo un po', i vuoti tra i rami e scopre che, con questo modo di vedere, sfugge all'immagine abituale dell'oggetto disegnato, al cliché "ulivo". Matisse scopriva così il principio dell'arte orientale, che vuole sempre dipingere il vuoto, o meglio, che coglie l'oggetto raffigurabile in quel raro momento in cui il pieno della sua identità cade bruscamente in un nuovo spazio, quello dell'Interstizio. In un certo modo la tua arte è anch'essa un'arte dell'Interstizio (di questo L'avventura potrebbe essere la stupefacente dimostrazione), e dunque, in un certo modo, la tua arte ha un qualche rapporto con l'Oriente.
Proprio il tuo film sulla Cina mi ha fatto venire la voglia di fare un viaggio laggiù; e se questo film è stato provvisoriamente respinto da coloro che avrebbero dovuto comprendere come la sua forza d'amore fosse superiore a ogni propaganda, è perché è stato giudicato secondo un riflesso del potere e non secondo un'esigenza di verità. L'artista è senza potere, ma ha un qualche rapporto con la verità; la sua opera, sempre allegorica se è una grande opera, la coglie di striscio; il suo mondo è una verità tangenziale (L’Indirect de la verité).
Perché questa sottigliezza del senso è decisiva? Precisamente perché il senso, non appena viene fissato e imposto, non appena cessa di essere sottile, diviene uno strumento, una posta nel gioco del potere. Assottigliare il senso fino a sottrarlo è dunque un'attività politica seconda, come lo è ogni sforzo che tende a sbriciolare, a turbare, a disfare il fanatismo del senso. Il che non è privo di pericoli. Così la terza virtù dell'artista (intendo la parola "virtù" nel senso latino), è la sua fragilità: l'artista non è mai sicuro di vivere, di lavorare: proposizione semplice ma seria: può sempre essere spazzato via.
La prima fragilità dell'artista è questa: egli fa parte di un mondo che cambia, ma anche lui cambia; è banale, ma per l'artista è vertiginoso; poiché non sa mai se l'opera che propone è prodotta dal cambiamento del mondo o dal cambiamento della propria soggettività. Tu sei sempre stato consapevole di questa relatività del Tempo, quando dichiaravi, per esempio, in un'intervista: "Se le cose di cui parliamo oggi non sono quelle di cui parlavamo subito dopo la guerra, significa in effetti che il mondo intorno a noi è cambiato, ma che anche noi siamo cambiati. Le nostre esigenze, i nostri propositi, i nostri temi, sono cambiati". La fragilità qui è quella di un dubbio esistenziale che afferra l'artista a mano a mano che avanza nel suo cammino e nella sua opera; è un dubbio difficile, anche doloroso, perché l'artista non sa mai se ciò che vuole dire è una testimonianza veritiera sul mondo così com'è cambiato, oppure il semplice riflesso egoistico della propria nostalgia o del proprio desiderio: viaggiatore einsteiniano, non sa mai se è il treno che si muove o lo spazio-tempo, se è testimone o uomo di desiderio.
Un altro motivo di fragilità, è, paradossalmente, per l'artista, la fermezza e l'insistenza dello sguardo. Il potere, qualunque esso sia, perché è violenza, non può guardare; se guardasse un minuto di più (un minuto di troppo), perderebbe la sua essenza di potere. Lui, l'artista, si ferma e guarda a lungo, e posso immaginare che tu ti sei fatto cineasta perché la macchina da presa è un occhio, obbligato, per predisposizione tecnica, a guardare. Quello che tu aggiungi a tale predisposizione, comune a tutti i cineasti, è il modo radicale di guardare le cose, radicale fino al loro esaurimento. Da una parte tu guardi a lungo ciò che, dalla convenzione politica (i contadini cinesi) o dalla convenzione narrativa (i tempi morti di un'avventura), non ti era stato chiesto di guardare. Dall'altra parte il tuo eroe preferito è colui che guarda (fotografo o reporter). Il che è pericoloso, poiché guardare più a lungo del richiesto (insisto su questo supplemento d'intensità) disturba gli ordini stabiliti, quali che siano, nella misura in cui, di solito, il tempo stesso dello sguardo è controllato dalla società; da cui, quando l'opera sfugge a questo controllo, la natura scandalosa di certe fotografie e di certi film: non i più indecenti o i più aggressivi, ma semplicemente i più "posati".
L'artista è dunque minacciato, non solo dal potere costituito - il martirologio degli artisti censurati dallo Stato, lungo tutto il corso della Storia, sarebbe di una lunghezza di sperante - ma anche dal sentimento collettivo, sempre latente, che una società può benissimo fare a meno dell'arte: l'attività dell'artista è sospetta perché disturba il confort, la sicurezza dei sensi stabiliti, perché è nello stesso tempo dispendiosa e gratuita, e perché la società nuova che cerca se stessa, attraverso regimi molto diversi, non ha ancora deciso cosa deve pensare, cosa dovrà pensare del lusso. La nostra sorte è incerta, e questa incertezza non ha un rapporto semplice con gli esiti politici che possiamo immaginare per il disagio del mondo: essa dipende da questa storia monumentale, che decide, in maniera pressoché inconcepibile, non più dei nostri bisogni, ma dei nostri desideri.
Caro Antonioni, ho cercato di dire nel mio linguaggio intellettuale le ragioni che fanno di te, al di là del cinema, uno degli artisti del nostro tempo. Non si tratta di un facile complimento, tu lo sai; poiché quella di essere artisti oggi è una situazione non più sostenuta dalla bella coscienza di una grande funzione sacra o sociale; essa non significa più prendere serenamente posto nel Pantheon borghese dei Fari dell'Umanità; significa, ad opera, dover affrontare in se stessi quegli spettri della soggettività moderna (dal momento che non siamo più preti), che sono la stanchezza ideologica, la cattiva coscienza sociale, l'attrazione e il disgusto dell'arte facile, il tremito della responsabilità, l'incessante scrupolo che lacera l'artista tra solitudine e gregarietà. Bisogna dunque che tu oggi approfitti di questo momento tranquillo, armonioso, riconciliato, in cui tutta una collettività è d'accordo per riconoscere, ammirare, amare la tua opera. Poiché domani ricomincerà il duro lavoro.
Da Sul cinema, Il Melangolo, Genova, 1994
La medesima inquietudine stilistica che lo aveva portato a difendere a oltranza la propria individualità negli anni Cinquanta e una felice capacità di sintonizzazione con le tensioni culturali, letterarie, filosofiche, esistenziali e ideologiche diffuse oltre i confini nazionali spingono quasi naturalmente Michelangelo Antonioni al centro della scena e lo promuovono al ruolo di coprotagonista accanto a Fellini. L'avventura giunge a ridosso della Dolce vita e gode di consensi assai contrastati: lo strappo rispetto al cinema degli anni Cinquanta è sensibile e non è facile inventare categorie pertinenti a un tipo di cinema che, in modo plateale, non ha alcun legame con la tradizione. La reazione è solo differita: già nel 1961 Antonioni è assunto a forza nell'empireo dei massimi maestri del cinema mondiale e per merito dell'Avventura e della Notte, oltre che della Dolce vita di Fellini, il cinema italiano riguadagna quel prestigio internazionale che alla fine degli anni Cinquanta appariva un po' appannato.
Se abbiamo constatato che la produzione bibliografica su Fellini, a partire dalla Dolce vita, subisce una crescita enorme, lo stesso si può dire per Antonioni, anche se gli interessi critici vengono stimolati per ragioni differenti.
Rispetto a Fellini, per Antonioni si registra subito una netta superiorità sul piano della qualità del lavoro critico. Il critico felliniano spesso si lascia affascinare e sedurre dagli aspetti più esteriori e appetibili (ma anche deteriorabili) dell'opera e del regista. Con Antonioni questo non è possibile: né lui come personaggio, né le sue opere offrono alcun appiglio per i pezzi di colore, le facili identificazioni autobiografiche, ecc. Il lavoro critico richiede delle doti e un'attrezzatura da scalatore di sesto grado superiore. In mancanza di appigli e punti d'appoggio gli strumenti critici devono incidere e far presa per dare qualche risultato, e non è concessa alcuna improvvisazione. Così, se dalla sterminata produzione critica su Fellini si possono senza rimorsi buttare a mare non pochi titoli, per Antonioni si può parlare di una critica che cresce su se stessa e che si impone come disciplina comune di evitare il descrittivismo e il sociologismo più elementari.
Con gli anni Sessanta si entra nella fase dell'opera di Antonioni su cui la critica in tutto il mondo si è subito misurata, servendosi degli strumenti più sofisticati e aggiornati dell'ermeneutica, della psicanalisi, dello strutturalismo e della semiologia. Però, come avviene in Blow-up, o nel processo tecnico di «latensificazione» che accompagna lo sviluppo dei suoi dipinti e il loro ingrandimento fotografico (che consente di rivelare aspetti non previsti all'atto della realizzazione grafica), sottoponendo a ingrandimenti e analisi stratigrafiche la sua opera, ci si accorge che il paesaggio è tutt'altro che conosciuto. A ogni passo, ci si può imbattere in aspetti inediti e imprevisti. Lo stesso autore cerca di deludere le attese e sfuggire ai tentativi di imbalsamazione o incasellamento entro formule, come quelle dell'incomunicabilità e dell'alienazione. Antonioni, rispetto a Pasolini, ad esempio, non ha mai esibito platealmente le sue passioni, né la sua fame di vivere, il suo vitalismo eccessivo e trasgressivo, ma il suo viaggio non è parso avere mai alcun limite e certo è sempre sembrato proiettato in avanti e come percorso da una giovanile e febbrile curiosità per il nuovo che lo ha accompagnato fino a Identificazione di una donna e ai molti progetti rimasti sospesi.
Da questo periodo che si apre con L'avventura l'insieme della produzione antonioniana - pur suddivisibile in fasi differenti - si dispone come un corpo unitario entro cui si possono tracciare linee nette di sviluppo o isolare nuclei formali e di senso modulati lungo un discorso continuo.
Questo vale in particolare per il gruppo di film della cosiddetta «trilogia della solitudine» (L'avventura, La notte, L'eclisse), a cui si collega, in termini di sintesi e di radicalizzazione del discorso, Deserto rosso.
Dopo II grido, opera anomala sia per l'oggetto tematico che per il tipo di rapporto sensibilmente coinvolto tra il regista e il protagonista maschile, Antonioni torna al mondo della borghesia. Poi, mediante un progressivo mutamento dei rapporti egli frantuma l'unità dei suoi personaggi, o la dispone in un rapporto anomalo rispetto al mondo circostante. Le cose, poco a poco, occupano il centro della scena, acquistando un valore simbolico e divenendo attori dell'azione, mentre, da parte loro, i personaggi subiscono un processo di oggettivazione e reificazione che li porta a confondersi e annullarsi nelle cose stesse. Se, con Fellini, la crisi del messaggio neorealista nasce dall'esigenza di spingersi oltre la soglia del visibile e affrontare il viaggio nell'inconscio, con Antonioni, pur mantenendo un rapporto con i dati della realtà, cade ogni fiducia nella loro rappresentatività in termini oggettivi.
Anche il racconto, fin dall'Avventura, mostra una sorta di sovversione dei rapporti causali, temporali, logici ed emotivi: «Non vi è - nota Tinazzi - infatti una sequenza di fatti messi insieme per accumulazione, cioè l'abituale processo di 'caricamento' (ed eventuale chiarificazione); vi è piuttosto una distensione, una dilatazione che parte da una premessa volutamente vaga (un 'mistero' tutto laico). Il film effettua perciò da un lato il lavoro di scarica (nel senso di tensione, ecc.), dall'altro una sorta di 'caricamento' significativo (i particolari, i segni, le cose, ecc.)».
Dopo la ricomposizione della realtà sulla base dell'antropocentrismo neorealista, le misure di relazione tra uomo e cose, tra uomo e uomo, vengono profondamente modificate. L'uomo antonioniano non è più centro e misura dello spazio e della realtà. Si muove e agisce con un rapporto di inadeguatezza e di asintonia rispetto agli altri e all'ambiente. Non trova la misura più giusta per comunicare, e neppure quella per essere semplicemente se stesso.
In questo lavoro di ristrutturazione di rapporti la prima sfida del regista è quella di una «fuga dal banale» - come l'ha definita Tommaso Chiaretti - ottenuta attraverso un'immersione totale nel banale stesso per farne emergere, dal fondo, significati imprevisti e inquietanti. Nulla di più banale dell'inizio dell'Avventura, della crisi dei rapporti tra Sandro e Anna, dei discorsi degli amici dello yacht, tenuti quasi interamente sul piano delle funzioni fatiche, dell'assenza completa del senso, dove la somma di indizi e minimi gesti anomali carica il senso, produce un'attesa per qualche evento che si deve compiere.
Nel momento in cui lo spettatore è depistato, assieme ai personaggi, alla ricerca di Anna, al centro del racconto viene a trovarsi Claudia, con il suo carico di angoscia, di solitudine e di disponibilità. Da un certo momento in poi la realtà è vissuta dal suo punto di vista, che passa da una relazione di estraneità a una di integrazione. Senonché il processo di integrazione avviene a un livello assai inferiore alla soglia del desiderio e della carica affettiva che ognuno investe entrando nel gioco. Sia che i personaggi si muovano nel paesaggio brullo e pietroso delle Egadi o delle Eolie, sia che percorrano le strade della Sicilia o si muovano negli interni, il deserto e la solitudine delle cose non sono altro che lo specchio e il transfert di una geografia intcriore degli individui. Lo stesso restringimento progressivo dello spazio esterno dall'Avventura all'Eclisse mostra l'inesorabile chiudersi e restringersi dell'esperienza interiore.
Antonioni segue i suoi protagonisti in fuga da se stessi, dalla propria identità (è il caso di Lidia nella Notte) da qualsiasi situazione di appartenenza, li fa muovere lungo percorsi labirintici alla ricerca di un luogo (per lo più mentale) entro cui ritrovare la giusta misura e il giusto rapporto con le cose. Dei film dei primi anni Sessanta i punti d'approdo non sono tanto i luoghi reali che Lidia rivisita, tentando di ritrovarvi le tracce del suo amore perduto, quanto il luogo mentale dell'isola rosa, della sabbia rosa di cui Giuliana parla in termini favolosi al bambino, e, in termini reali, la stanza in cui farà l'amore con Corrado che, per un attimo, si colora di rosa. E più tardi il deserto della Valle della morte, entro cui i due protagonisti di Zabriskie Point fanno a loro volta l'amore, dove, di colpo, fioriscono, quasi dal nulla, decine e decine di altre coppie di giovani, è il punto in cui il motivo trova il suo momento più alto di rappresentazione utopica.
C'è sempre, in questo senso, una sequenza posta in posizione forte, al centro o in chiusura del film, una specie di riproduzione in scala ridotta della struttura generale. Questo ci permette anche di sottolineare come l'analisi lineare della struttura dia risultati assai modesti.
Nella Notte e nell'Eclisse non è data ai protagonisti la possibilità di accedere momentaneamente al luogo dell'autenticità. Senza variare i procedimenti e i nuclei tematici, il regista li prosciuga, li incide in modo più netto, facendone sentire in maniera inequivocabile il processo di reificazione irreversibile. Rispetto alla struttura dell'Avventura e all'uso del parlato, qui i personaggi tentano in misura maggiore di comunicare con l'altro o con gli altri, ma, a ogni messaggio, corrisponde una risposta che si muove su una diversa lunghezza d'onda. Lidia e Giovanni, pur muovendosi insieme ed essendo per molta parte del film a contatto fisico l'uno dell'altro, in pratica non si incontrano, non si vedono né si sentono. Il finale - dopo un'analisi che ha constatato la totale degenerazione patologica nel rapporto di coppia - non modifica né risolve la situazione di fatto: mentre Giovanni tenta, con un gesto assurdo, di riconquistare Lidia, il paesaggio, con i suoi alberi scuri diritti e storti, con la betulla bianca, che rappresentano i personaggi stessi, connota la separazione definitiva tra loro e rispetto al mondo.
Nell'Eclisse, terzo atto del suo racconto, il processo di riduzione degli individui a cose giunge al punto di non ritorno. Prima di raggiungere la coincidenza assoluta tra evento astronomico e condizione esistenziale, il film ci fa attraversare una serie di eclissi parziali nei rapporti di comunicazione interindividuale. Dalla prima scena alle scene di borsa, alle tappe della storia tra Piero e Vittoria, che, fin dall'inizio, lasciano intravedere minimi spazi per un'avventura sentimentale, vi sono lungo tutta l'opera molte situazioni in cui il rapporto è offuscato all'improvviso, quasi per interferenza di misteriosi agenti atmosferici.
Mentre Vittoria è l'esatta prosecuzione dei personaggi precedenti e successivi, Piero introduce una tipologia inedita; è un individuo che manifesta un eccesso di attività e di partecipazione alle cose. Il suo attivismo è di segno eguale e contrario all'abulia di Giovanni Fontano, ma il suo muoversi appare quello di un automa.
La tematica è dunque la stessa, ma situata a un livello in cui tutte le mediazioni e sfumature sono eliminate. La stessa iscrizione dei protagonisti nel paesaggio impone loro movimenti più limitati, fino quasi a bloccarli.
Così, prevedibilmente, il rapporto tra i due giovani anziché unirli segna la fine del loro incontro. Il dialogo che segue è emblematico: «Mi sembra di essere all'estero» dice Piero. «Pensa che strano - osserva Vittoria - a me questa sensazione me la dai tu». Il processo di estraneità non potrebbe essere detto in modo più esplicito e la conclusione per Vittoria è ancora una volta la consapevolezza del fallimento: «Vorrei non amarti. O amarti molto meglio».
La sequenza finale del film, in cui dopo un ulteriore incontro i due giovani si promettono di darsi un appuntamento che non si verificherà mai più, vede l'irruzione di una realtà dominata da un vuoto che riecheggia, da una parte, la pittura metafisica, dall'altra, il razionalismo astratto di Mondrian. Al di là di questo ennesimo fallimento interindividuale non può esserci che un'eclisse di sentimenti per tutta l'umanità. L'uomo quasi abdica al suo sforzo di costituirsi come soggetto, riconosce il proprio fallimento e accetta di annullarsi, di dissolversi nel paesaggio.
Se col bianco e nero Antonioni ha cercato di giocare non sulle infinite sfumature del chiaroscuro e dei valori tonali, ma sulla nettezza di una ben definita gamma di colori puri, l'incontro con il colore in Deserto rosso lo spinge a un'ulteriore ricerca formale. Lo stesso sforzo e tensione si riscontrano poi nel passaggio alla telecamera e ai mezzi elettronici. La storia è tutta già data nei film precedenti: forse l'unico elemento di novità viene dal fatto che alla coppia il regista aggiunge un figlio che ne riproduce integralmente le nevrosi e l'angoscia. Il contesto, il paesaggio, le stesse figure che vi si muovono, perdono la loro caratterizzazione, diventano pure figure geometriche e colore. «Tutto è colore. Il verde e l'argento delle cisterne; il nero delle ciminiere, dei raccordi e dei tralicci; il giallo e il rosso minio delle strutture; il bianco latte, il giallo oro, il grigio, il nero dei soffioni del gas; il verde viola ruggine dell'erba e delle poche piante che si contorcono su se stesse quasi piangendo sulla terra arsa color ocra bluastro, color grigio seppia, color piombo; ovunque un crogiolo di tinte incredibili, irreali, non scomponibili, quasi a sembrare gli impasti meteorologici di Dubuffet». Antonioni giunge a forzare questi colori dipingendo la realtà, rendendo i colori, più che le cose, specchio della condizione sentimentale dei personaggi. «I personaggi - osserva Tinazzi - agiscono sui colori e sono agiti dai colori».
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Appare chiaro - dopo Deserto rosso - che l'attenzione di Antonioni, una volta acquisiti i dati tematici, si rivolge, anche in modo più esplicito; a un'interrogazione sull'arte contemporanea. Il cinema diventa un mezzo di coagulazione e risistemazione di ricerche pittoriche, musicali, estetiche... Attraverso la propria visione Antonioni filtra dapprima materiali e stimoli provenienti da tutto il campo del lavoro artistico, in particolare con Blow-up, trasferisce questi elementi al centro della scena, rendendoli oggetto di racconto.
Una volta constatata e riproposta in varie forme la dissoluzione del soggetto all'interno dello spazio della realtà italiana, Antonioni sente il bisogno - come poi farà anche Pasolini - di verificare su scala più vasta i suoi dati. Blow-up, Zabriskie Point, Chung Kuo (Citta), Professione: reporter vogliono essere nell'insieme un progetto di fuga o di verifica se, mediante lo spaesamento, sia possibile ricomporre l'unità dell'individuo. Il risultato - forse più positivo - di questa ipotesi è il documentario sulla Cina, che rappresenta, nell'itinerario antonioniano, il momento di restituzione perfetta all'individuo e alle masse del loro spazio esistenziale.
Blow-up pertanto appare come una dichiarazione di sconfitta nel senso che, all'operazione di spaesamento, corrisponde la constatazione sia della perdita d'identità, che della prevalenza del potere della macchina nel produrre e conoscere la realtà. Attraverso Thomas, il fotografo che scopre la sua subalternità rispetto al potere dell'occhio fotografico, Antonioni ripercorre, a cinquant'anni di distanza, l'itinerario pirandelliano dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, con, in più, un'interrogazione generale sull'esistenza ancora di un margine di scelta tra apparenza e realtà, tra il vivere come soggetto e l'essere vissuto da altri. Thomas può scegliere, fino all'ultimo, tra queste due prospettive, come si capisce dall'irruzione sulla scena, in apertura e in chiusura del film, dei mimi che gli propongono una diversa possibilità di partecipazione al reale.
«Thomas vive in un mondo di cui è virtualmente creatore, le modelle sono dei pupazzi nelle sue mani, come le bambole di Hoffmann prendono vita solo al suo comando [...]. L'immagine è potere [...] e il costruttore d'immagini è lui»: questo vale per tutta la prima parte fino a che l'ingrandimento della foto presa nel prato ne capovolge il ruolo, lo annulla perfino come soggetto creatore di visione e di vita.
Anche il passaggio sulle coste californiane negli anni della contestazione non gli fa abbandonare temi e interessi finora seguiti. I due nuovi protagonisti, Mark e Darla, hanno caratteristiche nuove rispetto alla galleria di personaggi finora conosciuti: hanno tutte le carte in regola per costituirsi come coppia. L'analisi fenomenologica del comportamento dei suoi due personaggi, la loro regressione e fuga da una realtà che appare come il punto più emblematico dell'integrazione e dell'oppressione istituzionalizzata, non ha sbocchi, ma consente al regista di scoprire, sul piano individuale, un punto di salvezza e approdo affettivo momentaneo.
Troppo schematico sul piano del discorso e della polemica, il film, figurativamente, coglie lo spirito della pop art filtrandolo attraverso uno sguardo europeo. In termini storici Zabriskie Point è l'opera più ancorata a un contesto sociologico e ideologico preciso. Poi, muovendosi all'interno di una realtà in cui il sociale, le istituzioni mostrano a ogni passo il volto e le caratteristiche disumanizzanti dei meccanismi di condizionamento, il regista scopre, anche per i suoi personaggi, l'impossibilità della fuga in qualunque direzione. L'ipotesi finale della distruzione, che nasce dalla mente di Daria, non è meno drammatica e impotente rispetto alla paralisi e alla resa dei personaggi finora conosciuti.
Professione: reporter è un'esperienza limite nell'itinerario dei personaggi antonioniani: visto l'imprigionamento della geografia intcriore nello spazio di una geografia esterna che si viene restringendo, nonostante la fuga, il protagonista del suo nuovo film sceglie di cambiare di identità, di prendere il posto di un personaggio morto con cui ha qualche rassomiglianza.
Al tema dell'assenza, della sparizione, della mancanza, che Antonioni ha svolto in modo continuo dall'Avventura, si aggiungono, in questo film, ulteriori punti di riferimento, più specificamente legati ai temi del vagabondaggio, dell'errare senza meta. Giustamente è stato notato come entri, a questo punto del lavoro antonioniano, la presenza allusiva di Rimbaud, o almeno «del mito dell'esistenza rimbaudiana».
Spostandosi in Spagna per Professione: reporter, il regista percepisce anzitutto, per la sua naturale capacità di sintonizzarsi con la cultura visiva dell'ambiente, la lezione del pittore Antonio Tàpies, e la usa quasi come tramatura visiva retrostante il racconto.
Ma anche vengono ripresi i motivi del vedere e dell'essere visto di Blow-up, dell'essere e del sembrare, del ruolo dei media nella determinazione della visione e della realtà e, forse per la prima volta, in chiusura di questo film mediante la lunga sequenza finale di otto minuti, il regista si riappropria del proprio sguardo, mostra concretamente la diversità dei poteri di visione del reporter e del regista.
Nel Mistero di Oberwald (1980) il regista, ritrovando altrove il tema del doppio col quale aveva appena fatto i conti (il soggetto è tratto dall'Aigle a deux tètes di Jean Cocteau), parte ancora una volta dal noto per affrontare l'avventura di una nuova esperienza stilistica e formale. Anche se egli dichiara di aver voluto assumere il massimo di rischi, i risultati non convincono; vuoi per il peso eccessivo del soggetto originale, o per l'inevitabile confronto tra le due interpretazioni, la critica in genere non accoglie il risultato della sperimentazione come un evento rivoluzionario.
Il film viene anche congelato dalla stessa televisione, che lascia passare molto tempo prima di mandarlo in onda. Antonioni non se ne preoccupa: non essendo mai stato prigioniero del proprio mito, sa muoversi e continuare a indagare (con una coerenza e una curiosità per i meccanismi all'apparenza polizieschi che lo porta per molti versi ad assomigliare a Borges) sui casi dell'uomo contemporaneo. Identificazione di una donna, film per cui Antonioni torna in Italia, è una sorta di ricapitolazione dei motivi dell'eterno femminino del suo cinema: usando come alter ego Nicolo, regista cinematografico che cerca di dare alla sua idea di donna consistenza materiale di soggetto per un film, Antonioni chiarisce in modo definitivo come il suo ideale femminile, che ha percorso la sua filmografia, altro non sia che il prodotto di clonazione dell'immagine di Louise Brooks, che in quest'ultimo film può addirittura sdoppiarsi in due figure simili, ma non identiche, e interscambiabili.
Negli ultimi film vengono ripresi i motivi dell'essere e del sembrare, del ruolo dei media nella determinazione della visione, della realtà e della verità. Il processo istruttorie ha visto sfilare un'enorme quantità di testimoni. I capi d'accusa per dimostrare la situazione di inesorabile desertificazione dei sentimenti e della vita dell'uomo ci sono tutti. Eppure Antonioni accumula prove, nella speranza forse di trovare, da qualche parte, in Spagna come in Australia, o in spazi situati oltre quelli conosciuti, qualche elemento che gli consenta di invalidare il materiale finora raccolto.
Benché colpito da un grave ictus Antonioni ha continuato a lavorare, scrivendo soggetti e sceneggiature, realizzando alcuni documentari e un paio di film di cui ha diretto alcuni episodi scritti con Tonino Guerra; Al di là delle nuvole nel 1995 diretto con Wim Wenders, ed Eros nel 2004 con Steven Soderbergh e Wong Kar-wai. Uno di questi episodi emblematicamente si può considerare una sorta di opera testamentaria in cui si raccolgono quattro storie che variamente ripropongono i temi dell'amore vissuto da quattro diverse figure femminili e inoltre viene raccontato lo scacco della sua ricerca di un'immagine che riesca a riprendere la realtà assoluta, mentre nell'episodio di Eros sono ripresi in maniera stanca e sfilacciata i temi dell'erotismo.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Sarà, ma a me pare che il discorso più vibrante e profondo sul rapporto di coppia, e sulla sua crisi, sia non già nei (molti) film odierni che in qualche modo lo affrontano, anzi che così sovente ne esibiscono gli aspetti problematici, la sua crisi ormai endemica, le sue illusioni ormai caduche, il compromesso esistenziale cui, nel migliore dei casi, tale rapporto affida la propria sopravvivenza; ma in un regista come Michelangelo Antonioni, la cui filmografia si propone, per almeno un venticinquennio, come il paradigma più esemplare e più lucido di un cinema moderno (nella Settima Arte, si sa, le categorie del "primitivo", del "classico", del "moderno" e del "postmoderno" si succedono, e a tratti financo coesistono, lungo meno di un secolo), l'esempio esteticamente più alto ed eticamente più significativo, certamente a livello nazionale, ma quasi altrettanto certamente a livello europeo e mondiale, di una pratica estetica che all'inquietudine "moderna” sa dare, con ineguagliata sapienza, uno spessore narrativo, una perspicuità simbolica e un'intensità espressiva senza pari nel cinema della seconda parte del secolo.
Erede di un neorealismo che egli stesso ha contribuito, fra i primi, a proporre (Gente del Po, 1943-47, e in generale tutto lo splendido documentarismo antonioniano '48-50), Antonioni esordisce nel lungometraggio narrativo con Cronaca di un amore (1950), ed è subito coppia. Vi è la coppia matrimoniale Paola-Fontana (come nel film di fondazione del cinema postfascista, il viscontiano Ossessione, lei vi ha messo la propria avvenenza e il proprio corpo, lui la propria forza capitalistica e l'attitudine padronale: v. seq. XXXVI, inq. 124); vi è la coppia clandestina Paola-Guido (ancora una volta come in Ossessione, lei vi mette la propria sensualità e il proprio desiderio, lui la propria istintualità e il proprio bisogno di acquietare in un amplesso la febbre - bellica e postbellica - del cambiamento: v. seq. XXIX, inq. 93; seq.
XXXIV inq. 117-119; seq. XLIV, inq. 141); vi è, dietro la coppia degli odierni amanti, il turbativo ricordo della coppia Giovanna-Guido, la cui memoria, e per- Paola e per Guido, è alonata da un sospetto di gesto delittuoso: quando, a Ferrara, la ragazza era precipitata, morendovi, nella tromba dell'ascensore, con i due che, pur sapendo, tacquero. Come (quasi) sempre, i film antonioniani escludono il flashback quale scienza e rivivibilità del passato, che incombe sul presente come memoria e turbata coscienza di un oggi che lo ieri inquina. Così il rapporto di coppia più autentico fra i tre, quello Paola-Guido, dove ambedue potrebbero mettere una analoga carica di desiderio e un paritario tributo affettivo, e messo in crisi, e definitivamente reso impossibile, dal sospetto delittuoso passato (la "disgrazia" occorsa a Giovanna) e dal progetto delittuoso presente (la progettata uccisione dell'ing. Fontana, v. seq. XLVII, inq. 149: ancora una volta come in Ossessione, il delitto quale orizzonte dell'adulterio nei confronti di un marito che si è comprato un corpo). Vi è forse troppo "ideologismo" nell'affermare che il postneorealista Antonioni ha deciso di occuparsi dei vincitori (la rampante borghesia nazionale) e non dei vinti (gli umiliati e offesi di un proletariato sempre più umiliato e offeso) e che, nella società dominata da quei vincitori, non può affermarsi Eros perché vi alligna Thanatos?
Più complesso, anche se apparentemente più semplificato, il rapporto di coppia radiografato ne La signora senza camelie (1952-53), dopo la parentesi de I vinti, dove le coppie vi sono, numerose e diversificate, ma tutte inserite nel contesto di una denuncia dell'alienazione giovanile. La coppia Clara-Gianni è cinematografica (attrice lei, regista lui) e simboleggia non soltanto una precaria unità di affetti, ma anche una friabile unità di progetti cinematografici, dove un nodo aggroviglia l'altro e ne viene a sua volta aggrovigliato, fino a produrre la nuova coppia Clara-Nardo che è tuttavia costituita all'insegna della tipica sperequazione "femminista" antonioniana: lei vi coinvolge tutta se stessa, anima e corpo, progettualità professionale e professionalità esistenziale; lui non vi deposita molto più del proprio dongiovannismo, della propria ansia di dominio e di conquista, e di un desiderio affettivo che ha come limite il proprio desiderio di carriera (v. seq. LI, inq. 77 e seq. LIX, ingq. 88-89). Fallita come attrice e come donna, per ragioni concomitanti e reciprocamente interagenti, Clara finirà sola (v. seq. LXVI, ingq. 100-103), come Paola. Anche la Clelia de Le amiche (1955), ispirato a Pavese, è votata alla solitudine. In un panorama generale di coppie in crisi (Momina-marito, Mariella-amante, Nene-Lorenzo, Rosetta-Lorenzo: significativo, in quest'ultimo caso, che uno dei due elementi di una coppia sia anche l'elemento precario di un'altra coppia, in formazione; qualcosa di analogo lo ritroveremo ne L'avventura e ne L'eclisse), la giovane operatrice d'alta moda, ma di origine proletaria (v. la passeggiata con Carlo nel quartiere operaio di Torino, seq. XXXI, inqq. 108-114), sembra destinata a fare coppia con Carlo, un professionista anch'egli di origine proletaria, con cui ha intrecciato una relazione. Ma nella coppia Clelia-Carlo si insinua, tramite la donna, il tarlo del benessere "borghese": Clelia non sa, non può, non vuole rinunciare al "salto di classe" che le prospettano. Drammaticamente, ma senza troppe esitazioni, si lascia con Carlo il cui orizzonte esistenziale sembra non appartenerle più, non essere più vivibile: meglio il probabile lusso nell'ambiente falso che ha fatto morire d'amore Rosetta e fa soffrire d'amore Nene, che la sicura modestia di una vita in comune con un semplice geometra, anche se è Carlo che lei dice di amare e se è Carlo che la ama.
Il grido (1957), a suo tempo incompreso capolavoro del primo Antonioni ed episodio di svolta nella filmografia dell'autore, rovescia il punto di vista, tradizionalmente dalla parte di lei, dei tre lungometraggi precedenti. Si apre con un rapporto di coppia in crisi, quello Irma-Aldo (v seq. XXIII, inqq. 54-59), e la disperata fuga di lui che ne segue, e si chiude con il suicidio dell'uomo (v. seq. XCIV, inqq. 321-337), quando - ritornato al paese dopo lunghe peregrinazioni - l'uomo vede che, nel frattempo, si è consolidato, e ha fruttificato (v. seq. XCI, ingq. 315-317), il rapporto Irma-Aldo che lo aveva fatto fuggire. Nel disperato itinerario della fuga, Aldo ha cercato di riannodare la antica coppia Elvia-Aldo, di vivere le precarie coppie VirginiaAldo e Andreina-Aldo: ma le successive stazioni della sua fuga circolare (una vera e propria Ringkomposition, per cui l'uomo andrà a morire, proprio nel luogo - il paese, la fabbrica - dove ha smesso qualche mese prima di vivere) sono anche in questo caso un oggi costantemente turbato dallo ieri. Caso clamorosamente unico nel cinema postbellico italiano, Aldo è un operaio che non muore di classe ma
d'amore: il che procurerà "a sinistra" un buon numero di memorabili corbellerie critiche contro il film, da parte di una pubblicistica secondo cui un operaio deve vivere e morire sempre e soltanto avvolto dalle bandiere rosse.
Sette anni dopo, la solitudine mortale e la nevrosi del protagonista de Il grido troveranno complementare contrappeso nella solitudine quasi mortale e nella nevrosi della protagonista de Il deserto rosso (1964), Giuliana: che ama, forse anche intensamente, un marito che ama forse troppo distrattamente la propria moglie; la quale, in un universo di coppie in crisi (v. il lungo episodio plurisequenziale del casotto in mezzo alla nebbia, seqq. XXIV XXV inqq. 246-362), cerca di amare e di farsi amare, vanamente, da un altro uomo. Ma la coppia Giuliana-Ugo e la coppia Giuliana-Corrado funzionano male ambedue: la donna ha una fame di verità, di autenticità, di intensità sentimentale che né il marito né l'amante le sanno dare. Resterà sola, con la propria nevrosi, in un paesaggio inquinato dai veleni industriali, in un orizzonte di scorie e di detriti (v seq. XXVIII, inq. 658-669).
In mezzo, fra l'Aldo de Il grido e la Giuliana de Il deserto Rosso, i tre film dove Antonioni più e meglio delinea la crisi della coppia: Lâvventura (1959), La notte (1961), Léclisse (1962), la cosiddetta "trilogia dei sentimenti". In tutti e tre i casi Antonioni guarda, in ravvicinato, una coppia che si forma o che cerca conferma: Claudia-Sandro, Lidia-Giovanni, Vittoria-Piero. E nei tre casi, l'oggi della coppia attuale è inquinato, condizionato, disturbato, in qualche misura impedito, da elementi dello ieri appena trascorso, o da fattori di una lateralità parallela e in qualche modo alternativa. Ma, pur accomunate da questo topos, diverse sono le stories che Antonioni ci propone e differenti le loro sfaccettature esistenziali, sentimentali e morali.
Così, ne L'avventura, Claudia prende ad amare Sandro, dopo avere assistito alla crisi della coppia Anna-Sandro, avere constatato la sparizione della donna da Lisca Bianca e avere iniziato, assieme all'architetto che ne era l'amante, una lunga quête. a conclusione della quale non ritrova l'amica ma anzi in qualche modo la "tradisce", facendo del suo amante il proprio amante e amandolo, di amorosa pietà, anche nella sua miseria intellettuale, nella sua fatuità erotica e nella sua instabilità sentimentale (v. seq. LXV ingq. 441-457). Amore, dunque, come impossibilità dell'assoluto, rinuncia alla passione, trionfò del relativo, vero e proprio mutuum adiutorium, dove ciò che finisce per contare è la solidarietà verso le reciproche miserie assai più che l'incanto per le reciproche qualità?
Così, ne La notte, la dialettica del rapporto di coppia Lidia-Giovanni dopo quel clima di morte in cui il film si apre, con la visita dei Pontano all'agonizzante Tommaso (seqq. I-V mqq. 1-45), e il sottoepisodio, atroce e bellissimo, della ninfomane in agguato nei corridoi della clinica (seqq. VII/VIII, inqq. 48-60), sottoepisodio che è complementare rispetto all'episodio di Tommaso in cui è incastonato: questo con una vita le cui pulsioni stanno trasformandosi in morte, quello con una vita le cui pulsioni sono così parossisticamente vitalistiche da essere già un equivalente di morte. L'episodio della clinica (la visita a Tommaso e la vicenda della ninfomane) si aggrega a quelli successivi del traffico (seq. X. inqq. 62-85), della presentazione del libro (seq. XI, inqq. 86-90) della passeggiata di Lidia a Sesto S. Giovanni (seqq. XII, XV, XVII, inqq. 92-105, 116-153, 167-177), della meditabonda solitudine di Giovanni (seqq. XIII, XIV XVI, inqq. 106-115, 154-166), del bagno e della vestizione di Lidia (seq. XIX, inqq. 183-192) e dello spettacolo "erotico" al Night Club (seq. XX, inqq. 193-216): altrettante premesse della grande e dinamicissima macrosequenza della festa brianzola, dalla notte all'alba (seqq. XXIXXV, ingq. 217-446), conclusa da uno stupendo dolly (inq. 446) che si alza sulla radura dove i corpi di Lidia e Giovanni, avvinghiati in un estremo impulso, che è di vita e di morte al tempo stesso, cercano di rinnovare la loro, ormai spenta, passione di un tempo. Dopo che nella festa notturna, ambedue, lui con Valentina, lei con un ospite qualsiasi, erano stati tentati da altrettante di quelle "lateralità parallele" con cui Antonioni infoltisce e complica il tormento sentimentale dei propri protagonisti. Amore dunque come transeunte sentimento, memoria sepolta e non rievocabile, momentaneo spasimo vitalistico di una provvisoria rivalsa contro il tempo che trascorre e cancella i sentimenti, rito estremo di una disperata volontà di sopravvivere alla peribilità del tutto?
Così, infine, ne L'eclisse, che si apre, ancora una volta, sulla fine di una "storia', l'addio fra Vittoria e Riccardo (seq. 1, inqq. 1-52), cosparge ancora una volta - ma qui copiosamente come non mai – segni e sintomi preventivi (il primo episodio della Borsa, seqq. IV-VI, inqq.
74-119; l'episodio del mascheramento "africano", seq. V11b, inqq. 140-174; l'episodio notturno dei cani e dei pali metallici oscillanti al vento, seq. VIII, ingq. 179-182; la spaesata "sospensione" del viaggio aereo a Verona, seq. XI, inqq. 201-237; il secondo episodio della Borsa, seq. XII, inqq. 238-319; sino all'episodio dell'ubriaco morto nel laghetto dell'EUR, seq. XXIII, inqq. 401-411), per poi aprirsi a quella che sembra essere l'esplosione di una passione (seqq. XXIIIb-XXIXa, inqq. 344-558), negata subito dopo da uno dei più celebri, e più splendidi, brani antonioniani, la lunga sequenza (seq. XXXI, inqq. 563-609), in cui - dopo l'abbandono, da parte di Vittoria, dallo studio (di Piero) e la sua uscita di campo (inq. 565) - ha inizio la successione di una cinquantina di piani, che registrano, in un crescendo algidamente drammatico, sino all'esplosione luminosa della inq. 609, l'ultima del film, la assenza degli amanti, la fine della "storia" e forse anche della Storia, in una vera e propria Verdinglichung, "cosizzazione" o "reificazione" che dir si voglia, e con ciò la avvenuta pietrificazione di ogni sentimento, il prevalere delle cose sugli uomini, la [s]drammatizzata decostruzione della soggettività in una esplosione di oggettività frammentata come in una nuova Natura, dove le Cose abbiano preso il posto delle Persone, la realtà fisica abbia integralmente sostituito quella interiore, l'immota eternità dell'inanimato abbia sostituito il lacerante tormento delle anime. Amore, dunque, come provvisoria ebbrezza dell'attimo, momentanea concessione al Lustprinzip di un esistere votato soprattutto al principio di realtà, fatto di denaro e di solitudini, di urla e di sospiri, di lotta convulsa e di breve acquietamento, e soprattutto di provvisoria gaudenza e di istantaneo oblio?
La nevrosi della Giuliana de Il deserto rosso offrirà una risposta agli interrogativi: meglio problematicamente nevrotici che aproblematicamente pacificati, meglio impauriti prigionieri della propria inquietudine che satolli automi delle proprie certezze, meglio matti che squallidi, insomma. Ma alle molte domande sulla crisi della coppia, che Antonioni va facendo sin dal suo film d'esordio, questa, paradossale, è l'unica risposta. Antonioni sarà il primo, dopo Il deserto rosso, a rendersi conto d'avere esaurito tutta la gamma possibile, tutte le varianti del rapporto di coppia: e di avere prospettato, unico provvisorio rimedio al "malessere" di tale rapporto, la accettazione del "malessere", la nevrosi. Il mondo idilliaco e sereno della favola - ambientata sulla spiaggia di Budelli - che Giuliana racconta al proprio figlio (v. seq. XXI, inqq. 487-541) è appunto soltanto favoloso.
Vi saranno ancora molte coppie nel cinema antonioniano successivo all'episodio "ponte" de Il provino (1965): da quella, in crisi, Patricia-Ron di Blowup (1966), dove è soltanto la donna ad avere una qualche, sia pure rassegnata, consapevolezza critica (v. seq. XVIII, inqq. 419-427) alla coppia Daria-Mark di Zabriskie Point (1970), dove è affidato alla donna il potere oppositivo della fantasia creatrice (seq. XXXI, inqq. 508-568 e seq. LXV ingq. 745-791); dalle due coppie Locke-Jenny e pseudoRobertson-ragazza di Professione: reporter (1975), provvisoriamente riunite davanti alla morte (di Locke) che la cinepresa non sa cogliere (seq. LXXXVIII, inq. 410, il celeberrimo pianosequenza prefinale del film) alla coppia Regina-Sebastian de Il mistero di OberwaU saldamente unita solo nella morte; dalle coppie instabili Niccolò-Mavi e Niccolò-Ida di Identificazione di una donna (1982), alle coppie plurime del recente Al di là delle nuvole. Ma, a parte il discorso complesso (e, in ogni caso, criticamente azzardato) sull'ultimo film dell'ormai 87enne maestro non è più sul rapporto di coppia che Antonioni dirige lo sguardo centrale della propria cinepresa, bensì sullo "sguardo" stesso. A partire dal mediometraggio del '65 - cui, proprio per questo, spetta una funzione di "ponte" verso il successivo cinema di Antonioni - il cineasta ferrarese ci narra (perfino in Chung kuo. Cina, 1972, bellissimo documentario su uno sguardo erratico che vede il mistero senza saperlo cogliere e ridandocene, dunque, tutta la sua affascinante impenetrabilità) le vicissitudini di un artista per cui "saper guardare" non è necessariamente, e sempre, un "saper vedere". Se Professione: reporter e l'indiscusso capolavoro del periodo, è forse Identificazione di una donna il film più sintomatico perché sigla, in un clima pieno di paura (v. seq. XXXIV inqq. 234-277) e di mistero (v. seqq. LXII-LXV ingq. 437-468), la rinuncia al verosimile nell'impossibilità del vero, la fuga dall'hic et nunc realistico. Piana descrizione di una realtà enigmatica, caratterizzata da imperscrutabili emergenze indiziarie, veri e propri significanti che non significano, Identificazione di una donna attua una catena evenemenziale accidentale, che rispecchia l'odierna superficialità comportamentistica e che il protagonista - un regista cinematografico, non dimentichiamolo - scruta, spia, e osserva senza riuscire ad individuarne la chiave. In una rinuncia alla sensatezza del mondo che, per un cineasta di formazione neorealistica, è l'ammissione di una cocente sconfitta:-la perdita definitiva dell'illusione che il cinema possa contribuire a modificare ciò che esso neppure riesce a capire. Solo nel futuro (v. il finale del film con la sua prospettiva "fantascientifica", seq. LXXII, inqq. 513 e sgg.) vi è forse la possibilità di un nuovo vedere che corrisponda anche a un nuovo vivere. Pure per la coppia, evidentemente.
Da Michelangelo Antonioni, I film, la critica 1943-1995:un'antologia, Bulzoni editore, Roma, 2002
Nasce a Ferrara il 29 settembre 1912 da una famiglia della media borghesia. Nell'infanzia si interessa di disegno e di musica: ritrae il padre e la madre, Charlot e Greta Garbo e, a nove anni, tiene il suo primo concerto come violinista. Frequenta il Ginnasio, ma i difficili rapporti con il preside lo spingono dopo tre anni a passare all'Istituto Tecnico. Dopo una prima esperienza avvenuta nella fanciullezza al teatro Novelli di Paullo, un paesino del Ravennate (riproduce il suono di un tuono facendo rotolare una grossa palla di marmo), a diciasette anni entra in una compagnia teatrale, Il Ludovico, che organizza riviste satiriche di beneficenza. Qui, grazie all'animatore della rivista, Angelo Aguiari, suonatore di banjo, attore e regista, sviluppa l'amore per il jazz e la passione per il teatro; quest'ultima lo porterà più tardi, durante gli studi universitari, a fondare una compagnia, con la quale, oltre a rappresentare Ibsen, Cechov e Pirandello, mette in scena una delle commedie da lui scritte: Il vento, di stampo pirandelliano. Il teatro gli offre sia l'opportunità di sperimentare le sue doti di disegnatore, nell'allestimento di alcune scenografie - che definisce «molto simboliche»' -, che quella di scoprire la vocazione e il gusto per la direzione degli attori.
Poco interessato alle materie di Economia e commercio, la facoltà cui si e iscritto a Bologna, Antonioni frequenta anche i corsi di Lettere e si laurea, nel 1935, con una tesi dal titolo I problemi di politica economica ne "I promessi sposi” : Gli anni dopo la laurea lo vedono impegnato in varie attività: inizia a occuparsi di critica cinematografica, curando per alcuni anni una rubrica per il «Corriere Padano»; con un gruppo di amici, tra i quali Lanfranco Caretti e Giorgio Bassani, dà poi vita a un cenacolo letterario. Nel 1939 si appresta a girare un cortometraggio sul manicomio di Ferarra, ma l'impresa fallisce perché l'accendersi dei riflettori provoca il panico negli ospiti del manicomio. A proposito di questo episodio, Antonioni afferma che «fu attorno a quella scena» - mai dimenticata - «che cominciammo a parlare, senza saperlo, di neorealismo».
Nel 1940, dopo aver rifiutato un impiego in banca a Ferrara, si trasferisce a Roma e inizia a lavorare come segretario di Vittorio Cini, nominato presidente dell'Esposizione Universale in programma per il '42. Assunto, poi, nella redazione della rivista «Cinema», viene quasi subito licenziato con un pretesto, a causa delle tensioni con il segretario del direttore, Vittorio Mussolini; in seguito, quando la rivista passa alla direzione di Pasinetti, riprende a collaborarvi e continua con Puccini e De Santis. In questo periodo, per guadagnare, scrive anche sceneggiature, senza firmarle. Nel 1941 frequenta per qualche mese il Centro Sperimentale di Cinematografia ma, richiamato alle armi, è costretto ad interrompere gli studi. Il servizio militare non gli impedisce di lavorare: scrive un soggetto, "La casa sul mare", su una famiglia di pescatori; partecipa alla stesura della sceneggiatura di Un pilota ritorna di Rossellini e, infine, collabora in qualità di sceneggiatore e aiuto regista con Enrico Fulchignoni - suo insegnante al Centro Sperimentale - a I due Foscari. Conosce così l'operatore Ubaldo Arata che, oltre a rivelarsi un prezioso maestro di fotografia, lo raccomanda caldamente a Scalera, il quale, poco dopo, lo ingaggia come co-regista di Carné per Les visiteurs du soir. Carné rifiuta la collaborazione, limitandosi a tollerarne la presenza sul set. La permanenza in Francia gli offre comunque l'opportunità di leggere L’etranger di Camus, appena uscito, che lo folgora, inducendolo a scrivere una recensione su «Il Cosmopolita». Lo scadere della licenza non gli permette di accettare le proposte di collaborazione con Cocteau e Grémillon.
Rientrato in Italia, grazie al sostegno del dirigente sezione documentari dell'Istituto Luce, Minoccheri, nel 1943 Antonioni inizia le riprese di un documentario, Gente del Po. Gli avvenimenti politici conseguenti all'8 settembre del '43, lo costringono a interrompere il montaggio del film, che viene sequestrato dai repubblichini. Per sfuggire alle retate dei tedeschi, si rifugia prima a casa dell'amico Antonio Pie
trangeli, sulle montagne abbruzzesi e, poi, tornato clandestinamente a Roma, a casa di Francesco Pasinetti, assieme a Giorgio Bassani. Tra il '44 e il '45, traduce Chateaubriand (Mala), Paul Morand (Monsieur Zéro) e Gide (La porte étroite); partecipa, inoltre, alla stesura di due sceneggiature per Visconti, entrambe non realizzate, la prima - "Furore" - con De Santis, Puccini e Vasco Pratolini, la seconda - "Il processo di Maria Tarnowska" - con Piovene e Pietrangeli.
Finita la guerra, Antonioni collabora a varie riviste cinematografiche; recensisce tra gli altri La terra trema di Visconti, Ivan il terribile di Ejzenstejn e Enrico V di Olivier. Nel 1947 finalmente recupera e monta parte del materiale (solo trecento su seicento metri di pellicola) di Gente del Po. L'anno successivo, oltre a realizzare il secondo documentario, N. U. (Nettezza Urbana), collabora alla sceneggiatura di Caccia tragica, esordio nella regia dell'amico Peppe De Santis. Nel 1949 gira altri tre documentari: L'amorosa menzogna, Superstizione e Sette canne e un vestito. Torna poi al mondo dei fumetti, trattato ne Lâmorosa menzogna, con il soggetto per un lungometraggio che vorrebbe girare con la collaborazione di Fellini e Pinelli, Lo sceicco bianco. In attesa di una risposta da parte di Ponti, si reca a Bomarzo per le riprese de La villa dei mostri. Al suo ritorno, cede il soggetto de Lo sceicco bianco a Ponti. Lo realizzerà due anni dopo Fellini.
Con La funivia del faloria, del 1950, si conclude il periodo dei documentari. Nello stesso anno realizza Cronaca di un amore , il primo lungometraggio. Sono due persone conosciute per caso, Daniele D'Anza e Gino Rossi, a presentarlo a Franco Villani che decide di finanziare parte del film anche se il soggetto non gli piace. Per il resto del finanziamento necessario Antonioni chiede aiuto a Marco Ferreri il quale, sulla parola di un amico che promette di partecipare alla produzione, anticipa il denaro firmando cambiali per cinquanta milioni; a riprese iniziate, scaduta la prima cambiale, l'amico rivela a Ferreri di aver scherzato. Il film rischia di saltare ma si trova un altro produttore, Stefano Caretta. Cronaca di un amore non ha molta fortuna: rifiutato al Festival di Venezia, si impone all'attenzione di pubblico e di critica ma non riscuote gran successo, anche perché, a causa del fallimento della Fincine, rimane nel circuito commerciale solo per pochi mesi.
Due anni dopo, nel 1952, la Film Costellazione di Diego Fabbri gli propone di dirigere un film sulla cosiddetta gioventù bruciata. Inizialmente non comprende le intenzioni moralistiche e pedagogiche dei produttori e, traendoli da eventi realmente accaduti, scrive i tre episodi che avrebbero dovuto comporre I vinti. Gli ostacoli posti da produzione e censure italiana e francese - per le quali sarebbero troppo evidenti i riferimenti politici e poco evidenziata la morale - costringono l'autore a continui tagli e rimaneggiamenti che faranno del film un'opera incompleta e assolutamente lontana dal progetto iniziale, eccetto l'episodio inlese per il tono della narrazione e per il suo -grigio, laico pessimismo. Terminate le riprese de I vinti, Antonioni intraprende subito quelle de La signora senza camelie. Anche in questo caso le circostanze non favoriscono l'autore. Gina Lollobrigida, scelta per il ruolo della protagonista, si ritira dopo aver firmato il contratto; Sofia ScICOIone, allora solo una comparsa di Cinecittà, ancora sconosciuta, viene scartata dalla produzione. Lucia Bosé, sulla quale si ripiega, appare fisicamente inadatta al ruolo. All'uscita nelle sale verrà da molti sottovalutata la rivoluzione linguistica che il film apporta.
Nel 1953, con Tentato suicidio, partecipa all'esperienza di Amore in città, il film inchiesta in cui si è tentato di applicare rigorosamente le teorie zavattimane del "pedinamento", primo e ultimo numero della rivista cinematografica «Lo spettatore», diretta da Zavattini, Ghione e Ferreri. Nella sua inchiesta, Antonioni estremizza le soluzioni zavattiniane e ricostruisce gli eventi nei luoghi dove si sono svolti, avvalendosi degli stessi protagonisti dei fatti raccontati.
I due anni che seguono sono segnati da continui contrasti con le produzioni che gli rifiutano le sue proposte - tra le quali Il grido - e affidano ad altri la regia di progetti da lui ambiti, come La donna più bella del mondo, Peccato che sia una canaglia e La diga sul pacifico. Nel 1954 si separa dalla moglie, Letizia Balboi, cognata di Pasinetti, dopo 14 anni di matrimonio.
Accolto favorevolmente dalla giuria della mostra di Venezia, dalla critica e dal pubblico, anche Le amiche, libero adattamento del racconto di Pavese Tra donne sole, giunge a conclusione, nel 1955, solo in seguito al superamento di inconvenienti di natura finanziaria. Infatti, iniziate le riprese con il finanziamento dell'amico produttore Franco Cancellieri, Antonioni deve ben presto interromperle per mancanza di fondi e aspettare tre mesi prima di poterle riprendere, quando il progetto passa a Giovanni Adessi della Trionfalcine.
Nel 1956, dopo aver scritto la sceneggiatura con De Concini, Bartolini e Sonego, realizza Il grido. Accolto glacialmente dal pubblico e duramente attaccato da parte della critica, anche a sinistra, in Italia, il film viene in compenso acclamato da molta critica straniera, soprattutto quella francese; Jean Astruc qualche anno più tardi lo definisce un capolavoro. Durante il doppiaggio de Il grido, Antonioni conosce Monica Vitti che, oltre ad interpretare i film della "tetralogia dei sentimenti" e più tardi Il mistero di Oberwald, sarà la sua compagna per otto anni. In questo periodo, il regista forma con Giancarlo Sbragia, Monica Vitti, Marisa Pizzardi, Vera Pescarolo, Virna Lisi, Anna Nogara e Nino Dal Fabbro una compagnia teatrale che, tra le altre, mette in scena al Teatro Eliseo di Roma Scandali segreti, una pièce scritta da Antonioni con Elio Bartolini sulla base di un soggetto cinematografico e diretta dall'autore stesso. Difficoltà finanziare impongono lo scioglimento della compagnia. Antonioni si dichiara comunque non completamente soddisfatto dell'esperienza teatrale: il teatro lo limita, permettendogli «un solo taglio di inquadratura, un "totale", senza alcuna possibilità di sfruttare appieno le espressioni di un attore».
Pur reduce dall'insuccesso de Il grido, non cede alle sollecitazioni dei produttori che lo invitano a realizzare opere più commerciali. Accetta piuttosto, di dirigere, senza firmare, la seconda unità de La tempesta di Lattuada e di sostituire Brignone sul set di Nel segno di Roma. Durante una crociera in yacht, dopo aver assistito alle vane ricerche di una ragazza scomparsa, elabora il soggetto de L’avventura, che non incontra il favore dei produttori ai quali non piace l'assenza di soluzione in un film strutturato come un giallo. Gino Rossi, l'organizzatore di Cronaca di un amore, riesce a coinvolgere nel progetto una società siciliana, la Imera Film; il produttore si defila però dopo poche settimane dall'inizio delle riprese, lasciando la troupe bloccata, senza denaro né viveri, sullo scoglio di Lisca Bianca, nelle Eolie. Anche gli operai tornano a Roma. Antonioni rimane solo con gli attori, l'operatore e l'aiuto. La situazione si risolve quando una società parigina, la Cino Del Duca, in seguito al successo de Il grido, appena uscito in Francia, si fa avanti per finanziare il film. Presentato a Cannes nel 1960, L’avventura riceve il premio speciale della Giuria, il Premio FIPRESCI e quello della giovane critica internazionale. Inoltre, numerosi intellettuali, tra i quali Bazin, omaggiano Antonioni con un'attestazione di solidarietà. Distribuito in Francia subito dopo Cannes, ottiene un successo incontrastato che porta all'autore fama e riconoscimenti internazionali.
La fortuna commerciale de L’avventura permette ad Antonioni di iniziare le riprese de La notte, rielaborazione di un soggetto scritto precedentemente, "Baldoria". Il ruolo femminile è affidato a Jean Moreau, conosciuta durante la lavorazione de I vinti, con la quale, da allora, si era ripromesso di fare un film. Per l'attrice francese le riprese sono talmente dure e l'esperienza così «divorante», da impedirle, anche successivamente, la visione della pellicola.
Nel 1962 Antonioni filma a Firenze un'eclissi di sole; le impressioni che ne trae stanno alla base de L'eclisse. Incuriosito dall'ambiente della Borsa, decide di frequentarlo per un periodo e, trovandolo «straordinario anche visivamente», vi ambienta il film. Il regista costringe poi anche Delon a passare un certo periodo in Borsa, affinché assimili le movenze e le caratteristiche di un agente di cambio e, per le riprese, si avvale di veri agenti, operatori e banchieri. Sia pubblico che critica riservano al film un'accoglienza contrastante; tra le opere della maturità dell'autore L’eclisse è forse quello che incassa di meno, anche se ha un successo sorprendente in Giappone.
Lunghi e meticolosi studi sul colore precedono le riprese de Il deserto rosso, che hanno inizio nell'ottobre del 1963. Se da una parte il colore costringe l'autore a modificare la tecnica, dall'altra risponde a un bisogno di cambiamento che egli sente da tempo. Ad Antonioni non interessa il colore in sé, quanto un suo uso espressivo: «"Deserto", forse perché non ci sono più molte oasi. "Rosso", perché è il colore del sangue. Il deserto sanguinante, vivente, pieno della carne degli uomini», dirà a proposito del titolo.
Nel 1965 partecipa, con la Prefazione, al film a episodi I tre volti, operazione commerciale voluta da Dino De Laurentiis per il lancio di Soraya, ex imperatrice di Persia. Antonioni, differenziandosi dagli altri registi, usa un tono da ricostruzione e torna al discorso sulla "macchina cinema" intrapreso con La signora senza camelie.
La lettura del racconto di Julio Cortazar La bava del diavolo, gli ispira il soggetto di Blowup che decide di ambientare a Londra, ritenendo che in Italia non esistano personaggi come quello del protagonista, Thomas. Le riprese si svolgono dall'aprile all'agosto del 1966, con una troupe interamente inglese, eccetto il direttore della fotografia e il capo elettricista. Per lo studio del protagonista, Antonioni prende in prestito quello del fotografo John Cowan. La crisi del personaggio rispecchia - come lui stesso afferma - la crisi dell'autore che si sente «diverso da prima, proprio nel modo di stare di fronte alla realtà». Premiato con la Palma d'oro a Cannes, accolto con successo nei paesi di lingua inglese, in Italia Blowup è al quinto posto nella graduatoria degli incassi stagionali.
Sulla scia del successo ottenuto in Giappone a partire da L’eclisse, Ponti propone ad Antonioni di compiere un viaggio a Tokyo per girarvi un film. Prima dello scalo a Tokyo l'autore soggiorna negli Stati Uniti, che lo colpiscono al punto di fermavisi ancora al suo ritorno. Trova che essi siano, in quel momento, uno dei paesi maggiormente rappresentativi delle contraddizioni contemporanee. Prendendo spunto da un fatto di cronaca, la storia di un hippy volato via con un piccolo aeroplano preso in prestito e dipinto con fiori e slogan sull'amore e la pace, Antonioni elabora la sceneggiatura di Zabriskie Point. Realizzato dalla Metro Goldwyn Mayer che ne copre i costi esorbitanti, il film in America, accusato di antiamericanismo, è un insuccesso commerciale.
Dopo il fallimento produttivo di "Tecnicamente dolce", un progetto del 1966 da cui Ponti si ritira prima dell'inizio delle riprese, previsto per il 1971, Antonioni accetta la proposta della RAi-tv di girare un documentario sulla Cina. Si intitolerà Chung Kuo. Cina. I funzionari della televisione cinese gli impongono però dei compromessi che limitano la sua creatività: deve concordare con loro le tappe del suo itinerario e terminare le riprese in sei settimane. Dopo un anno dalla presentazione alla televisione italiana, nel gennaio del 1973, un quotidiano di Pechino accusa Antonioni di essere «un reazionario e un controrivoluzionario», mentre il governo cinese impedisce la circolazione del film in diversi paesi, tra i quali Francia, Svezia, Grecia e Malesia.
Al posto di "Tecnicamente dolce", Ponti gli offre, nel 1973, Professione: reporter, scritto da Mark People (che avrebbe voluto dirigerlo personalmente, ma è rifiutato dalla produzione). Le riprese, che si svolgono a Londra, Monaco, Barcellona, Almeria, Malaga e nell'oasi di Jannet (a sud di Algeri) comportano molti problemi, tra i quali il caldo torrido e gli impegni di Jack Nicholson in altri set; ma la limitazione più grave che egli avverte, anche a distanza di tempo, è il taglio di dieci minuti impostogli dalla Metro.
Dopo questo film, passano cinque anni prima che possa tornare a girare; le offerte dei produttori, come Addio alle armi di Hemingway o Il comunista di Morselli, non lo interessano, mentre le sue proposte, "Patire o morire", "Gelosia" e "L'aquilone", incontrano difficoltà ad essere prodotte. Per il primo dei tre soggetti, il diario di una monaca di clausura, è d'accordo con Gianni Bozzacchi e Valerio De Paolis della Compagnia Europea Cinematografica; vengono contattati prima Robert De Niro e poi Giancarlo Giannini per il ruolo del protagonista ma, prima dell'inizio delle riprese, nel 1978, i finanziatori americani si ritirano. La sceneggiatura di Gelosia, tratta da un racconto di Italo Calvino, Il guidatore notturno, non soddisfa invece Antonioni, che decide di non realizzarla, salvo poi rielaborarla qualche anno più tardi, introducendovi elementi da Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Il terzo soggetto, L'aquilone, è una favola fantascientifica - pubblicata nel 1982 dall'editore Maggioli di Rimini - per la cui ambientazione Antonioni sceglie la Russia, ma ben presto si rende conto di non poter disporre dei mezzi necessari a realizzare gli effetti speciali e abbandona il progetto. È in questo periodo di lontananza dai set che dipinge le prime Montagne incantate e pubblica numerosi racconti sul «Corriere della Sera».
Il mistero di Oberwald nasce dalla proposta di Monica Vitti di realizzare per la televisione un dramma di Cocteau, La voce umana. Attratto dalla possibilità offerta dall'elettronica di cambiare la realtà senza intervenire su di essa, Antonioni accetta, suggerendo però un altro testo di Cocteau, allo scopo di evitare il confronto con Rossellini, che aveva adattato La voce umana per il cinema già nel 1948. La scelta cade su L'aquila a due teste. Le riprese durano circa due mesi, il riversamento dal nastro magnetico alla pellicola richiede invece ben più tempo: è il primo lungometraggio al mondo interamente girato con telecamere e riversato su pellicola; se ne occupa la Image Transform di Los Angeles. A Venezia, nel 1980, viene accolto con molte riserve.
Durante l'estate del 1980 scrive un racconto che, rielaborato assieme a Gérard Brach, diventa la sceneggiatura di Identificazione di una donna. A produrlo sarà Giorgio Nocella della Iter Film, il quale impone però che si facciano economie. A questo scopo vengono scelte come protagoniste due attrici fino ad allora sconosciute, Daniela Silverio e Christine Boisson. In questa occasione, per la prima volta, l'autore esegue il montaggio da solo. Esce nel 1982.
Successivamente Antonioni lavora a due progetti. Il primo, su San Francesco, commissionatogli dall'ordine dei francescani, che vogliono «un film sull'uomo», rimane in sospeso. Il secondo, "La ciurma", scritto assieme a Mark Peploe, ha per soggetto la storia di un uomo scomparso in mare, sul proprio yacht, suggeritagli da un fatto di cronaca. Antonioni, incuriosito da quella sparizione, scrive anche un racconto Quattro uomini in mare, pubblicato sul «Corriere della Sera», in cui fornisce una personale interpretazione di quel mistero. "La ciurma" piace ai produttori americani, i quali però rinviano continuamente il momento delle riprese. In attesa di una loro risposta, gira uno spot pubblicitario per la Renault, Renault 9 e, su proposta di Enrico Ghezzi e Michele Mancini, il corto Ritorno a Lisca Bianca, ricognizione sui luoghi de L'avventura. Contemporaneamente si dedica alla scrittura e alla pittura; nel maggio del pubblica presso Einaudi Quel bowling sul Tevere, una raccolta di racconti, mentre, nel settembre dello stesso anno, al museo Correr di Venezia viene allestita una mostra di circa cento dei suoi quadri, cui dà il titolo di Montagne incantate. Nel 1984 è
Mentre è impegnato con Rudi Wurlitzer nella riduzione per lo schermo di un altro dei suoi racconti, Due telegrammi, viene colpito da ictus cerebrale. È il 1985. Pur leso nelle facoltà di muoversi e di parlare, già dopo pochi mesi riprende a lavorare al progetto de "La ciurma", affidandosi alla compagna Enrica Fico, che sposerà di li a poco, e ai suoi fedeli collaboratori. Vittorio Giacci dell'Ente Gestione Cinema si propone di trovare dei co-produttori americani che possano sostenere gli ingenti costi del film; Martin Scorsese si offre di affiancarlo nella regia. Le trattative vanno però per le lunghe e il film è rinviato. Nel 1989, nell'ambito del Progetto Antonioni - ideato nel 1986 dall'Ente Gestione Cinema e coordinato da Carlo di Carlo - realizza il corto Kumha Mela, montando il materiale girato con mezzi di fortuna in India, nel 1977, per documentare la festa religiosa che da il titolo al documentario. Nel 1990, con l'amico operatore Carlo
Di Palma, realizza Roma, prendendo parte al progetto 12 autori 12 città, promosso dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo in occasione dei mondiali di calcio. Due anni dopo, L'Enel gli commissiona per l'Expo di Siviglia un corto sulla Sicilia; sarà Noto, Mandorli, Vulcano, Stromboli, Carnevale.
Dopo vari contatti con Antonioni, iniziati sin dal 1987, il regista tedesco Wim Wenders accetta di dirigere con lui Al di là delle nuvole, tratto da quattro racconti della raccolta Quel bowling sul Tevere. È lo stesso Antonioni ad effettuare i sopralluoghi e la scelta degli attori; segue le riprese dai due monitor di controllo, assieme all'assistente Enrica Fico, la quale gira contemporaneamente, in collaborazione con Agnes Godard, un documentario sul set. Per quanto sia difficile individuare nelle riprese del film la mano di Antonioni, se ne riconosce ancora la sensibilità dello sguardo, mirabile nel cogliere paesaggi geografici e umani.
In seguito rielabora un altro dei suoi racconti, I due telegrammi, e ne fa la sceneggiatura per un film che dovrebbe intitolarsi Tanto per stare insieme, per il quale sia Jack Nicholson che Atom Egoyan si offrono di fare da assistenti, ma le cui riprese vengono ancora una volta annullate. Nel 1998 gira uno spot per la Regione Sicilia, interpretato da Maria Grazia Cucinotta, con la fotografia di Maurizio Dall'Orco e le musiche di Lucio Dalla.
Da un racconto di fantascienza di Jack Finney, trae assieme a Tonino Guerra e a Mark Peploe la sceneggiatura di Destinazione Terra. Il progetto prevede il finanziamento dello stesso Antonioni assieme a Enrica Fico e a Felice Laudadio, in coproduzione con Le Studio Canal Plus. Ad interpretarlo sono chiamate Naomi Campbell, Chiara Caselli e Sophia Loren. Il film si dovrebbe girare nel 2000, ma quando è tutto pronto per le riprese, Antonioni decide di non farlo.
Dirige invece, nel 2001, Il filo pericoloso delle cose - il titolo è provvisorio -, il primo dei tre episodi previsti per Eros, ancora tratto da Quel bowling sul Tevere. Gli interpreti sono Christopher Buchholz, Luisa Ranieri e Regina Nemni. Gli altri due episodi dovrebbero essere girati da Wong Kar-way e da Pedro Almodóvar. L'uscita del film è prevista per la fine del 2002.
Da Michelangelo Antonioni, I film, la critica 1943-1995:un’antologia, Bulzoni editore, Roma, 2002
Ho detto più volte che Michelangelo Antonioni è sempre a un metro sopra la realtà. E ora che non c'è più e se n'è andato nella luce di uno dei suoi silenzi, nello stesso giorno della scomparsa di un altro maestro, Ingmar Bergman, questa mia frase è ancora più vera. Le immagini che ci ha regalato con le sue storie sono incancellabili, come la lezione di cinema che ha impartito a tanti altri registi. Antonioni è stato un grande inventore di modi di usare la macchina da presa. E poi... come si fa a dire che ha regalato tristezza al mondo? Quando io e lui pensavamo a delle storie lo facevamo sempre giocando. Tutto veniva con allegria. Antonioni è l'unico regista nel dopoguerra che ha pensato di illuminare la borghesia con l'eleganza delle sue attrici. E della borghesia ha raccontato il disagio esistenziale, la malattia dei suoi sentimenti, e l'alienazione come nessun altro. Ho lavorato come sceneggiatore con lui in dodici film. Quali hanno soddisfatto maggiormente il pubblico del mondo? Ne dico due a caso, «L'avventura» e «Blow up». Il perché è difficile da spiegare. Sapere perché la gente si innamora di un film è come indovinare perché un uomo si innamora di una donna, ma certo lui aveva un sapere universale e un occhio che era più in alto dei campanili delle nostre città. Penso anche, in questo momento, al contributo che ha dato al cinema, come l'uso del piano sequenza, il modo di impiegare le luci, gli insegnamenti che ha offerto agli operatori... i suoi insegnamenti sono stati sempre di una eleganza gradevole e piena di sostanza magica. Ricordo i nostri viaggi, come quelli in America per preparare le riprese di «Zabriskie Point». Li ricordo perché il suo modo di incontrare la natura e i luoghi per impostare un film erano sempre molto coraggiosi. Un giorno ci trovavamo in un albergo isolato in un deserto, mangiavamo, eravamo soli in una stanza bassa, quando improvvisamente, per rendergli omaggio, comparve una orchestrina che intonò forse l'unica canzone italiana che conosceva, «'O sole mio». Il saluto a un maestro fatto all'italiana. E ricordo i nostri giorni a Londra per «Blow up», quando Antonioni carpì subito i cambiamenti del costume in una città già piena di fotografi in cerca di successo, mentre esplodeva la moda della minigonna di Mary Quant al ritmo di una musica nuova, quella dei Beatles. Anche in quel caso il suo fu uno sguardo profondo e limpido sul mondo che stava cambiando. Eleganza gradevole e piena di sostanza magica.
Da Il Mattino, 1 agosto 2007