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Polanski colpisce ancora. Con il minimo sindacale ( 4 attori e una stanza) riesce ad elaborare un film dove ogni personaggio, incarnando quotidiane frustrazioni, innesca la quinta essenza della dialettica: esasperandola. Una “carneficina” verbale tra ceti sociali diversi ma uniti dall’umana voglia di prevale, sempre e comunque, l’uno sull’altro. In questo il film ha del maestoso. Far capire senza dire; trasudare voglia di aggredire ma contenersi nel contempo; accettare giudizi senza condividerli; in un alternarsi tra falsi sorrisi e frasi di circostanza . Ma soprattutto un film intriso di nostra “ordinaria” quotidianità che riflette quella pletora di vincoli posti da quelle “catene” sociali che spesso (ci) impediscono di dire ciò che realmente pensiamo. Catene sociali dure ma fragili , corrose e spezzate via da un po’ di alcol che basta per scoprire quel vello d’oro di falsità, sfociando in un finale dove le verità represse vengono “vomitate” in un flusso continuo di accuse profuse senza più freni inibitori. Una caduta dei veli dell’ipocrisia con il “re nudo” è decisamente il degno finale di un film sempre sopra le righe. Da non sottovalutare il quinto subdolo protagonista della vicenda : la stanza. Le mura amiche ed estranee nel contempo ( secondo la coppia di riferimento) che come potente cassa di risonanza svolgono la funzione di amplificare l’animosità dei dialoghi ,in una convivenza quasi coatta, vincolata da uno spazio limitato, che sembra legare ancora più i quattro protagonisti. Il potente collante del “io ho ragione tu torto” fa il resto. Ovviamente film da non perdere .
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