Sergio Leone è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 3 gennaio 1929 a Roma (Italia) ed è morto il 30 aprile 1989 all'età di 60 anni a Roma (Italia).
Esordisce nel cinema lavorando come assistente volontario e comparsa, fra l'altro, in Ladri di biciclette (1948) di De Sica. In seguito, è a lungo aiuto regista di Mario Bonnard: nel '59, essendo quest'ultimo ammalato, lo sostituisce sul set de Gli ultimi giorni di Pompei per completarne le riprese. Dopo aver fatto l'aiuto regia del Ben Hur (1959) di William Wyler e diretto la seconda unità in Sodoma e Gomorra (1961) di Robert Aldrich, egli licenzia infine col mitologico Il colosso di Rodi (1961) il primo lungometraggio tutto suo. È del 1964, tuttavia, il film che lo imporrà all'attenzione generale: Per un pugno di dollari, firmato con lo pseudonimo di Bob Robertson in omaggio al padre, indica una convincente via al western autarchico lungo i sentieri d'una narrazione barocca e survoltata, roboante ed iperviolenta (pur sulla base d'uno spunto non originale, mutuato con evidenza da "La sfida del samurai" di Akira Kurosawa). I successivi Per qualche dollaro in più (1965) ed Il buono, il brutto, il cattivo (1966) completano quella che verrà definita la "trilogia del dollaro", incassano cifre enormi, ripropongono una formula vincente: aggressiva ed accattivante colonna sonora di Ennio Morricone, interpretazioni sornione e grintose di Clint Eastwood (ma anche degli ottimi Gian Maria Volonté e Lee Van Cleef), cui s'aggiunge - a livello stilistico - una iperbolica dilatazione dei tempi narrativi che diventa, a tratti, paradossale ieraticità del gesto. C'era una volta il West (1968) conferma ed infrange nello stesso tempo gli schemi di cui sopra, inscenando la fine del West e del mito della Frontiera: l'icona Henry Fonda assume per l'occasione i tratti d'un assassino feroce ed inesorabile, il ligneo profilo di Charles Bronson gli si contrapppone in una cupa vicenda di vendetta e di morte, diretta con mano maestra da un autore ormai giunto alla piena maturità. Se il successivo Giù la testa (1971), colorito e movimentato pot pourri sulla rivoluzione ambientato nel Messico di Villa e Zapata, ristagna un po' fra manierismo e ritualità, è con C'era un volta in America (1984) che il cineasta romano dà vita al suo indiscusso capolavoro. Frutto d'una lunghissima gestazione, il film colloca negli anni ruggenti del proibizionismo una storia di gangster ed amicizia che si dipana per quasi quattro ore tra piombo&sangue alla Damon Runyon ed intenerite parentesi di fitzgeraldiano struggimento, il tutto all'insegna di un'acuta cognizione della memoria di sapore proustiano: con il contributo di attori mirabili (De Niro è il più citato, ma James Woods gli tiene testa benissimo) e del commento sonoro indimenticabile di Ennio Morricone, all'insegna d'un senso dell'immagine a dir poco stregante. La parabola artistica di Leone si conclude qui: un infarto lo stronca nella sua casa romana il 30 aprile 1989, mentre è alla prese con il laborioso progetto d'un film incentrato sull'assedio tedesco di Leningrado.
Gli intellettuali lo snobbavano, ma Sergio Leone con i suoi western aveva inventato un genere di tutto rispetto utilizzando talenti come Clint Eastwood e Claudia Cardinale. Moriva il 30 aprile di vent'anni fa.
Quando finisce la musica, spara, se ti riesce», sghignazzava il depravato assassino Gian Maria Volonté. Ma adesso ha paura. Il carillon dell'orologio pendulo allaga a poco a poco lo schermo. Ed è velocissimo il revolver vendicatore del colonnello Lee Van Cleef «Bravo», sussurra Clint Eastwood, arbitro del duello, con la serena voce italiana di Enrico Maria Salerno. Musica alta di Ennio Morricone. Scena indimenticabile, come tante altre, nel cinema di Sergio Leone. Scene snobbate dagli amanti dei silenzi enigmatici di Bergman/Antonioni e del vetusto Ejzenstejn, prima che Fantozzi affondasse la corazzata Potémkin.
«Western spaghetti», chiamavano i film di Leone, quando era ancora in voga il vezzo (soprattutto anglosassone) di sfottere la gente per quel che mangiava. l francesi erano "rane", i tedeschi "crauti", eccetera. Com'era l'umorismo britannico? Alimentare, Watson. Ormai, a Londra, quasi tutti mangiano spaghetti e (per colpa della mucca pazza?) trascurano la squisita steak&kidney pie. I giudizi e le mode cambiano, per fortuna. Clint Eastwood, quando recitava nella "trilogia del dollaro", era sottovalutato più di Berlusconi, quando "scese in politica". Di lui (di Clint, mica di Silvio) si diceva che avesse soltanto due espressioni: una con il cappello e una senza. Però quell'impassibilità era stupenda, quando incassava i colpi di fucile, protetto da una gualdrappa di ferro nascosta sotto il poncho. Però oggi nessuno dubita della genialità dell'uomo inespressivo, che è diventato un grande regista e perfino un compositore di musiche affascinanti.
Spaghetti? Basta ricordare i cast, le coproduzioni, gli ascendenti (Kurosawa) e i discendenti (Peckinpah), per accorgersi che Sergio Leone ha costruito nel suo West un linguaggio cinematografico internazionale, esaltando superstar come Henry Fonda e Claudia Cardinale,maanche valorizzando talenti periferici, declinanti o poco presenti sui grandi schermi. Stelle (allora) remote come Clint Eastwood, o (relativamente) trascurate come Lee Van Cleef, Klaus Kinski, Eli Wallach. E ravvivando, oltretutto, il fuoco di unbivacco (il western, appunto) che sembrava quasi spento.
Quando Sergio Leone gira (1964) il suo Per un pugno di dollari, il genere cinematografico dei cowboy e del settimo cavalleggeri è in crisi. Gli indiani (o pellerossa) che fino a ieri erano nemici da sottomettere, sono passati dalla parte della ragione: la correttezza politica deve descriverli (anche) come vittime. Lo farà nel 1970, con Soldato blu e con ll piccologrande uomo. Ma negli anni Sessanta i produttori e gli spettatori americani sono ancora perplessi. Da una parte, il dovere di rispettare gli autoctoni impoverisce le sceneggiature. Dall'altra (c'è la guerra in Vietnam) non sembra prudente iniettare rimorsi nel pubblico. Rimarrebbero le avventure delle stelle di latta, ma non è facile aggiornarle senza inzupparle di psicologismi e /o di politicismi con il grave rischio di scivolare nel genere Godard, indigesto per le masse.
Poi le (giuste) ambizioni del regista s'allargano. Altro che spaghetti. L'epopea di C'era una volta il West è un documento del cinema senza nazionalità, senza confini. Nei film, come nei romanzi, come nelle stagioni forti della politica, contano soprattutto le immagini, le frasi, le emozioni che ci scuotono e che ci rimangono nel cervello. Sergio Leone possedeva l'arte di colpirti in petto, e di non farti dimenticare una scena, un racconto, una faccia di Gabriele Ferzetti, una sequenza con Jason Robards, Charles Bronson, James Coburn, Rod Steiger.
Spaghetti? Nell'ultimo capolavoro di Sergio Leone (C'era una volta inAmerica,1984) il protagonista, Robert De Niro, haun soprannome che allude alla pasta: Noodles. Il film sbandiera molte vite sbagliate o criminali e, soprattutto, un'amicizia tradita. Voglio rivedere questo spettacolo, ogni volta che lo ripropongono in tv. È una storia piena di trabocchetti, di prepotenze e di traguardi angosciosi. Ma quando la ricordo, che cosa mi torna in mente? Tre scene, soprattutto. L'attrice che si è venduta e che si strucca davanti allo specchio, compiangendo se stessa. Il delinquente (James Woods) diventato molto rispettabile e senatore che desidera la morte e che, infatti, finisce volontariamente triturato dentro un camion della spazzatura (evviva!). E il sorriso tremendo di Robert De Niro, inebetito dall'oppio. Figure che non svaniscono dalla memoria. Questa è la forza del cinema, baby. E questa era la forza di Sergio Leone. L'ho incontrato una sola volta, in un circolo sportivo. Mi sembravatriste e come abbandonato. Non ci conoscevamo e mi disse ciao, chissà perché.
Da Corriere della Sera Magazine, 30 aprile 2009
«My name is Bob Robertson. I make westerns». Parafrasando John Ford, potrebbe essere la frase di presentazione ili Sergio Leone. Roberto, figlio di Roberto, "Bob Robertson": questo, come tutti sanno, il nome d'arte che il giovane Sergio scelse per firmare i suoi primi western-spaghetti. E Roberto Roberti, questo non tutti lo sanno, era appunto il nome d'arte del padre, regista dei mitici anni del cinema muto.
Allora, per far uscire dall'ingiusto oblio cotanto padre, cominciamo questa carrellata sui film di Leone reperibili in dvd (praticamente tutti) parlando di un'opera che in dvd, almeno per il momento, non c'è più. Un'opera meravigliosa, presentata alle Giornate del cinema muto di Pordenone di qualche anno fa: Napoli che canta, immagini del capoluogo partenopeo e di un'intatta Costiera Amalfitana girate negli anni 20, destinate agli occhi inondati di nostalgia dei nostri emigrati in terra d'America. Il dvd era nel catalogo della Sony, accompagnato da una struggente serie di melodie napoletane interpretate da Giuni Russo.
Cara Sony, rimettendolo in vendita puoi offrire due omaggi in un colpo solo: alla povera e bravissima Giuni, nel frattempo scomparsa; e al padre di Sergio, così che anche il pubblico "normale" possa avere l'occasione di conoscerlo.
Il giovane Leone nasce, respira, mangia, beve con il cinema (anche la mamma era un'attrice, Bice Valerian, nome vero Edvige Valcarenghi). Il suo campo d'allenamento è costituito da un genere molto in voga negli anni 50, il cosiddetto "peplum": per questi "filmoni" in costume scrive diverse sceneggiature, fino ad arrivare alla prima regia, subentrando nel 1959 a Mario Bonnard per completare Gli ultimi giorni di Pompei e, finalmente, nel 1961, tutto solo dietro la macchina da presa per Il colosso ri Rodi.
Archeologia, di fatto. Impossibile, assolutamente impossibile spiegare ai ragazzi d'oggi che cosa significavano quei film per il pubblico del tempo. Atmosfere proibite (ma, oh scandalo!, ammesse nei cinemini dell'oratorio), passioni e veli impudichi, sguardi assassini, "curve" intraviste sotto le tuniche. E poi spettacoli kolossal, battaglie navali (in piscina) e muri di cartapesta,bicipiti da Mister Universo e duelli che non lasciano scampo: la pacchia del cinema baraccone, filo diretto del muto di cui, anagraficamente, Sergio era davvero figlio. Ma i cofanetti patinati che tutto offrono si sono sbizzarriti soprattutto con il Leone figlio del West. Gli infiniti tempi lunghi della "Trilogia del dollaro", le musiche di Ennio Morricone, il felice incontro d9 attori italiani (primo fra tut' Gian Maria Volonté) e star d'oltreoceano (primo fra tutti Clint Eastwood, fino a quel momento praticamente sconosciuto, e dici poco...). Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo. br/ >
I puristi, gli amanti del "vero" western, storcevano il naso: come ammettere quelle attese estenuate, quegli improvvisi scoppi di brutale violenza? Ma lui aveva capito in anticipo che il mondo classico era alla fine: geniale "ellenista", giocava e ricamava con il genere, cantando, a modo suo, la fine del mito.
Un mito che si chiamava America: e negli Stati Uniti, dopo aver girato i western precedenti perlopiù in Spagna, Leone approda„ per appunto, con C'era una volta il West. La Monument Valley di Ford, finalmente, insieme a scenari un po' più caserecci, e poi Giù la testa.
Tutti film che le tv propongono a ogni piè sospinto, ma che trovano nel dvd una nuova giovinezza: perché, con gli schermi casalinghi sempre più grandi, si riesce in gran parte a ricreare la magia delle immense sale per le quali erano stati concepiti.
La tecnica salva Leone: il film da oratorio e da matinée ritorna al suo fascino originario. Copie restaurate e rimasterizzate, audio avvolgente, spettacolo totale. Come quello di C'era una volta in America, ultimo lavoro e definitivo omaggio ai territori dei suoi miti.
Da Il Corriere della sera, 19 aprile 2009
A vent'anni dalla morte, la figlia Raffaella racconta il grande regista: presentissimo in
Famiglia e un po' 'tirannico, come sul set. Con leggendarie perfidie. Come quel giorno che lasciò la moglie in balia di un altro leone.
«Dopo la scomparsa di papà, c'è voluto molto tempo prima che potessi rivedere C'era una volta in America: di tutti i suoi film, è quello che lo rispecchia di più» racconta Raffaella Leone che ha gli stessi occhi verdi, brillanti, del titanico Sergio. Dei tre figli, due hanno seguito le tracce paterne: Raffaella, che è la più grande, con il fratello minore Andrea, gestisce la Andrea Leone Films, la stessa casa di distribuzione cinematografica fondata dal padre anni fa. Mentre Francesca fa la pittrice, ma
anche sui suoi ritratti è visibile l'influenza del padre, un certo gusto per quell'inquadratura serrata, tanto tipica che oggi Tarantino, se vuole un primissimo piano, può dire a un cameraman «Give me a Leone» ed essere perfettamente inteso. Chissà se anche il regista di Le Iene si ricorderà fra sei giorni di celebrare il grande maestro del cinema: il 30 aprile fanno vent'anni dalla sua morte e Cannes gli dedicherà una giornata speciale. Raffaella preferisce, ringraziando; festeggiare il padre «ricordando gli ottant'anni dalla sua nascita», a Roma, quartiere Trastevere, i13 gennaio del 1929.
All'epoca di C'era una volta in America, che il padre girò nell'84 con Robert De Niro, non immaginando che sarebbe stato il suo ultimo capolavoro, Raffaella aveva 23 anni. Su quel set, lavorava come aiuto costumista. E non era la sua prima volta nel mondo del cinema. Per quella, occorre tornare in Spagna, sui set polverosi e assolati dove Leone girò, a metà degli anni Sessanta, Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, aem>Il buono il brutto, il cattivo: insomma i mitologici spaghetti western, un graffio metafisico e incendiario sul mondo, reso beffardo e malinconico dalla musica di Ennio Morricone. Nasceva il mito di Clint Eastwood, che poi divenne un divo. «Mia sorella Francesca, a un anno, stava in braccio a Gian Maria Volonté in Per qualche dollaro in più. Mentre io, sempre in quel film, sono la bimba che aspetta l'arrivo di un treno nell'ufficio del bigliettaio. In realtà, avrei dovuto stare sui binari, ma ero così terrorizzata dalle scintille della locomotiva, che continuavo a scappare».
Al cinema, come s'è detto, Raffaella è ritornata. E il padre, aggiunge, sarebbe orgoglioso di vedere Generazione mille euro, il primo film prodotto con il fratello, da oggi nelle sale. «Massimo Venier, il regi, sta, è riuscito a raccontare con molta ironia questa generazione di trentenni con mille difficoltà. Credo che mio padre avrebbe apprezzato il tentativo di far riflettere, senza prendersi troppo sul serio». Il film è interpretato da una manciata di bravi attori: accanto al protagonista Alessandro Tiberi, Carofina Crescentini, Federica Lodovini e Francesco Mandelli.
Avendo prodotto il suo primo film, sente di più la responsabilità del nome che porta?
«Mio padre, e lo dico con sconfinato amore, è sempre stata una figura impegnativa. E ingombrante, non solo fisicamente. Era molto esigente e, soprattutto, molto presente».
Vi portava sempre con sé.
«Sì, e quando non girava stava in ufficio a trenta metri da casa nostra. Questa casa, in cui ora vivo (vicina a quella dei genitori), mio padre l'ha comprata quando mia sorella "minacciò" di sposarsi. Non concepiva che uno di noi potesse vivere lontano. Per fortuna era un uomo molto simpatico e divertente. Con mia madre, ha sempre condiviso tutto il suo tempo, dal lavoro al gioco, assieme a noi».
Che facevate assieme?
«Amavamo giocare a Trivial, per esempio».
Volevate tutti e tre stare in squadra con lui?
«Ovvio. Mi ricordo quando toccò a lui la domanda: qual è il nome del regista di Per un pugno di dollari».
Risposta?
«So' io. Amava tutti i giochi da tavolo: Risiko, Monopoli. Erano famosi i suoi capodanni, dove si giocava a Mercante in fiera».
Amici importanti?
«Carlo Simi, il suo scenografo, Benvenuti e De Bernardi, Morricone, Verdone. Poi Vitti, Sordi, Gemma, Tognazzi. Squitieri e Cardinale. Erano gli amici. Che si mischiavano con i parenti e con noi figli».
Leone avrebbe mai immaginato che Clint Eastwood - di cui diceva che aveva due espressioni, una con il cappello e una senza - sarebbe diventato un grande regista?
«Credo di no, anche perché a quei tempi era davvero impensabile. Aggiungo che per le battute di mio padre Clint non si è mai offeso».
Si dice che quando sul set di C'era una volta il West un attore, Al Mulock, si suicidò. Leone raccontò di essersi preoccupato di fargli togliere il costume di scena con cui si era gettato dalla finestra dell'hotel, per recuperarlo.
«L'avrà detto dopo, prendendosi in giro per il piacere della battuta. Aveva un certo cinismo tipicamente romano. Ma, di "cattiverie", se ne ricordano anche di peggiori».
Cioè?
«Sul set di Il colosso diRodi, a un certo punto un leone scappò. Mio padre si rintanò in una casupola e non aprì nemmeno a mia madre che era fuori e gridava. Incredibile».
Raccontano anche che convinse Henry Fonda, protagonista di C'era una volta il West, il primo film girato in America da suo padre nel `68, che il suo personaggio non aveva bisogno di mettersi le lenti a contatto scure per essere un cattivo credibile.
«È vero. Gli disse che i cattivi più cattivi avevano sempre gli occhi chiari. Per Fonda, il buono per definizione, quel film fu una svolta. Per mio padre era un mito. Come Robert De Niro».
Che, unico fra tutti quelli che avevano lavorato con lui, definì un super attore.
«Quando girava le parti da vecchio, anche fuori dal set camminava curvo e rallentato. Mio padre, che aveva una cura maniacale per i dettagli, ne era affascinato».
Nonostante il carattere non facile.
:«Beh, Beh; De Niro è -un uomo molto introverso, chiuso. Il contrario di mio padre, che era dittatoriale, ma solare. Comunicare con lui era difficile».
La critica all'inizio non fu benevola.
«Ho ritrovato alcune recensioni, prima o poi ne faccio un libro. Lui ci soffriva, ma negava. Anche con se stesso».
Leone era un padre del Western che non conosceva l'inglese.
«Non gli serviva. La sua America era immaginata, tutta interiore. Sapeva il francese, invece. E voleva andare a vivere a Parigi».
Leone produsse il primo film di Verdone, «Un sacco bello». E lo considerava il suo figlioccio.
«Sono uguali: infantili, giocherelIoni, semplici e intelligenti Si facevano i dispetti come i ragazzini. Mi ricordo che Carlo era fiero di essersi comprato un orologio che a mio padre non piaceva. A un certo punto, visto che Carlo sosteneva fosse subacqueo, papà glielo buttò in una caraffa d'acqua a tavola. Carlo gli disse: "Ma allora sei cattivo!"».
Quando suo padre mori, stava per iniziare a girare «L'assedio di Leningrado», un progetto a lungo coltivato.
«Fu un colpo. Eravamo tutti a casa, giocavamo a Trivial. Ci ha salutati ed è salito al piano di sopra per andare a dormire. Dopo poco, abbiamo sentito le urla di mia madre. Era sabato notte. Il lunedì seguente sarebbe dovuto partire per l'America per chiudere il contratto».
Da Il Venerdì di Repubblica, 24 aprile 2009
Per un pugno di dollari, che pure avrei potuto scrivere, è l'unico western di Leone che mi manca. Ma gli altri li ho fatti, o dovrei dire sofferti, tutti. A Per qualche dollaro in più e a Il Buono, il Brutto, il Cattivo ho lavorato come 'negrò personale di Leone. Ero giovanissimo e questo era un prezzo che si usava pagare. Inventavo scene, riscrivevo di sana pianta dialoghi che poi Sergio spacciava per farina del suo sacco per non offendere lo sceneggiatore “ufficiale”, che era Vincenzoni. (Luciano a quei tempi neanche sapeva che esistevo: ma dopo siamo diventati amici fraterni al punto di scrivere in coppia più di venti film). Poi finalmente ho raggiunto l'onore della firma nei titoli di testa con la sceneggiatura di C'era una volta il West e il soggetto e la sceneggiatura di Giù la testa.
Da Sergio Leone ho imparato quasi tutto quello che so di cinema, nel bene e nel male.
Da lui ho avuto grandi soddisfazioni sul piano professionale e grandi delusioni su quello dei rapporti umani, che per me contano più di ogni altra cosa. Abbiamo passato quasi vent'anni, io ad andarmene sbattendo la porta e giurando “mai più”, e lui a trovare il modo di riportarmi indietro ogni volta che gli servivo. Negli ultimi tempi mi aveva cercato di nuovo: sapevo che non stava bene, ma l'avevo trovato molto migliorato come persona, aveva perso quel cinismo spietato che temo sia un segno caratteristico di tutti i grandi registi. Ma io stavo in guardia, diffidente, aspettando di capire che cosa gli serviva da me questa volta. E solo un momento troppo tardi ho capito che la morte mi aveva portato via un amico ritrovato.
Il padre si chiamava Vincenzo e - regista del muto - si firmava Roberto Roberti (la madre, attrice di film avventurosi, era Bice Valerian). Lui, che interrompe gli studi di legge e appena può s'infila nel cinema, assistente in varie mansioni, sceglie come pseudonimo con cui firmare il primo suo western Bob Robertson, nome americano per contrabbandare la merce ed evocare la famiglia (il figlio di Roberto). In effetti, dopo aver: seguito le orme di tutti gli specialisti di kolossal, italiani (Gallone, Camerini) e stranieri (Wise, LeRoy, Aldrich, Wyler, Walsh), Leone esordisce con uno sgargiante «mitologico» - Il colosso di Rodi (1960) - nel quale rivela un sicuro gusto dello spettacolo e una padronanza tecnica assoluta. Saranno le qualità che gli permetteranno quattro anni dopo di vincere la scommessa temeraria di trapiantare in Italia, rinnovandolo e «radiografandolo», il genere più storico, epico e favoloso del cinema statunitense.
A ciò aggiunge, girando Per un pugno di dollari (1964) in Spagna dove i costi sono più bassi, una cinica esposizione di pessimistica brutalità (visiva, ritmica, recitativa, tematica) che imprime al film quel carattere inaudito dinanzi a cui s'inchinano i mercati di tutto il mondo. I film successivi - Per qualche dollaro in più (1965), II buono, il brutto e il cattivo (1966) - riespongono le imprese di killer spietati e sonnacchiosi insieme (lo stereotipo del Messico influisce, come influiscono tutti gli stereotipi drammatici e figurativi, garanzia di successo). Con C'era una volta il West (1968) gli USA sono direttamente presenti attraverso la Paramount per promuovere una adorante-dissacrante celebrazione del mito, fatta di movimenti di macchina vertiginosi, di indugi esasperanti, di furenti accelerazioni ritmiche, di primi piani e di dettagli mostruosamente dilatati. Con una più accentuata (e colta) finezza, Leone racconta nel 1984 l'America del gangsterismo (C'era una volta in America), intrecciando epoche diverse in un solo, suggestivo flusso ed estraendone la straordinaria gigantografia di una patetica astrazione (De Niro complice perfetto, come per i primi film era stato complice Clint Eastwood, che a Leone tutto deve, e lo riconosce). Il regista muore mentre sta preparando un film sull'assedio di Leningrado.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Sergio Leone era figlio di un'attrice e di un regista del muto e pochi altri come lui, almeno in Italia, si formarono nell'ambiente del cinema. Il suo tirocinio tecnico ricordava quello dei grandi vecchi americani, John Ford, Howard Hawks, gente cresciuta sul set dalla gavetta, in un artigianato umile e proficuo. Quando Hollywood si riversò sul Tevere con i suoi colossi biblici o romani, Leone non si lasciò sfuggire l'occasione di perfezionare il mestiere imparato in casa, da Gallone, Camerini, Bonnard, mettendosi al servizio dei maestri d'oltreoceano, anche se ormai un po' scoloriti. Non ancora ventenne si era intruppato tra i seminaristi di Ladri di biciclette che corrono per evitare il temporale, ma quella fu la sua unica partecipazione al neorealismo. l suoi preferiti divennero negli anni Cinquanta i confezionatori, all'italiana o all'americana, dei grossi spettacoli in costume, dei quali d'altronde l'intraprendenza nostrana aveva dato prova nel cinema d'inizio secolo, ancor prima di Griffith. Il cosiddetto peplum fu, per Sergio Leone, la scuola di avviamento al lavoro.
Quo vadis? , Elena di Troia, Ben Hur, Gli ultimi giorni di Pompei, cui prese parte attiva e con crescenti funzioni di responsabilità, gli permisero di esordire nel 1960, quale regista in proprio, con Il colosso di Rodi. I film firmati da Sergio Leone non sono molti, soltanto sette, ma il primo non poteva essere che un peplum. Due anni dopo proseguì come collaboratore di Robert Aldrich per Sodoma e Gomorra, che provocando il fallimento della Titanus gli fece capire che il genere da praticare andava cambiato. Sempre, però, senza allontanarsi dal popolare. Anzi, assumendo il genere più antico e popolare di tutti: il western.
Ci sono cineasti che fanno cinema sulla vita e altri che lo fanno sul cinema. Leone sembrò, all'inizio, il campione italiano di questa seconda categoria. La linea di demarcazione si presentava netta a metà degli anni Sessanta: da un lato Bertolucci e Bellocchio portavano sullo schermo la propria autobiografia (Prima della rivoluzione, I pugni in tasca), dall'altro Bob Robertson centrava il suo bersaglio con Per un pugno di dollari, copiando un film di Kurosawa a sua volta costruito su modello americano. E chi era Bob Robertson se non il «figlio di Roberto Roberti», regista di Francesca Bertini? Nessuno, né il regista, né il musicista, né gli attori, firmava Per un pugno di dollari con il proprio nome, ma tutti con pseudonimi americani. L'unico che lo manteneva, perché ce l'aveva di suo, era Clint Eastwood, il protagonista ingaggiato dagli Stati Uniti, al quale Leone aveva messo addosso un poncho e in bocca un sigaro toscano. Ma nessuno credette, allora, che quel nome fosse vero.
I critici dell'epoca, che venivano dal neorealismo, si trovavano anch'essi di fronte al bivio: scegliere Bertolucci e Bellocchio che s'inoltravano su nuove vie e i cui coraggiosi e personalissimi prodotti non incassavano una lira, oppure chi aveva vergogna di firmare col proprio nome, batteva la più conosciuta delle strade e incontrava un favore di pubblico inaudito per non dire offensivo? Tra l'altro Per un pugno di dollari, a parte lo sfregio che faceva a un grande del cinema come Kurosawa (permettendosi più tardi di batterlo sul suo stesso terreno, cioè nelle sale giapponesi), non era affatto il primo western all'italiana, ma il ventiseiesimo. I predecessori avevano già bruciato anche il genere d'imitazione. Senza contare che il western, alla Ford o alla Hawks, era un genere classico per gli americani, e non sembrava dignitoso scimmiottarlo a quella maniera.
Insomma il 1964 funzionò da spartiacque: pareva impossibile conciliare le due posizioni e prevedere il ciclone che Per un pugno di dollari avrebbe scatenato. In realtà Sergio Leone aveva anche lui una visione assai personale da far valere attraverso la copertura del suo western. Anzitutto un carico d'amore-odio per l'America da riversare sullo schermo in modo maniacale, come un bambino che ha finalmente a disposizione un giocattolo da smontare, rimontare e distruggere a proprio piacere. Nulla gli era estraneo dell'epopea del West, di cui saccheggiava ogni dettaglio con feroce allegria. Sapeva sulle pistole, sui vestiti, sulle selle dei cavalli, sui treni, cose che gli americani stessi neppure immaginavano. Ricostruendo il West in Spagna, ma più tardi anche nei luoghi autentici come la Monument Valley cara a John Ford, lo usava per un libero gioco della fantasia, coniugando crudeltà a divertimento in una miscela spettacolare assolutamente inedita.
L'antico romano Leone si poneva di fronte alla leggenda di quel mondo elementare e selvaggio con una mentalità mediterranea che era la più salutarmente lontana dagli archetipi made in Usa, per la semplicissima ragione che proveniva da civiltà più remote: da Omero, dalla tragedia greca, dai pupi siciliani, dal romanzo picaresco spagnolo. Altro che western-spaghetti: si trattava del western più antiwestern che si fosse mai visto. Quel che i critici stentavano a capire, lo sentirono invece proprio quei nuovi registi come Bertolucci, che si sarebbero dovuti trovare dall'altra parte della barricata e che invece collaborarono con quello strano tipaccio. In generale ai giovani che venivano allora al cinema, la trilogia western di Sergio Leone - Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono il brutto e il cattivo - sembrò il cinema più bello del mondo, esattamente come, qualche anno dopo, Rainer Werner Fassbinder avrebbe trovato i suoi modelli sublimi nei melodrammi hollywoodiani di Douglas Sirk, che più hollywoodiani di come li faceva quel regista olandese-tedesco, era impossibile farli.
Due anni prima della contestazione giovanile del Sessantotto, Leone la anticipava a modo suo proprio con Il buono il brutto e il cattivo, che la televisione italiana ha scelto per ricordarlo. Qui il dollaro ha la stessa importanza che nei film precedenti, anche se non ha più l'onore del titolo. La caccia al tesoro sepolto è infatti la molla dell'azione, ma quest'azione passa attraverso la spietatezza della guerra civile, con i suoi cimiteri e i suoi campi di concentramento. In uno di essi un'orchestrina, come nei lager nazisti, suona nello spiazzo davanti alla baracca delle torture, per coprire le urla dei prigionieri. Per i soldati che devono andare all'assalto, le casse di whisky sono più importanti di quelle d'esplosivo, esattamente come le gavette di grappa per i nostri fanti della Grande guerra. L'ufficiale nordista impersonato da Aldo Giuffrè è perennemente ubriaco, ma la sua mente è lucida quando, a proposito del massacro per la conquista del ponte, dice: «Non ho mai visto morire tanti imbecilli, e cosi male».
Dunque quel regista infantile non si documentava soltanto sui finimenti e sui costumi d'epoca, rovistando nei magazzini di Hollywood ed estraendone per poco prezzo quanto era stato scartato da tempo: risaliva alle fonti storiche della guerra di Secessione, ai documenti di parte nordista e di parte sudista mai consultati dai faccendieri del western americano, e sapeva per esempio che a Andersonville erano morti duecentocinquantamila prigionieri. Ecco il senso dell'interminabile corsa, e dell'altrettanto interminabile carrellata, nella tragicomica sequenza di Eli Wallech - il «brutto» che è il vero centro nevralgico dell'avventura - alla disperata ricerca della tomba giusta che cela l'agognato peculio, lungo un'impressionante distesa di tombe.2. Leone, Sergio
C'era una volta Sergio Leone, un regista morto a sessant'anni mentre vedeva alla televisione il film americano Non voglio morire. Da tempo era entrato egli stesso nel mito, e siccome i miti non muoiono, la sua improvvisa scomparsa nel pieno della maturità ha colpito tutti. Tanto più che si conosceva il suo prossimo progetto sui 900 giorni dell'assedio di Leningrado, col quale avrebbe voltato pagina, passando dall'epos americano a quello russo. Adesso i sovietici promettono che il film sarà egualmente realizzato, ma sarà estremamente improbabile che lo realizzino nello spirito di Leone.
C'era una volta il favolista del C'era una volta, un cineasta italiano che si era costruito una carriera trionfale senza parlare mai dell'Italia e concentrandosi sempre sull'altrui passato. Anche se ciò, a ben guardare, è soltanto relativamente vero. L'autore stesso ha fatto osservare a proposito di Giù la testa, il suo film più politico del 1971, che «i cadaveri nella grotta, le fucilazioni nelle fosse, la fuga del governatore in treno, corrispondono... a episodi precisi della lotta contro il fascismo, soprattutto le Fosse Ardeatine e la fuga di Mussolini». E sosteneva che il pubblico italiano lo capiva bene. Certo però che tali analogie erano regolarmente immerse in una costruzione narrativa autonoma e che il regista non si proponeva affatto di lanciare messaggi, quanto di sviluppare le proprie storie in totale libertà figurativa e ritmica. La politicità del cinema di Leone, se esiste, è tutta interna e mai dichiarata. «E poi - affermava non senza autoironia - non si può essere comunisti con le ville. Al massimo un po' anarchici». Come appunto i protagonisti di Giù la testa.
I tempi di questo cinema sono volutamente, provocatoriamente o troppo lenti o troppo veloci: la misura di Leone è soltanto sua e non corrisponde agli schemi del western classico, o di qualsiasi altro tipo di western. Il paradosso è che il suo western funziona appunto nel conflitto tra i due ritmi, l'uno dei quali sembra apparentemente negare l'altro, mentre non fa che prepararlo, esigerlo e giustificarlo. La lentezza esasperante dell'attesa non può risolversi che nel suo contrario: in una sparatoria fulminea e micidiale. L'apertura di C'era una volta il West (1968) è interamente giocata sullo scontro, anzi sulla somma di due esagerazioni. Tre killer aspettano l'uomo da uccidere e, non sapendo come ingannare il tempo. c'è chi se la prende con una mosca e chi è affascinato da una goccia d'acqua che non cade mai. Improvvisamente si presenta lo sconosciuto e, come una folgore, li fa secchi tutti e tre. Nel cinema di Leone l'effetto comico si sposa a quello tragico, il sentimentalismo alla violenza, il rigore dei dettagli al capovolgimento sistematico delle norme generali. Da qui il suo fascino dinamico: sembra di non poterne più di fronte alle scene in cui non succede niente, e poi di colpo si scopre che succede di tutto. Data anche la crescente lunghezza dei film, viene spesso la voglia di abbandonarli; e inevitabilmente si rimane fino alla fine. Anche sotto tale profilo l'ultimo, C'era una volta in America (1984), è il suo film davvero estremo. Sono due film, anzi più film in uno, e tutto è costruito in flash-back. Un flash-back enorme, smisurato, che racchiude molte storie e tutte reali, ma potrebbe anche racchiudere nient'altro che un sogno: il sogno di un fumatore d'oppio. Stavolta il regista, che ha atteso pazientemente dodici anni per girare come voleva lui, non s'ispira al western, bensì al film-gangster; ma rovescia questo genere esattamente come l'altro. Cioè lo adatta alla propria specialissima dismisura, che è poi quella di un uomo del vecchio continente il quale, a furia di sognare il nuovo, finisce per dilatarlo agli spazi fantastici della propria immaginazione. Si crea così un'atmosfera onirica su eventi e su facce di un realismo da cronaca: quanto più i primi piani, come in tutto il cinema di Leone, sono insistenti, tanto più presuppongono un panorama che va al di là delle singole fisionomie, come se quegli occhi ci invitassero a guardare oltre le semplici emozioni che rappresentano.
E i ruoli, ancora una volta, magicamente s'invertono. Non è il regista che rende omaggio all'America della propria infanzia, è Robert De Niro, nell'immancabile ralenti della sequenza da lui stesso inventata in cui gira e rigira il caffè nella tazzina, che rende omaggio a Sergio Leone. Ecco perché l'attore misteriosamente sorride, e poi ride con l'intera faccia, quando ci congeda nella fumeria d'oppio, ritornando giovane com'era all'inizio. Ride in omaggio a un cinema venuto da lontano, che ha saputo fare i conti con la realtà americana anche meglio, e senza dubbio più fedelmente, di come avessero potuto farlo i registi nati all'ombra della statua della libertà.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006