Roberto Rossellini è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, assistente alla regia, è nato il 8 maggio 1906 a Roma (Italia) ed è morto il 3 giugno 1977 all'età di 71 anni a Roma (Italia).
Regista italiano, insieme con Visconti e De Sica il maggiore dell'epoca neorealista, autore di due capolavori come Roma città aperta e Paisà (1945-46). Ai suoi esordi realizzatore di documentari (Prélude à l'aprés-midi d'un faune, Fantasia sottomanina, li ruscello di Ripasottile), divenne regista con La nave bianca, 1941, in collaborazione con Francesco De Robertis; Un pilota ritorna, 1942, su soggetto di Tito Silvio Mursino ovvero Vittorio Mussolini, e sceneggiatura di Michelangelo Antonioni; e L'uomo della croce, 1943, un film di propaganda. Uomo del tutto alieno da affermazioni di fedeltà verso le ideologie, dotato di una personalità affascinante quanto instabile, Rossellini rivelò nel biennio immediatamente successivo alla fine della guerra il proprio autentico talento di regista creatore. Roma città aperta e specialmente Paisà (negli episodi di maggior rilievo: quelli di Napoli, di Firenze, del Delta padano) tradussero sullo schermo il sentimento ispiratore dell'antifascismo europeo e quello, peculiare, della Resistenza italiana, in pagine cinematografiche che per il loro vigore epico non meno che per la capacità di riflettere ed esprimere la tensione esistenziale di un'intera generazione, non ebbero confronti. Fu propria di Rossellini non soltanto la capacità di tradurre in valori espressivi la cronaca viva di quei tempi, ma anche l'intuizione di un modo nuovo di fare del cinema, cogliendo la realtà non più attraverso la meditazione o la soggezione a una cultura letteraria, a un realismo di origine tradizionale: ma al contrario, attraverso una nuova e autonoma consapevolezza espressiva del mezzo cinematografico, che sembrò analoga, per il cinema europeo, a quella che era stata nel periodo muto l'ispirazione pionieristica americana, o a quella rivoluzionaria sovietica. Che Rossellini reggesse il paragone, lo conferma ancor oggi una rilettura di Paisà, insieme con le evidenti testimonianze di fecondità dello stile rosselliniano, venute specialmente da parte francese, dalla nouvelle vague in poi. Meno certo è che quei primi, grandi esempi dovessero per forza di cose preludere a quella che fu l'ulteriore, assai discussa evoluzione del regista, e l'evoluzione stessa, e il carattere, di quegli autori, francesi o meno, che in Rossellini videro il proprio maestro. Dopo Roma città aperta e Paisà, Rossellini realizzò a Berlino Germania anno zero, ambizioso tentativo di puntualizzare la tragedia di quel Paese subito dopo il conflitto; seguirono poi una serie di opere assai dissimili, in cui il regista mescolò echi di diverse esperienze, culturali e private, e di contraddittori impulsi, narcisistici, esistenziali, misticheggianti. Venne, nel 1948, Amore, film "de-. dicato all'arte di Anna Magnani" e composto di due episodi recitati dall'attrice: La voix humaine di Cocteau e Il miracolo di Fellini (che vi comparve come attore); nel 1949, il regista lasciò incompiuto La macchina ammazzacattivi, non proiettato in pubblico, almeno a quel tempo; nei 1950, dopo un viaggio negli Stati Uniti donde ritornò con 1'attrice Ingrid Bergman, sposandola, Rossellini realizzò Stromboli, terra di Dio e Francesco, giuliare di Dio, quest'ultima opera assai singolare e per più versi toccante, ispirata ai "fioretti" francescani e scritta in collaborazione con padre Felix Morlion e padre Alessandro Lisandnini. Nel 1951, dopo aver realizzato L'invidia di Colette, un episodio di I sette peccati capitali, Rossellini diresse Europa 1951; nel 1952 Dov'è la libertà, con Totò; nel 1953 Viaggio in Italia; nel 1954 Giovanna al rogo di Claudel e Honegger e La paura: tutti interpretati, a eccezione di Dov'è la libertà, da Ingrid Bergman. Furono altrettanti insuccessi, di critica e di pubblico (solo più tardi, da parte francese specialmente, si accennò a rivalutare Viaggio in Italia). Rossellini smise di lavorare per alcuni anni: nel 1957, recatosi in India per conto della televisione, realizzò una serie di documentari su quel Paese, in collaborazione con il giornalista Marco Cesarini Sforza. Dal materiale girato ricavò anche un lungometraggio presentato nel 1959, col titolo India. Separa-tosi da Ingrid Bergman, il regista sposò l'indiana Sonali Das Gupta. Nel 1959 tornò finalmente alla regia con Il generale della Rovere, su soggetto del giornalista Indro Montanelli e per l'interpretazione di Vittorio De Sica. Fu un discutibile film, premiato tuttavia ex-aequo alla Mostra di Venezia di quell'anno, insieme con La grande guerra di Mario Monicelli. Vennero poi: Era notte a Roma, 1960, un'opera trascurabile; Viva l'Italia!, 1961, girato in occasione delle celebrazioni per il centenario dell'Unità e interpretato da Renzo Ricci nella parte di Giuseppe Garibaldi: ma il film riuscì retorico e celebrativo almeno nella misura in cui non avrebbe dovuto esserlo, tenendo conto dell'autore, che quindici anni prima aveva diretto Paisà. Nel 1961 Rosse'llini firmò Vanina Vanini, da Stendhal; nel 1962 Anima nera, da una commedia di Giuseppe Patroni Griffì; nel 1966, in Francia, per la televisione francese, diresse La pnise du pouvoir pan Louis XIV.
Dopo aver firmato alcune tra le opere più gloriose del cinema italiano neorealista, Roberto Rossellini torna, nel 1959, al tema della resistenza con Il Generale della Rovere, un film in cui rifacendosi a un fatto vero, traccia un sicuro quadro psicologico di un personaggio ambiguo nobilitato dal dramma della lotta contro i nazisti. Ouesto dramma Rossellini lo ha condotto avanti con l'impegno, il fuoco, la decisione dei suoi momenti migliori, senza disdegnare però (nota nuovissima) un felicissimo senso dell'humour che, almeno agli inizi, tratteggia con ironia sottilissima la figura spesso laida, ma sempre un po' caricaturale dell'avventuriero.
Ogni cosa, nel racconto, è svolta con logica rigorosa, con fertilità di trovate, con ricchezza di personaggi secondari, di dialoghi lucidissimi e con una tecnica insolitamente esemplare. Rossellini, oltre a tutto, ha fatto in modo che l'azione non avesse mai requie e che ad ogni istante fosse sostenuta da un sicuro senso dello spettacolo, grazie ad una sapienza di effetti che accoglie, non di rado, persino la suspense. Non sono concessioni commerciali, però, perché ognuna ha sempre una sua giustificazione poetica.
Quanta arte, infatti, e quanto alto senso del dramma nelle pagine migliori di questo film! Oltre al clima di guerra che tutto domina con lucida esattezza, oltre a quelle immagini scarne eppure preziose che ci restituiscono intatta la migliore lezione formale di neorealismo, come non ricordare con emozione la sottigliezza tutta interiore con cui il regista ci delinea il travaglio psicologico del protagonista e la misura, l'asciuttezza, lo scabro rigore con cui ce lo esprime?
E come non ricordare, tra i molti momenti del film le due grandi scene finali, quella dell'ultima notte degli ostaggi, in piedi, nella cella comune, le preghiere degli ebrei, il Pater nosier degli altri, e quella conclusiva della fucilazione, ritmata dal De profundis del cappellano che, prima sussurrato e quasi spento (sui corpi caduti il versetto Exaltabunt ossa humiliata...) riempie in sè tutta la colonna sonora dopo che l'ultima scarica si è spenta nell'aria?
Un anno dopo (1960) Rossellini, restando fedele al tema della resistenza, ci disegna in Era notte a Roma la vicenda di tre militari alleati nascosti nella Roma occupata dai tedeschi e aiutati generosamente da cittadini d'ogni ceto. Servendosi delle sue migliori esperienze neorealiste, ci dà di Roma città aperta, dei tre militari e dei tanti onesti che li soccorrono un quadro lucidissimo e drammatico, livido e spesso terribile, senza abbandonare un solo momento la sua proverbiale sobrietà, indirizzata qui, più di una volta, alla stessa immediatezza del linguaggio televisivo.
Forse gli si potranno rimproverare dei momenti pleonastici e, qua e là, per il desiderio di voler essere assolutamente anti-retorico, anche un'eccessiva fretta nel « tirar via » soluzioni che potevano incidersi sentimentalmente o tragicamente un po' di più, ma non gli si potrà negare ancora una volta, oltre alla capacità di essere sempre presente, anche con storie di ieri, ai problemi di oggi, una felicissima possibilità di raggiungere la poesia anche dal nulla. (Come, ad esempio, in quel pranzo di Natale in casa della popolana dove hanno trovato rifugio i tre alleati, che a un certo momento, per un accorato scatto del russo, tornato col pensiero alla patria, si riveste di delicati accenti lirici).
Da Cinema italiano 1952-1965, oggi, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1966
IN the immediate aftermath of World War II, Roberto Rossellini made three films that helped to lay the foundations of modern cinema: “Rome Open City” (1945), “Paisan” (1946) and “Germany Year Zero” (1948). It’s almost impossible to underestimate the importance of these movies, both for the impact that their startling realism had on the audiences and filmmakers of the time and for the influence they continue to exert on directors.
Andrea Arnold’s current “Fish Tank” is only the latest example of work that continues to draw on Rossellini’s open, observational approach, which mixed location filming with studio sets, professional actors with amateurs asked to play variations on themselves, and screenplays that were not set in stone, Hollywood style, but roughed out in advance and improvised on the spot. Whenever we see a film by François Truffaut ( “The 400 Blows” was directly inspired by “Germany Year Zero”), John Cassavetes or Mike Leigh, we are in some sense experiencing Rossellini’s vision, his determination to cast aside refinements of form and style and penetrate to the heart of his human material, captured on the fly with all of its rawness and complexity intact.
Yet for decades now it’s been impossible to see Rossellini’s War Trilogy, as the films have come to be called, in any kind of decent condition. All we’ve had are ugly dupes, made from damaged, dirty prints many generations removed from the original negatives, and in the case of “Germany Year Zero,” with the actors dubbed into a language not their own.
Which is why I’m feeling particularly grateful to the Criterion Collection for its newest release. The three-disc “Roberto Rossellini’s War Trilogy” uses photochemical and digital techniques to reclaim these masterworks, removing speckles and scratches (more than 265,000 individual fixes were hand-applied to “Paisan” alone) and vastly improving definition and contrast. “Germany Year Zero” has been refitted with its original German-language dialogue (though the disc includes the opening of the Italian-dubbed version as well, with its different introduction), and the soundtracks of all three films have been scrubbed of pops and hisses.
Wisely, there has been no attempt to make these films look pristine. Many flaws are still apparent (as they probably were in the original release prints), and the graininess of the image has been maintained. This is all very much in the spirit of Rossellini, who felt that technical perfection was a minor virtue compared to the warmth and spontaneity that could be captured once technique was thrown away.
At the beginning he may have had little choice. Although his first three films — all propaganda features made with the support of the Fascist regime — find Rossellini experimenting with location shooting and nonprofessional actors, his manner doesn’t really emerge until “Rome Open City,” filmed in the chaos and desperation of a Rome recently liberated by Allied forces. Using bits of scrounged film stock, a studio improvised on the ground floor of a bordello and electricity diverted from the nearby offices of Stars and Stripes, the United States military’s newspaper, Rossellini and his colleagues pieced together a story of the Italian resistance under the Nazi occupation.
It is difficult to underestimate the effect “Rome Open City” had when it arrived in 1946 in New York, where it struck initial audiences with the impact of a documentary. Italian audiences knew better, if only because they could recognize the popular comedian Aldo Fabrizi playing the priest who aids the Communist underground forces, and the music-hall star Anna Magnani, who plays Pina, the pregnant widow — and the embodiment of Roman grit — caught up in the conflict. But its impact was that of a raw slice of reality, something that had seldom been seen in the movies since the general retreat from the streets to the studio in the late 1910s.
“Paisan,” a more complex and ambitious film, tells the story of the Allied campaign in Italy through six separate episodes, beginning in the south with the landings in Sicily and ending with a last-ditch conflict between German troops and Italian partisans, aided by American O.S.S. agents, in the swampy delta of the northern Po River. Rossellini often expressed an aversion to form, but somehow “Paisan” (with its battery of writers, including Sergio Amidei, Klaus Mann and Federico Fellini ) acquired an elaborate network of interrelations among the episodes — thematic parallels (difficulties of communication, across languages and cultures), spatial relations (the zigzag route of the Allied campaign is echoed in the jagged itineraries of characters crossing different war zones) and dramatic devices. (Most of the episodes end with characters embracing or rejecting their ties to the grand mass of humanity that swirls around them.)
“Germany Year Zero” pushes further northward, to Berlin, where Rossellini discovers a city even more devastated than Rome, and filled with far more desperate people. As difficult as it must have been at the time the film was shot, Rossellini strains to observe the German people with fairness and compassion. His protagonist, a 12-year-old boy (Edmund Meschke, a nonprofessional Rossellini recruited from a family of circus performers), is both a symbol of the Reich (he would have been born in 1934, the year Hitler assumed his title as Führer) and a victim of it. He shares his home, a cramped apartment with no electricity, with his invalid father, an older brother who fought to the last for the Führer, and a sister who is slipping into prostitution in order to bring home some money.
When a former teacher suggests to Edmund that his family might be better off without his “socially useless” ailing father, the boy dutifully takes this backdated bit of Nazi ideology to heart and poisons the old man. In the film’s extraordinary final sequence the child wanders the streets, the camera following him closely as he sometimes seems to sink under his burden of guilt, sometimes to be as unconcerned as any boy on a sunny afternoon. He climbs into a decimated building, and after toying with a bit of broken pipe as if it were a gun, and scooting down a collapsed girder as if it were a playground slide, he turns and impassively walks off an open ledge, tumbling into the void.
Rossellini dedicated “Germany Year Zero” to his young son Romano, who had died of a ruptured appendix before the shooting began. The act of identifying his own innocent son with the adolescent killer of “Germany Year Zero” suggests extraordinary moral courage on Rossellini’s part, an ability to see a common humanity in the most disparate figures, to find sorrow where so many others had only, and understandably, found horror and disgust.
Beginning with his next film, “Stromboli” (1950), Rossellini would move more deeply into the Roman Catholic theology that underlay his beliefs, exploring notions of compassion, commitment and acceptance of the world in its awful and glorious contradictions. But that is a subject for another day, and, one hopes, for a future installment in Criterion’s Rossellini collection. (Criterion Collection, $79.95, not rated)
Da The New York Times, 22 gennaio 2010
There is no figure in film history quite like Roberto Rossellini (1906-77), the Italian director who never stopped questioning the relationship between moving images and the world. As a result of his restless curiosity and capacity for change, he created masterworks in at least four different styles, reinventing himself — and to a significant degree, the movies themselves — each time.
Rossellini remains best known for “Open City” (1945), a story of anti-Nazi resistance set in the last days of the war in Europe and partly filmed in the streets of Rome. Rossellini was one of a diverse group of filmmakers, including Luchino Visconti and Vittorio De Sica, who became known as neorealists for their determination to get out of the studio and rediscover a sense of gritty, working-class authenticity.
But by the early 1950s, Rossellini had turned his back on neorealism in favor of a detached, philosophical approach (“Voyage to Italy,” 1954) that made him, along with Michelangelo Antonioni and Ingmar Bergman, a founding figure of the modernist European cinema of angst and alienation. Later in the decade he shifted again, offering with “India: Matri Bhumi” (1959) one of the first documentaries in the objective, intensely observational style that would become known as cinéma vérité.
The fourth and final stage of Rossellini's career remains the least familiar, but in many ways it may be the most fascinating. In 1963, after a string of unsatisfying commercial features, he announced he was leaving the movies behind to concentrate on a grand project for television: a series of historical films meant to educate the mass audience, offering essential information and material for argument. Dedicated less to telling stories than to disseminating ideas, these films would abandon the illusionism and emotional involvement of traditional moviemaking in favor of simple, direct communication.
Made for state networks in France and Italy, they have come to be known collectively as Rossellini's history films, and the Criterion Collection has drawn on them for two new releases: a full-featured edition of “The Taking of Power by Louis XIV,” a 1966 French television production that became an unexpected theatrical success, and “Rossellini's History Films: Renaissance and Enlightenment,” a four-disc set on Criterion's no-frills Eclipse label that contains “Blaise Pascal” (1972), “Cartesius” (1974) and the three-part “Age of the Medici” (1973).
The radicalism of Rossellini's approach is immediately evident in “Louis XIV,” which begins with a group of peasants and tradesmen on a bank of the Seine discussing the great events taking place in the palace across the river. Cardinal Mazarin is dying, and the untested young king (Jean-Marie Patte, a pudgy little man who looks like a particularly debauched member of a 1970s heavy metal band) is about to assume the authority that has been held in reserve for him.
The dialogue is bluntly didactic, with characters telling one another things they would already know entirely for the benefit of the audience. The Louvre, looming in the background, is not an elaborately constructed set but an effect created by painting on glass — one of the earliest and simplest special-effects techniques.
Nothing could be further from the tasteful melodramatics and carefully staged spectacle of Fred Zinnemann's “Man for All Seasons” (1966), an Oscar-winning exemplar of historical filmmaking. Rossellini is not striving to create an illusion of well-rounded, lifelike characters or immersive historical detail, but to offer an analysis and an argument.
In this case, it's an argument drawn from the work of the historians Philippe Erlanger and Jean-Dominique de la Rochefoucauld, both consultants on the project: that Louis was able to tame a rebellious aristocracy partly by imposing on them fashions in food, clothing and architecture that were expensive enough to keep them in permanent debt.
Rossellini isn't asking his viewers to identify with his characters or become caught up in their personal dramas, as Zinnemann does. Instead he creates a detached perspective by dropping the whole system of close-ups and cross-cutting that classical cinema uses to envelop the spectator emotionally. Most scenes are shot in one or two long takes, using camera movements and zooms to close in on details or investigate relationships.
Reportedly, it was Rossellini himself who operated the zooms, using a remote control device of his own invention that allowed him to move in and out of a scene at will. In these films he uses the camera as a kind of scientific instrument — sometimes a microscope, sometimes a telescope — probing the world for information.
Which is not to say that the films are dry and clinical. For all of his scientific ambitions, Rossellini remains an artist who can't help giving his work emotional shading, from the sense of exhaustion and claustrophobia that pervades “Blaise Pascal” (with its slowly expiring protagonist, played by a young Pierre Arditi) to the utopian yearning of “The Age of the Medicis.”
“Medicis,” in three episodes of approximately 90 minutes each, begins as a movie about the shrewd worldliness of the banker Cosimo de' Medici (the dolorous, long-faced Marcello Di Falco) and ends as a tribute to the scholarly humanism of the author and architect Leon Battista Alberti (Virgilio Gazzolo, spherical and fast-talking). “Medicis” leaves us with an impression of Quattrocento Florence as a city of sublime harmony in which art and commerce are in perfect balance, seamlessly interdependent.
In his critical biography of Rossellini, Tag Gallagher quotes him speaking to an audience of New York University students in 1973: “One makes films in order to become a better human being.” Just watching Rossellini's magnificent work may help a bit in that department as well. (“The Taking of Power by Louis XIV,” $29.95, not rated; “Rossellini's History Films,” $59.95, not rated.)
Da The New York Times, 13 gennaio 2009
"Continuerò a passare per un pazzo, ma mi rifiuto di sapere come finirà il mio film il giorno in cui comincio le riprese (...) Di sicuro c’è questo, che quando inizio un nuovo film, parto da un idea senza sapere dove mi porterà (...)". Così, nel ‘48, Roberto Rossellini parla del suo modo di girare, senza una sceneggiatura chiusa, affidandosi alle suggestioni del set. Il suo cinema nasceva lì, nella concretezza del fare, nel diretto contatto con i luoghi e le persone (Rossellini era "curioso" delle persone, dell’individualità degli attori), e con una inesauribile volontà di sperimentare, provare, mutare. E proprio questa volontà appare come la costante delle sua opera in Roberto Rossellini, biografia critica dedicata da Gianni Rondolino al nostro maggiore autore (un autore così grande, che Francois Truffaut lo considerava uno degli spiriti più illuminati del nostro secolo). Trasformato dall’intellighenzia in una specie di manifesto vivente del neorealismo, dalla stessa intellighenzia fu poi accusato di "tradimento" per film come Europa 51 (1952) e soprattutto Viaggio in Italia (1954), che più nulla aveva di neorealistico. E poi, ancora, passato all’impegno "pedagogico" e alla televisione, la sua scelta fu troppo spesso considerata una resa alla sua conclamata "crisi", e non invece una nuova ipotesi di ricerca, una nuova utopia e un nuovo sogno affidati all’antico amore per il cinema. Quel che il cinema italiano - critica, pubblico, esercenti - gli chiedeva, alla fine, era di ripetere eternamente se stesso, di chiudere la sua poetica entro le intuizioni del primo dopoguerra, quelle di Roma città aperta (1945) e di Paisà (1946). Eppure, quei grandi film neorealistici erano nati proprio dalla volontà di Rossellini di sperimentare e provare, di non subire il peso di quel che è consolidato, dell’abitudine. In quel senso, per paradosso, la guerra era stata l’occasione di un’"immensa libertà ". "Nel 1944, subito dopo la guerra - scrive Rossellini undici anni più tardi sui Chaiers du Ciné ma -, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. (...) Si poteva godere di un’immensa libertà, l’assenza di un’industria organizzata favoriva le iniziative più eccezionali. (...) Fu questo stato di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale (...)". E poi, all’inizio degli anni 50 - di quello che Rondolino chiama il periodo "della solitudine" - la stessa voglia di "immensa libertà " lo porta a esplorare territori del tutto nuovi: l’egoismo e l’apertura agli altri in Stromboli, terra di Dio (1950) la ribellione al conformismo morale e intellettuale in Europa 51 la condizione umana e la solitudine esistenziale in Viaggio in Italia, film amarissimo, di una sensibilità che non teme l’usura del tempo, un capolavoro che vale almeno quanto Roma città aperta. Di Viaggio in Italia - che Jacques Rivette paragonò a un’opera di Matisse - Rossellini amava l’esilità narrativa, la semplicità del montaggio, la "spoliazione" dello stile: "spoliazione che rappresenta, per me, uno sforzo nuovo, ma quando riesco a realizzarla allora è una gioia senza limiti". Eppure critica, pubblico ed esercenti rifiutarono questo nuovo, sconcertante Rossellini. Rondolino va a scavare negli archivi e riporta alla luce antichi giudizi impietosi, antiche e scandalose stroncature. Ne vien fuori una lettura istruttiva, dolorosa, una lettura che la dice lunga sul conformismo, sulla mancanza di "fantasia" e di sensibilità, sulla pesantezza ideologica e sulla programmatica cecità della nostra cultura cinematografica. Dopo i "film della solitudine" - aggiunge Rondolino - di film in film la critica accentuò il rifiuto, in genere appuntandosi "sui contenuti delle opere (...) trascurando di proposito (o per incapacità) gli elementi (...) linguistici (...) gli aspetti innovatori della sua ricerca stilistica (...)". Eppure, quella ricerca continuò, anche se in disparte, lontano dalle scelte prevalenti nel cinema italiano. Rossellini abbandonò il cinema tradizionale e si volse all’utopia dell’"educazione integrale". Nacquero così le grandi opere pedagogiche dell’ultimo periodo, prima fra tutte La presa di potere da parte di Luigi XIV (1967). Tutto è comunicabile, diceva, dai problemi della scienza alle ricerche della storiografia. E quel che comunicò, però, non fu cinema-verità. Il cinema-verità è un dogma, diceva, qualcosa di immorale e pericoloso, di passivo e di inerte. Il suo cinema pedagogico, invece, era frutto di una scelta, era un’interpretazione del reale, un giudizio, un esplicito e coraggioso prender parte. C’era, in quelle opere, la stessa voglia di sperimentazione e di "infinita libertà " d’un tempo, ma in più c’erano un distacco e una saggezza nuovi. "Non mi propongo di essere un artista - dice poco prima di girare L’età del ferro (1965) -, ma un pedagogo. E ci saranno tante di quelle cose così straordinarie, che vi daranno una tale quantità di emozioni che io, io non sarò un artista, ma riuscirò, ne sono sicuro, a condurre qualcun altro all’arte". Ci sono, in queste parole, un’umiltà di fronte al mestiere e al futuro del cinema, che solo la grandezza dell’autore e dell’uomo possono spiegare.. Gianni Rondolino, "Roberto Rossellini", Utet, Torino 1989, Collezione "La vita sociale della nuova Italia", 50 fotografie, pagg. 426.
Da Il Sole 24 Ore, 30 Luglio 1989
Amava sposarsi ma detestava i rituali delle nozze. Sul set aveva i pantaloni sformati e le scarpe impolverate ma dava del lei a tutti: agli attori come ai macchinisti. Però resta un genio a lungo incompreso e un grande seduttore, tra amori trasgressivi e grandi affetti, film straordinari e titoli da dimenticare, momenti di eccezionale benessere economico e montagne di cambiali... E le donne, tante, belle, importanti. Comunque appassionate.
Scandali e segreti che hanno costellato pubblico e privato del regista di Roma città aperta e Paisà. Seguirne il filo, tra una tappa e l’altra della sua carriera cinematografica, è leggere la vita di Rossellini da un punto di vista più intimo e a tratti inedito. Riemergono, dalla giovinezza di un ragazzo ricco e viziato, la francesina Titti Michelle, inseguita a Parigi, e il flirt con la soubrette Uliana Castagnola.
Primi anni Trenta: Rossellini padre pur di allontanare Roberto da quella donna «bellissima e probabilmente drogatissima» lo fece brevemente ricoverare in una clinica. Giusto il tempo di dimenticare. L’estate dopo, a Capri, l’incontro con la bella Diana Varè, figlia di un ambasciatore, attrice nel suo primo corto: secondo Pupetto di Sirignano, un’avventura comunque brevissima.
E con Assia Noris, giovane stella del regime? Ci fu davvero quel matrimonio segreto, annullato in 48 ore, nella chiesa ortodossa di Nizza? Gossip di una mondanità lontana. Il vero matrimonio, nel 1936, fu con «Marcellina» De Marchis, la donna amata per tutta la vita, madre di Romano, morto bambino, e di Renzino (per distinguerlo dall’omonimo zio musicista). Finì nel 1942 ma Marcellina non uscì mai di scena: è stata l’ancora di una grande famiglia e di una vita. Tanto che Roberto morì, trentacinque anni dopo la separazione, proprio tra le sue braccia.
Con il successo, è stata lei a raccontarlo, le donne «presero ad assediarlo come zanzare». Negli anni della guerra lo conquistò la tedesca Roswitha Schmidt, «occhi verdi e cuore di marzapane»: era una ballerina della compagnia di Totò, fu Irina in L’uomo della croce.
Poi la passione più turbolenta: Anna Magnani. Non la conosceva ancora quando le offri la parte di Pina in Roma città aperta ma uscì il film ed era già amore. «Come una montagna russa»: successi, stroncature, scenate. Per esempio, quella degli spaghetti che Anna gli rovesciò addosso solo perché «era un po’ assente» per l’attesa di un telegramma. In realtà, nel 1948, esattamente il giorno del suo quarantaduesimo compleanno, fu una lettera ad accendere la sua curiosità: «Signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese, che parla molto bene l’inglese, che non ha dimenticato il tedesco, non riesce a farsi capire molto bene in francese e in italiano sa dire solo “ti amo” sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei». Non voleva essere una dichiarazione ma solo un gioco: Ingrid Bergman in realtà aveva usato le parole che sussurra a Charles Boyer in Arco di trionfo. Ma quel messaggio cambiò la vita di Rossellini: in fuga tra Amalfi e Roma, di nuovo scandali, Stromboli mentre una Magnani infuriata girava Vulcano nell’isola di fronte, poi il divorzio, una nuova casa. E altri figli: Robertino, le gemelle Isotta e Isabella. Avrebbero avuto qualche anno dopo nuovi fratelli, Gil e Raffaella, di Sonali Das Goupta, conosciuta nel 1957 durante le riprese del film indiano, Con lei durò 17 anni. Ma l’ultima giovinezza per Rossellini arrivò con Silvia D’Amico, figlia della sceneggiatrice Suso Cecchi. Conosciuta mentre moriva Anna Magnani.
È l’ultima istantanea privata del maestro, con la solita camicia di lino messicano fatta su misura e il fazzoletto di seta attorno al collo, profumatissimo di Rose of Manchester. Un amore a 70 anni e Rossellini riuscì a farla sorridere perfino un anno dopo la sua morte: «Quando le arrivò un conto pazzesco di tartufi bianchi rimasto in sospeso...».
Da Panorama, 26 agosto 2004
È un peccato che gli organizzatori del Premio Fiesole ai "maestri del cinema italiano", assegnato quest'anno a Roberto Rossellini, abbiano deciso, per varie ragioni, di contenere il dibattito sul regista e sulla sua opera in limiti troppo angusti. Il riconoscimento a Rossellini, sul quale non abbiamo nulla da obiettare quando venga storicamente circoscritto agli anni 1945-48, allorché il contributo di questo autore alla nascita del nostro cinema fu certo determinante, per il contesto in cui oggi si colloca avrebbe richiesto un più ampio confronto di analisi e di idee. È noto infatti che la presunta "rinascita" rosselliniana è passata, in anni recenti, attraverso due fasi, fino a un certo punto distinte: il ritrovamento, da parte di certa critica di sinistra incline ai tatticismi più deleteri, del Rossellini di Roma città aperta e di Paisà in quello "neoresistenziale" e commemorativo de Il generale Della Rovere e di Era notte a Roma; la riscoperta, da parte francese (ma anche italiana da un po' di tempo), del cosiddetto secondo tempo rosselliniano, da Francesco giullare di Dio a Viaggio in Italia.
Sulla rivalutazione di questo Rossellini, e sia pure da un punto di vista meno ozioso di quello francese (riproposto a Fiesole con molte parole e pochissime idee dal "fervido" Comolli redattore dei «Cahiers»), era imperniata in gran parte l'interessante relazione introduttiva di Giuseppe Ferrara, per il quale la discussa "involuzione" del regista, dopo Germania anno zero, sarebbe invece rifiuto consapevole del populismo presente in tanti film neorealistici, apertura europea in senso spiritualistico, discorso anticipatore di molto cinema "moderno", da Antonioni a Bergman. Se è relativamente facile consentire con Ferrara sulla irrilevanza di certe categorie moralistiche quali "tradimento", "defezione", ecc., che furono adoperate a suo tempo, da alcuni, per spiegare la "crisi" di Rossellini e che invece servivano ben poco, è molto difficile, secondo noi almeno, seguire il relatore nel merito della sua pur stimolante proposta.
Se è vero, infatti, che nella varia e disordinata filmografia rosselliniana si può avvertire una continuità di istanze spiritualistiche, del resto abbastanza rozze e schematiche (e sulle quali comunque, come ricordava Aristarco nel suo intervento, sarebbe necessario discutere con minore genericità), mi sembra che il nodo centrale del discorso debba ancora essere, senza giustapposizioni meccaniche, il personalissimo rapporto del regista con il tempo e il suo sintomatico atteggiarsi nei confronti di questo. In un'epoca di violenta lacerazione, segnata dal disgregarsi di un ordine e dall'impetuosa affermazione di un altro, diverso e migliore (nelle premesse se non negli sviluppi), Rossellini aderisce al crollo e alle attese dell'immediato dopoguerra come testimone partecipe, cronista drammatico, storiografo a suo modo di una storia in atto, in cui le "ragioni" fanno corpo con il movimento e il senso dei fatti. Nella violenta frattura che si è determinata, il regista respinge e condanna fascismo e nazismo come "antistoria" e fa propria la nuova storia con una nettezza morale e una violenza figurativa che le immagini più alte e disadorne di Roma città aperta e di Paisà ripropongono intatte.
Non è certo casuale che, quando alla lacerazione netta e inequivocabile subentra una fase più difficile e insidiosa e le contraddizioni dell'antifascismo e della Resistenza esplodono per assestarsi provvisoriamente in una restaurazione, non più che rispettabile, dell'antico ordine, quel rapporto immediato, ma tutt'altro che piatto e impersonale, entri in crisi. Le ragioni non fanno, non possono più fare corpo con i fatti, ammesso che questo fosse mai stato possibile (ma per Rossellini lo era stato: rigore di "moralità" e incertezza di "ragioni" si accompagnavano strettamente nella figura, non a caso così irrisolta, dell'ingegnere di Roma città aperta).
Il regista sconta, e rovescia a suo modo, una delusione etico-politica, che fu di molti intellettuali della sua generazione. E il discorso cambia registro non perché egli fosse consapevole dei pericoli del "populismo", ma perché le sue ragioni, così nette e immediate, così inclini a riconoscersi e a risolversi in una cronaca diretta ed esemplare, non possono aiutarlo a fare i conti con una situazione tanto diversa, in cui il furore conoscitivo del regista non trova più materia d'urto e accensione in una realtà sgradevolmente contraddittoria.
Per quanto possa sembrare difficile trovare un denominatore comune all'idillio religioso di Francesco e al rozzo melodramma spiritualistico di Stromboli terra di Dio, all'anarchismo misticheggiante di Europa '51 e al miracolo conclusivo di Viaggio in Italia, una costante esiste e si ripropone di film in film. Pur tra incertezze, sbandamenti e sommarietà di ogni genere, il bersaglio negativo del discorso è sempre l'istituzione, il rapporto codificato - all'interno della chiesa, della famiglia o della società in genere - e il mito che si insinua e prende corpo, tra ricuperi dannunziani e orecchiamenti da Marcel o da Mounier, è quello di una "natura" non toccata e corrotta dalla storia.
E chiaro che questo momento, dello slancio come affermazione di moralità, era presente anche nell'"altro" Rossellini, ma contenuto e reso significante dal suo risolversi nell'urgenza di una certa storia che spezzava e travolgeva una certa istituzione. Ma ora natura e storia, provvisoriamente saldate in un cerchio di violenza e di furore, tornano a separarsi, respinta questa in nome di un moralismo velleitario e livellatore, mitizzata quella, e spesso con esiti mistificatori, alla luce di un'"utopia" generica e di corto respiro, i cui estremi sono, se vogliamo, la "reclusione" volontaria dei protagonisti di Europa '51 e di Dov'è la libertà? e il "risveglio" vitalistico della coppia di Viaggio in Italia a contatto con un "paesaggio" acceso e clamoroso.
Comunque lo si giudichi, non vedo che cosa c'entri Brecht con questo discorso. Confondere l'"oggettività", che è spesso sciatteria senza aggettivi, del secondo Rossellini con lo "straniamento" brechtiano, come oggi si ama fare da molte parti, non mi sembra né pertinente né utile. Lo straniamento non è una "tecnica" intercambiabile, ma la strumentazione stilistica di una drammaturgia per la quale il teatro è un momento e un modo di cambiare il mondo. E poi quello di Rossellini, quando è grande, non è mai un cinema di distanziamento critico, ma di identificazione e di testimonianza definitiva, senza molte aperture e prolungamenti problematici (se c'è un autore che "chiude" sempre e lascia ben poco spazio alla riflessione critica dello spettatore è proprio lui).
E non è di nuovo casuale, per concludere, che quando Rossellini tornerà indietro nel tempo, nel tentativo, anche, di narrarne le ragioni dopo avercene dato l'emozione, egli non sappia andare al di là del patriottismo resistenziale del Della Rovere o, peggio, dell'intollerabile ricalco commemorativo di Era notte a Roma, in cui la riproposta di un'inesistente unanimità antifascista di ieri diventa alibi e copertura dei contrasti e delle iniquità del presente.
Da Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2005
Roberto Rossellini preferisce la vita
Quando lo ho conosciuto, a Parigi nel 1955, Rossellini era completamente scoraggiato: aveva appena terminato in Germania La paura (o Non credo più all’amore, 1954) da Stefan Zweig e pensava seriamente di abbandonare il cinema; tutti i suoi film da L’amore (1948) in poi erano stati dei fallimenti commerciali e fallimenti agli occhi della critica italiana.
L’ammirazione che i giovani critici francesi riservavano ai suoi ultimi film – e precisamente ai più “maledetti”: Francesco, giullare di Dio (1950), Stromboli, terra di Dio (1 949), Viaggio in Italia (1953) – fu per lui un conforto. Che un gruppo di giovani giornalisti con ambizioni di regia lo avessero scelto, proprio lui, come maestro, spezzò la sua solitudine e risvegliò il suo immenso entusiasmo. Fu in questa occasione che Rossellini mi propose di lavorare al suo fianco; accettai e, pur continuando il mio lavoro di giornalista, sono stato il suo assistente per tre anni durante i quali non ha impressionato un solo metro di pellicola. Tuttavia il lavoro non mancava e molto ho imparato standogli vicino.
Durante una conversazione con qualcuno, gli veniva un’idea per un film. Mi telefonava: “Si comincia il prossimo mese”. E immediatamente bisognava comperare tutti i libri sull’argomento, raccogliere una documentazione, contattare un sacco di gente, agitarsi.
Una mattina mi telefona. La sera prima, in un ritrovo notturno, qualcuno gli ha raccontato le disavventure teatrali di Georges e Ludmilla Pitoëff; entusiasta, vuole cominciare il film tra qualche settimana. Immediatamente si identifica con il personaggio; mostrerà Pitoëff che si dà da fare per trovare parti di donne incinte quando Ludmilla attende un bambino, che appende lui stesso i teloni un’ora prima della prova generale, che affida all’ultimo momento una parte importante alla figlia del guardarobiere, che si fa insultare dalla critica a causa della cattiva dizione degli attori, i problemi di denaro, i debiti, le tournées ecc.
Un mese dopo ha già dimenticato i Pitoëff; viene invitato a Lisbona per discutere di un film su la Regina morta. È andato a passare una giornata a casa di Charlie Chaplin a Vevey e mi dà appuntamento a Lyon; filiamo su una Ferrari fino a Lisbona. Guida giorno e notte; devo raccontargli storie per tenerlo sveglio e mi dà uno strano flacone da annusare ogni volta che mi vede sul punto di addormentarmi.
I pescatori dell’Estoril mancano di verità e sembrano fare una pittoresca messa in scena per stupire i turisti, una delle loro barche porta niente meno che il nome di Linda Darnell. A Roberto non va a genio il Portogallo. Rientriamo attraverso il sud della Spagna, attraverso la Castiglia. Lo sterzo della Ferrari si guasta in piena corsa. In una notte, in un paesino, alcuni operai costruiscono un pezzo che ci permette di ripartire. Colpito dal talento, dal coraggio e dalla coscienziosità dei meccanici del garage, Roberto decide allora di tornare in Castiglia a girare Carmen. Rientriamo a Parigi e cominciano le trattative con i distributori. Ai “Ballets Espagnols”, ha trovato una ballerina, una moretta di quindici anni, una Carmen ideale. I distributori, anche in Francia, diffidano di Roberto, delle sue improvvisazioni, ed esigono una sceneggiatura. Con tre esemplari di un’edizione popolare di Carmen di Prosper Mérimée, un paio di forbici e un rullino di scotch metto insieme (in senso proprio e figurato) una sceneggiatura di Carmen necessariamente fedele, alla lettera!
Ma i distributori vorrebbero una diva, qualcuno suggerisce Marina Vlady, bionda come il grano, ma nel frattempo Roberto ha mutato interessi. Da qualche tempo Roberto incontra un personaggio misterioso, segreto. Costui non viene mai all’albergo né Roberto va a casa sua; gli incontri avvengono per la strada, ogni volta in un punto diverso. Si tratta di un diplomatico sovietico. Roberto ha progettato un Paisà sovietico, una raccolta di sei o sette storie tipiche della vita moderna in Russia. Roberto si fa ogni giorno tradurre la “Pravda”, si legge chili di libroni e comincia a immaginare le sue storie. Molto presto c’è uno scontro con il diplomatico a causa di una storia giudicata troppo umoristica. Eccola: un cittadino sovietico scorge da lontano, nella strada di una piccola città, sua moglie che ha tutta l’aria di recarsi a un appuntamento amoroso. Folle di dolore e di gelosia, la segue; più volte la perde di vista, più volte gli sembra di ritrovarla a braccetto di un altro. La chiave della storia sta nel fatto che il principale magazzino della città ha ricevuto un nuovo modello d’abito in un centinaio di esemplari e quel giorno tutte le donne sono vestite allo stesso modo.
Abbandonato suo malgrado questo progetto, Rossellini si ritrova senza lavoro, vittima di condizionamenti che non erano più, questa volta, commerciali, ma politici.
Quando Rossellini scrive una sceneggiatura, non si pone nessun problema di racconto; gli basta il punto di partenza. Dato un personaggio, con una religione, un modo di nutrirsi, una nazionalità, un lavoro, non potrà avere che determinati bisogni, determinati desideri, determinate possibilità di soddisfarli. Una sfasatura tra bisogni, desideri e possibilità è sufficiente a creare il conflitto che si svilupperà da solo, una volta tenuto conto delle realtà storiche, etniche, sociali e geografiche, della terra cui appartiene. Nessun problema quindi per portare a termine il film: il finale sarà suggerito dalla somma, pessimista o ottimista, di tutti gli elementi del conflitto. Si tratta insomma, per Rossellini, di ritrovare l’uomo, che tante illegittime finzioni ci hanno fatto perdere di vista, di ritrovarlo prima di tutto attraverso un approccio strettamente documentario, poi di immetterlo in un intreccio il più semplice possibile, raccontato nel modo più semplice possibile.
Rossellini, nel 1958, sapeva benissimo che i suoi film non erano come gli altri, ma riteneva giustamente che toccasse agli altri cambiare e assomigliare ai suoi. Diceva per esempio: “L’industria cinematografica in America è basata sulla vendita delle macchine da proiezione e sull’esercizio; i film hollywoodiani costano troppo cari per essere redditizi e non a caso costano troppo cari; per scoraggiare la produzione indipendente. È dunque una follia in Europa mettersi a imitare i film americani e se i film realmente costano troppo cari per poter essere pensati e realizzati liberamente, smettiamo di fare film, facciamo schemi di film, abbozzi”.
È così che Rossellini è diventato, secondo l’espressione di Jacques Flaud, il “padre della Nouvelle Vague francese”. È vero che, ogni volta che arrivava a Parigi, ci incontrava e si faceva proiettare i nostri film da dilettanti, leggeva le nostre prime sceneggiature. Tutti quei nomi nuovi che, nel 1959, sorprendevano i produttori francesi che li scoprivano ogni settimana nella rubrica dei film in preparazione, erano da tempo noti a Rossellini: Rouch, Reichenbach, Godard, Rohmer, Rivette, Aurel. In realtà, Rossellini fu il primo a leggere le sceneggiature di Le beau Serge (id., 1959) e di Les quatre cents coups (I quattrocento colpi, 1959). Fu lui a ispirare Moi, un noir (1959) a Jean Rouch, dopo aver visto Les mâitres fous (1954-55).
Rossellini mi ha influenzato? Sì. Il suo rigore, la sua serietà, la sua logica mi hanno un po’ liberato dal cieco entusiasmo per il cinema americano. Rossellini odia i titoli di testa astuti, le scene messe prima dei titoli di testa, i flashes-back e, in genere, tutto ciò che è decorativo, tutto ciò che non serve l’idea del film o il carattere dei personaggi.
Se, in alcuni dei miei film, ho cercato di seguire semplicemente e onestamente un solo personaggio e in modo quasi documentario, è a lui che lo devo. A parte Vigo, Rossellini è il solo cineasta che ha filmato l’adolescenza evitando il sentimentalismo, e Les quatre cents coups devono molto al suo Germania anno zero (1947).
Ciò che ha reso difficile la carriera di Rossellini è , credo, che ha sempre trattato il pubblico alla pari, lui che è un uomo eccezionale ed eccezionalmente intelligente e vivo; è perché non indugia, non spiega, non sviluppa, non ricama: butta là le sue idee rapidamente una dopo l’altra. Jacques Rivette ha potuto dire di lui: “Non dimostra, mostra”, ma la sua prontezza di spirito, la sua logica, la sua straordinaria capacità di assimilazione gli fanno prendere il sopravvento e a volte distanziare di molto i suoi spettatori. Questa capacità di assimilazione, questo amore per i grandi temi contemporanei si leggono in trasparenza alla semplice elencazione della sua filmografia: Roma città aperta (1945) riguarda una città, Paisà (1946) l’Italia tutta intera, da sud a nord; Germania anno zero il grande paese vinto e distrutto, Europa 11 (1952) il nostro continente ricostruito materialmente ma non moralmente.
In sei mesi ha visto tutto in India e ne ha riportato India (1958), film di straordinaria semplicità e intelligenza, che non ha l’aspetto di un’antologia di paesaggi e di fatti, ma offre una visione globale del mondo e costituisce una meditazione sulla vita, sulla natura, sugli animali. Questo film, India, non è datato e “situato” come gli altri, costituisce, fuori del tempo e dello spazio, un poema libero che solo può essere paragonato a quella meditazione sulla gioia perfetta che è Francesco, giullare di Dio.
So che sto per dire una cosa pericolosa, ma è vera: Rossellini non ama il cinema come le arti in generale. Preferisce la vita, preferisce l’uomo. Non apre mai un romanzo ma passa la sua vita a documentarsi; legge per notti intere libri di storia, di sociologia, opere scientifiche. Gli piace saperne di più e, sempre di più, aspira a dedicarsi a film culturali.
In verità Rossellini non è un “attivista” né un uomo ambizioso; è un curioso, un uomo che si informa, un uomo che si interessa agli altri più che a se stesso.
Non ci si può chiedere perché è diventato regista, come è arrivato al cinema; vi è arrivato per caso, o piuttosto per amore. Era innamorato di una ragazza che era stata notata da certi produttori e ingaggiata per girare un film. Per pura gelosia, Roberto la accompagnava allo stabilimento e, dato che la produzione non era particolarmente ricca e lo vedevano sempre là inattivo, gli chiesero, visto che aveva un’auto, di passare tutti i giorni a prendere il protagonista maschile del film, Jean-Pierre Aumont, e di portarlo agli studi.
I primi film di Rossellini furono documentari sui pèschi e immagino che sia stato per amore della Magnani che si sia adattato a fare film di finzione. Vi è stato spinto inoltre dagli stimoli che gli venivano dalla visione dell’Italia in guerra.
In fondo, e l’unico recente successo di Rossellini, Il generale Della Rovere (1959), ce lo ha confermato, lo stile di Rossellini è ammesso dal grande pubblico e dalla critica solo quando è al servizio della guerra, le “attualità filmate” avendoci abituati a questa verità dura e violenta.
Siamo forse in errore, noi che amiamo Rossellini e lo ammiriamo, se pensiamo che ha ragione a filmare i conflitti di coppia, le capriole francescane e le scimmie del Bengala come se fossero combattimenti per le strade, “attualità”, “attualità” di tutti i tempi?
L’ultima volta che lo ho visto, Rossellini mi ha fatto leggere una sceneggiatura di cento pagine sul ferro (L’età del ferro, 1964). Conta di trarne un film di cinque ore per le scuole, di tre ore per la televisione e di un’ora e mezza per le sale cinematografiche. Era molto bella da leggere e il risultato sarà sicuramente buono, ma mi sono chiesto: malgrado tutto gli permetteranno un giorno di realizzare i suoi grandi progetti: un film sul Brasile intitolato Brasilia, I dialoghi di Platone, La morte di Socrate?
(1963)
Post-scriptum 1977. Molti anni della mia vita sono legati a Roberto Rossellini, ma non è oggi che voglio rievocarli. Roberto Rossellini era l’uomo di cinema più intelligente, più colto e anche il meno estetizzante. Se è vero che l’artista si nutre della sua stessa nevrosi, allora Rossellini non era un artista, perché non ho incontrato mai nessuno meno narcisista. Detestava la finzione, gli intrighi, i romanzi. Non amava che le opere storiche e scientifiche. Curioso e dotato del gusto dell’informazione, detestava tutto ciò che è vago, sfumato, non formulato, suicida. Come Jean-Paul Sartre, pensava che tutto è comunicabile. Era anche un amico caloroso e buono. Tra la gente celebre che ho conosciuto, era forse il solo che si interessava prima degli altri che di se stesso.
(Dichiarazione rilasciata, dopo la morte di Rossellini a “Le Matin”, 4 giugno, 1977)
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975
«Inventa» (non lui solo, ma lui soprattutto) il neorealismo, lo fa confluire in uno psicologismo spiritualista ché soddisfa le nuove esigenze della società italiana del «miracolo economico», volta le spalle alle ideologie per dedicarsi alla pedagogia, in una paradossale sfida ai luoghi comuni e alla ignoranza avanzante. È un cattolico, figlio di un imprenditore edile (la famiglia è di origine toscana e veneta), studente svogliato, appassionato di esperimenti meccanici, seduttore soffice ed elegante. Attraversa il fascismo servendolo solo quel tanto che basta per non sporcarsi le mani (con film non spregevoli come La nave bianca, 1941) e si affaccia al dopoguerra con lo sguardo sgombro da pregiudizi, se non quelli (inevitabili) dei generi cinematografici. La scoperta di Roma città aperta (1945) nasce, appunto, dalla necessità di comprendere e dall'ossequio alle regole del melodramma e della commedia. Dopo questa storia della Resistenza nella capitale, Rossellini acquista non solo comprensione (della realtà) ma anche coscienza (del linguaggio) e s'ingegna di elaborare un adeguato stile per la tragedia che si appresta a narrare: di qui i capolavori. Paisà,(1946), sei episodi della guerra in Italia, e Germania anno zero (1947), gelido ritratto di un paese traviato e distrutto.
La transizione allo spiritualismo, da lui ritenuto un grimaldello più efficiente per penetrare nella realtà, si sviluppa attraverso i due episodi di Amore (1948) interpretati da una dolente Anna Magnani, si precisa con Stromboli- terra di Dio (1949), il calvario e la «redenzione» di una donna giunta da lontano (Ingrid Bergman), e la «perfetta letizia» di Francesco giullare di Dio (1950). La parabola si completa con Europa 51 (1952), gli smarrimenti di un'anima femminile, e con Viaggio in Italia (1953), gli smarrimenti di una coppia immersa in una vita inautentica. Con queste coraggiose esperienze Rossellini esce dal clima neorealista ed entra nella realtà, ma si emargina dal cinema italiano.
Costretto a sbandare fra tentativi modesti (il più interessante è il documentario India, 1958), trova un'ancora di salvezza nella televisione, dove può inaugurare la terza fase della sua vita creativa, dedicandosi alla storia e alla sua divulgazione, dapprima con un intrigante La presa di potere di Luigi XIV (1966), poi con una serie di variazioni pedagogiche, alcune interessanti (Socrate,1970, Blaise Pascal,1974), altre di grande e intensa ingenuità (Gli atti degli Apostoli, 1968), altre decisamente mediocri. Tornato al cinema, conclude la sua carriera con un centone storico sulla nascita dell'Italia repubblicana (Anno uno, 1975) e con uno sconnesso, manieristico e singolare Il Messia, (1978).
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Nel 1960 Roberto Rossellini gira Era notte a Roma, opera che, assieme al precedente Generale Della Rovere, forma un dittico sul tema resistenziale, capace di imprimere una spinta alla ripresa e rivisitazione di un argomento da tempo uscito dall'orizzonte cinematografico. Era notte a Roma pone sul tappeto non tanto nuove ipotesi stilistiche (il sistema rosselliniano evolve lentamente e in questa fase giunge al massimo di concessione alle ragioni dello spettacolo) quanto una serie di problemi di nuovo tipo, saldando il discorso dell'unità della lotta antifascista col mutamento della politica nazionale interna, la fine della guerra fredda e l'inizio della distensione internazionale. L'incontro di un russo, un americano e un inglese con i rappresentanti italiani della Resistenza, con personaggi popolari e figure di vertice della chiesa romana; da una parte riporta un atteggiamento di fondo del regista e conferma lo spirito ecumenico della sua visione della storia, dall'altra è legato in maniera fin troppo palese al mutamento dei rapporti politici in Italia e all'estero. In questo senso Rossellini si conferma regista tra i più disponibili a eseguire, con coerenza, nell'arco di tutta la sua carriera, opere per conto di una committenza politica e di governo di maggioranza. Lo sforzo più rilevante sul piano dell'interpretazione storiografica - al di là dell'invito alla pace, alla fratellanza e all'amore tra i popoli - va in direzione soprattutto di un recupero alla lotta di Resistenza delle alte gerarchie vaticane (non dimentichiamoci che, proprio a partire da questi anni, si svilupperà una violenta polemica sul ruolo del papa e sulla politica vaticana nei confronti della questione ebraica e del nazismo).
Si tratta ormai - come già era stato notato a proposito del film precedente - di una storia sfocata, verso la quale il regista non dimostra un interesse conoscitivo particolare, né trova quella giusta dimensione che gli consente di sottrarsi al pericolo di influenzare il suo destinatario.
Assai più interessante il successivo Viva l'Italia (1961) che, pur realizzato su commissione per il centenario dell'unità nazionale, e di conseguenza con una non perfetta calibratura dei materiali, è destinato a esercitare un ruolo anticipatore, così come le due precedenti opere segnano il congedo dal tema resistenziale.
In senso politico il compito da svolgere è quello della dimostrazione che il Sud è stato annesso all'Italia con tutti gli onori e senza gravi perdite, neppure in prospettiva storica. L'idea di ricostruire un grande affresco, mantenendosi al di fuori della tradizione risorgimentale di tipo agiografico e monumentale e al massimo dentro la cronaca e il reportage in diretta (il modello peraltro è sempre, dai tempi di 1860 di Blasetti, Da Quarto al Volturno di Cesare Abba), viene sostanzialmente rispettata. Anche il proposito di rappresentazione didattica è mantenuto, mentre si comincia ad assistere a una divaricazione dell'uso della parola e dell'immagine, che diventerà tipica del Rossellini televisivo. A un'immagine che si vuole spoglia e riportata alla sua nuda fattualità si oppone, da parte dei personaggi, la coscienza linguistica di essere produttori e protagonisti di storia. I personaggi rosselliniani parlano assai spesso con la voce degli storici che li hanno interpretati. La parola conferma anche l'idea di storia dei manuali scolastici, la messa in evidenza delle frasi celebri, la capacità dei protagonisti di comunicare mediante un filo diretto con i propri posteri. In pratica esistono funzioni illocutorie dell'asse verbale non sintonizzate con il piano visivo che punta alla diretta referenzialità. Questa biforcazione dei testi visivo e verbale, avvertibile in Viva l'Italia, lo sarà di meno nei film televisivi inaugurati dalla Prise de pouvoir par Louis XIV. L'effetto immediato è comunque quello dell'immersione maggiore nel quotidiano, senza peraltro che si effettui completamente il passaggio a un modo totalmente diverso di rappresentare la storia. Rispetto a De Sica e Visconti, Rossellini appare come l'autore più inquieto e visionario, più facilmente disposto a compromessi e più proiettato alla conquista dei nuovi orizzonti della visione. Dagli inizi degli anni Sessanta abbandona progressivamente le vicende di finzione per esplorare nuove possibilità rappresentative e di divulgazione della storia vista nel modo più ampio e inclusivo possibile. Storia è tutto ciò che viene colto nel suo divenire, è rappresentazione del «doloroso cammino degli uomini» (Fink), che si oppone a quella realtà morta, inorganica, rappresentata ad esempio dalle ossa di Viaggio in Italia. Inoltre, e soprattutto, storia è ricostruzione antropologica di gesti e situazioni comuni, promozione del quotidiano al livello della storia alta. Non esiste per lui una sostanziale differenza tra micro e macrostoria: i grandi avvenimenti e i protagonisti colti nella dimensione ufficiale non sono mai separati dalla dimensione più comune, gli aspetti ripetibili dell'evento sono importanti quanto la sua unicità. Tra tutti i percorsi possibili la storia presenta anche un andamento lineare e Rossellini si sente investito nei suoi confronti non tanto del ruolo del grande interprete, del depositario di un sapere e di una memoria collettiva, quanto di un più umile ruolo di inviato speciale in vari territori e momenti del passato. La sua scrittura visiva di film in film si fa più essenziale e i diversi attori ed elementi paiono assumere in prevalenza solo funzioni denotative. Senza saperlo, e comunque al di là delle intenzioni dei committenti di Viva l'Italia - che pure pesano nella rappresentazione - per doti naturali Rossellini, con il film su Garibaldi, si pone nella direzione indicata dalla storiografia degli Annales, e avvia un progetto di rappresentazione della storia mediante il cinema, che trova la definitiva registrazione di tutte le componenti solo alla fine degli anni Sessanta. Viva l'Italia si può giudicare come un'opera di bassa definizione ideologica e ad alta produttività stilistica. Il successivo Vanina Vanini (1961), tratto dall'opera di Stendhal, può essere considerato anch'esso come opera situata in uno spazio sospeso, in cui si mescolano elementi tradizionali e prefigurazioni del nuovo e in cui il regista pare cercare una conferma alla sua incapacità di continuare in direzione dello spettacolo, il film è particolarmente amato dai sostenitori del regista. La compresenza tra gli sceneggiatori, anche in quest'opera, di figure come Diego Fabbri e Antonello Trombadori riconferma lo sforzo di far coesistere voci appartenenti a blocchi politici contrapposti, sforzo, anche in questo caso, non ripagato da risultati positivi. La crisi e l'inquietudine vengono ribadite dalla realizzazione di Anima nera e dall'episodio di Rogopag.
Il passaggio alla televisione - a questo punto della sua carriera, in cui il recupero di identità e prestigio agli occhi della critica è avvenuto solo a prezzo di vistosi compromessi con la produzione - gli consente di cominciare un discorso di lungo periodo, conquistandosi, da zero, un pubblico dalle dimensioni sconosciute e inventando o esplorando, con spirito pionieristico, un enorme terreno di rappresentazione tuttora vergine. La prise de pouvoir par Louis XIV, più che L'età del ferro, pensato e supervisionato ma non diretto, inaugura l'ultima fase della sua attività, quella che lo riporta al centro dell'attenzione per l'autentica capacità innovativa e riattiva le voci critiche nei suoi confronti, riamalgamandole in un coro unanime. Passando alla televisione Rossellini ha l'impressione di controllare il prodotto in tutte le fasi realizzative, di potersi liberare dai condizionamenti produttivi e ideologici, dalla necessità di mediare continuamente, come troppo a lungo era stato costretto a fare. Con l'entusiasmo e la spinta dei momenti più felici, si tuffa in questa nuova avventura scoprendo orizzonti storiografici e scientifici sconosciuti e proponendosi di divulgarne al massimo la conoscenza. L'immagine riconquista quel senso di «splendore del vero» di cui aveva parlato Godard a proposito di India. Il mezzo televisivo gli apre il terreno della storia dell'umanità da raccontare e ricostruire nella più assoluta libertà. Negli ultimi anni della sua attività Rossellini manifesta, nei confronti della materia scelta di volta in volta, il medesimo stupore e la accosta con la stessa cura e lo stesso amore, cercando di ridare verosimiglianza all'accadimento storico, riconducendolo al suo contesto più proprio e cercando di immergerlo al massimo nel vivo della cultura materiale della sua epoca. Nella Prise de pouvoir par Louis XIV segue, passo per passo, il lucido progetto di conquista del potere da parte del giovane sovrano, mostrando come, attraverso una precisa orchestrazione dei propri gesti privati, Luigi XIV riesca a raggiungere il dominio assoluto della propria corte. L'ironia diffusa lungo tutto il film agisce insieme da elemento straniante e da motivo che unifica i vari momenti chiave dell'azione, dalla morte di Mazarino all'arresto di Colbert (che maliziosamente allude all'arresto di Mussolini dopo la seduta del 25 luglio 1943), l'apparizione del re in un mostruoso vestito rosso, l'interminabile cerimoniale del pranzo, a cui la corte è obbligata ad assistere, ecc.
Da questo momento, senza rimpianti, Rossellini comincia a considerare reciso, in via pressoché definitiva, il legame con la produzione cinematografica. Atti degli apostoli (1968), Socrate (1970), Blaise Pascal (1971), Agostino d'Ippona (1972), L'età di Cosimo (1973), Cartesius (1914), II messia (1975) sono tappe successive di un medesimo disegno perseguito con rigore e partecipazione conoscitiva e stilistica. Il ritorno al cinema, con Italia anno uno (1974), accentua il senso di disagio, di estraneità al film, il suo rapporto di regressione ideologica rispetto all'argomento accettato. Chiamato, ancora una volta, a farsi cantore di regime, Rossellini cerca di evitare la logica della celebrazione, ma sembra incapace di costruire, anche sul piano della semplice verosimiglianza, i suoi personaggi, a partire dallo stesso De Gasperi, soggetto centrale dell'azione. Lo «splendore del vero» si tramuta in un documento opaco, in cui figurine sbiadite recitano battute con la competenza e la credibilità di una compagnia filodrammatica. Verità e verosimiglianza gli sembrano possibili solo tuffandosi in un passato assai remoto, che gli consenta di non subire pressioni e condizionamenti e di reinventarsi un presente meno condizionato da schemi. Con il suo cinema didattico, che prevedeva anche una biografia di Marx, Rossellini riconquista il senso della propria coerenza espressiva e comunicativa della piena paternità della propria opera e indica una strada che si proietta direttamente verso il prossimo millennio. La macchina per lui ha una sua logica e dalla sua giusta collocazione dipende lo svolgimento razionale di tutto il film. Quanto già gli era riuscito di realizzare con Francesco giullare di Dio viene riproposto in una fase dello sviluppo cinematografico che il cinema di finzione, grazie all'uso di obiettivi sempre più potenti, del colore e del montaggio, pare aver dimenticato del tutto. Riportarsi agli usi più semplici e logici della macchina da presa significa continuare a cercare di mantenere un rapporto di comunicazione non autoritaria col destinatario che egli vorrebbe, in questi anni, quanto più eterogeneo possibile. «Io mostro le cose - continua a ripetere anche negli ultimi anni di vita - non le dimostro, Faccio un lavoro di ricostruzione, punto e basta. Dimostrare significa pensare alle cose, vederle da un certo punto di vista, poi costruire tutto quello che può fare emozione per essere persuasivi e prevaricare sugli altri. Da tutto ciò io rifuggo completamente».
Socrate, Cartesio, Pascal sono personaggi che affascinano il regista anche per il loro metodo di vita e di pensiero, per cui la rappresentazione nasce da scelte tutt'altro che casuali e indipendenti dalla sua visione del mondo. In questi ultimi anni egli riesce, nel modo più convincente, a trasmettere una lezione di storia che è ancora una lezione di metodo, di ricerca, di disponibilità e rigore, di applicazione, di capacità autocritica di riconoscere i propri limiti e di volontà di rimettersi in gioco, sapendo anche di rimettere in ogni momento in discussione le proprie certezze e verità relative.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
«Non si può vivere senza Rossellini» si dice in Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci e in effetti in nessun momento della sua storia del dopoguerra il cinema di Rossellini ha cessato di essere un punto di riferimento, una sorta di corpo mistico, ma anche di corpo materiale a cui tutte le generazioni che si sono succedute dagli anni Cinquanta in poi hanno attinto e si sono nutrite in maniera più o meno esplicita in una sorta di banchetto o agape che ne ha valorizzato le qualità positive e mimetizzato o rimosso sistematicamente i difetti.
Vediamo di raccogliere in modo sommario quali sono le parti di questo corpo e a quale uso e a che tipo di metabolizzazione e trasformazioni sono state soggette nel corso del tempo.
Dopo India si possono individuare molti percorsi nel cammino rosselliniano che sembrerebbero non farlo eccessivamente avanzare, prima del decisivo e importante passaggio alla televisione, ma di fatto senza II generale Della Rovere e al di là della egostoria facilmente riconoscibile non vi sarebbe nel cinema italiano quella prepotente spinta a rivisitare la storia e la memoria italiana del passato prossimo e remoto in chiavi che tengano conto e affrontino senza rimozioni o tabù temi ancora scottanti come quelli relativi alla ricostruzione di momenti di storia italiana successivi all'8 settembre.
È pertanto tuttora indispensabile mantenere al centro del sistema cinematografico Rossellini e la sua opera e sottoporli a nuove interrogazioni perché quest'opera rivela oltre che una capacità di rivoluzionare i codici della rappresentazione del cinema nazionale e internazionale anche contemporaneamente delle ondate che si propagano a cerchi concentrici nel medio e lungo periodo in più direzioni e che toccano in misura maggiore o minore tutti i registi.
Sono ben evidenti quei processi che i biologi chiamerebbero di schismogenesi o di differenziazione progressiva, ma la specie dell'homo cinematographicus rossettinianus ha prodotto nella sola Italia decine di discendenti, una genealogia impressionante per ricchezza, fecondità e ramificazioni che poco per volta passano naturalmente dalla produzione cinematografica a quella televisiva. Negli anni Cinquanta basterà pensare a quell'insieme magmatico e in continuo movimento dal documentario al cinema di finzione che vede emergere progressivamente i fratelli Taviani o Florestano Vancini, Folco Quilici, Vittorio De Seta ed Ermanno Olmi o Franco Piavoli, tutti autori con caratteristiche diverse tra loro che sembrano ricevere ora luce, ora aiuto e conforto ideale per lavori fatti per committenze diverse, anche industriali, lavori che si muovono esplicitamente lungo strade indicate da Rossellini fin dai suoi primi passi. Da Rossellini questi autori apprendono l'importanza formativa fondamentale del documentario e la possibilità di sperimentare, grazie a questa forma breve, modi linguistici ed espressivi da trasferire in seguito nel cinema di finzione. Il documentario come luogo di formazione necessario e territorio dalle possibilità sconfinate e in cui da subito è possibile mescolare le dimensioni della realtà e della finzione.
Nel caso di alcuni di questi registi - i fratelli Taviani per esempio - la visione di un film di Rossellini (Paisà per l'esattezza) negli anni del liceo agisce come un'illuminazione e indicazione della strada definitiva da prendere nella vita. Rossellini insegna che filmare è un modo naturale non solo di esprimersi ma di vivere, come il respirare e il camminare, il mangiare e il dormire. Il cinema non si apprende e non s'insegna, si vive.
In questo decennio la lezione rosselliniana sembra agire più come fiume carsico su fenomeni collaterali e su esperienze marginali piuttosto che sul cuore della produzione.
Negli anni Sessanta, anche se da parte sua vi è un rifiuto e un tentativo di sfuggire a questo ruolo, Rossellini viene unanimemente riconosciuto come padre nobile da una generazione di registi che vanno da Pier Paolo Pasolini a Bernardo Bertolucci, da Gianni Amico a Liliana Cavani, da Lina Wertmüller a Gianfranco Mingozzi, Luigi Faccini, Maurizio Ponzi... È il Rossellini santificato e amato dai «Cahiers du cinema» e dai registi della «nouvelle vague» quello che affascina questa seconda generazione di registi. Il Rossellini non classificabile e rivestibile con abiti ideologici preconfezionati, il Rossellini che reinventa i modi produttivi, che è capace di esplorare in maniera nuova la profondità della superficie del visibile ed è attirato dalle ferite dell'anima dell'uomo europeo, ferite non meno profonde di quelle della guerra, ma anche il Rossellini che sceglie forme di narrazione in bilico tra il flusso di coscienza e il racconto cinematografico classico. Il regista che domina i modi del linguaggio cinematografico e sembra muoversi lungo una sottile linea di confine tra sperimentazione del nuovo e canoni condivisi.
In questo periodo idealmente si potrebbe applicare all'uso del corpo rosselliniano la frase di Giorgio Pasquali posta da Pasolini come segnale prolettico della fine del corvo in Uccellaci e uccellini: «I maestri vanno mangiati in salsa piccante». Il corpo di Rossellini è mangiato e scomposto in tante particelle e il rito a cui si assiste è proprio quello di una comunione che rasenta le dimensioni mistiche.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta la figura rosselliniana assume una nuova funzione che mi sembra di poter definire angelica, di messaggero di un nuovo verbo, quello televisivo, cominciando a indicare e a percorrere in modo sistematico strade inedite, fondamentali per autori che partiranno dalla televisione come ad esempio Gianni Amelie, ma anche per Pupi Avati e per il suo modo di raccontare e intrecciare storia individuale e storia collettiva, per Giuseppe Bertolucci, Giovanna Gagliardo, o Mario Brenta.
Dal punto di vista della moralità professionale Rossellini regala a tutti questi autori una moralità nel modo di disporsi dietro alla macchina da presa non per affermare la propria autorialità, ma per usarla come forma alta di testimonianza.
Il cinema e ancor più la televisione sono straordinarie macchine del tempo, possono insegnare a guardare con gli occhi della mente e a scrivere o riscrivere la storia.
Non si possono non ricordare a questo proposito i documentari sulla Resistenza scritti da Ermanno Olmi con Corrado Stajano e tutti i film di Olmi per la televisione tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta senza sentire l'influsso rosselliniano (In nome del popolo italiano, Le radici della libertà, Nascita di una formazione partigiana, oltre che i film nati per la Tv, come Un certo giorno, I recuperanti, Durante l'estate).
Anno dopo anno la presenza, lo spirito, il soffio vitale del cinema rosselliniano continua a diffondersi anche in un paesaggio produttivo e creativo che vede diradarsi gli esordi memorabili. Lungo gli anni Ottanta la sua presenza sembra farsi più indistinta e disciogliersi fino a risultare quasi invisibile in un cinema che subisce una crisi profonda e un ricambio che porta anzitutto in primo piano figure di comici che diventano registi. Ma il soffio vitale del cinema rosselliniano lo sentiamo comunque agire sulla concezione complessiva dell'opera di Paolo Benvenuti, o su autori come Antonio Capuano o Aurelio Grimaldi, sull'ultimo cinema di Marco Tullio Giordana e in particolare di La meglio gioventù, sulla ripresa del cinema civile o di temi resistenziali nell'opera di Guido Chiesa (in Materiale resistente e 25 aprile: la memoria inquieta del 1995), nei lavori documentaristici e di finzione di Davide Ferrario o in quelli di Pasquale Scimeca, da II giorno di San Sebastiano a I briganti di Zabut fino a Placido Rizzotto del 2000.
Rossellini continua ad apparire come angelo custode di alcuni degli esordi, sia pure quasi invisibili, come quello di Giovanni Robbiano (Figurine, 2000). Proprio al cinema degli ultimi anni risulta ancora indispensabile la comunione con il corpo rosselliniano e con quelle particelle del suo spirito che insegnano che la volontà di fare cinema può superare ogni ostacolo, anche l'assenza dei mezzi e delle sovvenzioni. Anzi se vogliamo prendere proprio un titolo di un film immerso fino al collo nello spirito rosselliniano di Stromboli non possiamo non ricordare Respiro di Emanuele Crialese. In quest'opera seconda, sorprendente per maturità si ritrovano dalla prima all'ultima immagine i modi di raccontare e di cercare di cogliere dimensioni profonde del visibile di Rossellini. E ancora si sente il calore e il respiro del Rossellini resistenziale nel film d'esordio di Daniele Gaglianone I nostri anni (2001). Mentre nel recente film di Saverio Costanzo (Private, 2004) girato con mezzi minimi nei territori palestinesi sembra riaffacciarsi con forza il Rossellini che ha insegnato che la macchina da presa oltre che uno strumento di pensiero, in grado di trasmettere le idee, è il più straordinario testimone e della nostra micro e macrostoria e il cantore della sopravvivenza, anche nelle situazioni più tragiche e critiche di valori profondi, della capacità dell'uomo di decidere di giocarsi e sacrificare la propria vita nei casi in cui per difenderla a ogni costo vengono a mancare le ragioni stesse del vivere.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
Da parecchio tempo avevo intenzione di scrivere questo articolo e per mesi ho esitato dinanzi all'importanza del problema e delle sue molteplici incidenze. Ho coscienza della mia impreparazione teorica in confronto alla serietà e alla perseveranza con cui la critica italiana di sinistra studia e approfondisce il neorealismo. Benché abbia salutato sin dalla sua prima apparizione in Francia il neorealismo italiano, e non abbia cessato di consacrargli in seguito la mia attenzione di critico, non posso pretendere di opporre alla vostra una teoria altrettanto coerente e di inserire così profondamente come voi il fenomeno neorealista nella storia della cultura italiana. Inoltre temo di sembrare ridicolo, temo di giustificare l'accusa di volere impartire ali italiani lezioni sul loro cinema; per tutte queste ragioni ho differito una più sollecita risposta al vostro invito di discutere, su «Cinema Nuovo», le posizioni critiche del suo gruppo e sue, su alcune opere recenti.
Desidero inoltre ricordarle, prima d'entrare nel vivo della discussione, che frequenti sono le divergenze tra critici appartenenti a diverse tradizioni culturali e pure d'una stessa generazione che tutto sembrerebbe avvicinare. Noi ne abbiamo fatto l'esperienza, a esempio, nei «Cahiers du Cinéma» con il gruppo «Sight and Sound» e confesso senza vergogna ch'è stata in parte la grandissima stima che aveva Lindsay Anderson per Casque d'or di J. Becker - film che fu in Francia un fallimento - a farmi meditare sulla mia opinione e a scoprire nel film virtù segrete che m'erano sfuggite. È anche vero che l'opinione straniera è a volte fuorviata dalla scarsa conoscenza del contesto della produzione. A esempio, il successo fuori di Francia di certi film di Duvivier e di Pagnol è basato evidentemente su un malinteso. In essi si ammira una certa interpretazione della Francia che all'estero sembra meravigliosamente autentica e si confonde questo esotismo con il valore propriamente cinematografico del film.
Io riconosco che queste divergenze non sono affatto feconde e ritengo che il successo all'estero di certi film italiani, che voi a buon diritto disprezzate, procede dal medesimo malinteso. D'altra parte non ritengo che questa sia l'unica essenziale interpretazione delle nostre divergenze d'opinione nel caso di alcuni film e del neorealismo in genere. Anzitutto lei deve riconoscere che la critica francese non ha avuto torto di essere, all'inizio, più entusiasta dell'italiana nei riguardi dei film che oggi sono la vostra incontestata gloria in Italia e all'estero. Per conto mio mi lusingo d'essere uno dei rari critici francesi che hanno sempre identificato la rinascita del cinema italiano col neorealismo, anche in un'epoca in cui era di buon gusto proclamare che questo vocabolo non significava nulla e persisto oggi nel pensare che la parola è tuttora la più appropriata a designare la scuola italiana in ciò ch'essa ha di migliore e di più profondo.
Ma anche per questo m'inquieto, per il modo in cui molti di voi lo difendono. Oserò dirle, caro Aristarco, che la severità con cui «Cinema Nuovo» giudica certe tendenze da voi considerate involuzioni del neorealismo, mi fa temere che voi tagliate a vostra insaputa nella materia più viva e ricca del vostro cinema. è vero che io ammiro il cinema italiano con molto eclettismo, ma vi sono pure delle severità della critica italiana ch'io ammetto. Capisco che il successo in Francia di Pane, amore e gelosia vi irriti; è un po' lo stesso caso di quello dei film di Duvivier su Parigi, per me. Ma quando vi vedo cercare dei pidocchi nella testa scarmigliata di Gelsomina e trattare come meno che niente l'ultimo film di Rossellini, sono indotto a pensare che sotto la formula della integrità teorica voi contribuite a sterilizzare alcune delle tendenze più vivaci e più promettenti di ciò' ch'io persisto a chiamare neorealismo.
Lei mi parla del vostro sbalordimento dinanzi al relativo successo di Viaggio in Italia a Parigi e soprattutto dinanzi all'entusiasmo pressoché unanime della critica francese. Quanto a La strada il suo successo è quello che lei sa. Questi due film hanno rilanciato opportunamente, non solo nell'interesse del pubblico ma nella stima degli intellettuali, il cinema italiano che da un anno o due aveva perso interesse e mordente. Il caso di questi due film è diverso per varie ragioni. Comunque penso che, lungi dall'essere stati intesi qui come una rottura col neorealismo e ancor meno come una involuzione, essi ci hanno dato il senso dell'invenzione nella diretta tradizione del genio della scuola italiana. Cercherò di spiegarvi perché.
Prima di tutto confesso che mi ripugna l'idea d'un neorealismo definito esclusivamente in rapporto a uno solo dei suoi aspetti presenti e a priori rispetto alla sua evoluzione futura. Può darsi che ciò sia dovuto a insufficienza della mia preparazione teorica; ma credo piuttosto che la causa sia la preoccupazione di lasciare all'arte la sua naturale libertà. Nei periodi di sterilità la teoria è feconda per analizzare le cause della mancanza d'ispirazione e per organizzare le condizioni della rinascita, ma quando si ha la fortuna d'assistere alla mirabile fioritura del cinema italiano da dieci anni a questa parte v'ha più danno che vantaggio nell'avanzare pregiudizi di natura puramente teorica. è necessario esser severi, anzi l'esigenza e il rigore critico mi paiono perfettamente giustificati, ma essi debbono essere vigili nel denunciare i compromessi commerciali, la demagogia, l'abbassarsi di livello delle ambizioni, piuttosto che voler imporre ai creatori degli schemi estetici a priori. Personalmente sono dell'opinione che un regista il cui ideale estetico sia vicino alle vostre concezioni ma che, al principio del suo lavoro, si prefigge di non introdurne che il 10 od il 20% nei soggetti commerciali che può girare, abbia minor merito di quello che giri, bene o male, dei film rigorosamente conformi al suo ideale, anche se la sua concezione del neorealismo non sia la vostra. Ora per il primo lei si accontenta con obiettività di segnalare la parte che si sottrae al compromesso non accordandogli che due stellette nelle sue critiche, laddove respinge il secondo in un inferno estetico senza appello.
Rossellini sarebbe senza dubbio meno colpevole ai vostri occhi se avesse girato l'equivalente di Stazione Termini o di La spiaggia piuttosto che Giovanna d'Arco al rogo e La paura. La mia intenzione non è di difendere l'autore di Europa '51 a spese di Lattuada o di De Sica, la politica del compromesso si difende sino a un certo punto che io non cercherò di stabilire qui; ma mi pare che l'indipendenza di Rossellini dia alla sua opera, checché se ne pensi, una integrità di stile, una unità morale che sono cose molto rare nel cinema e che stimolano, ancor prima dell'ammirazione, la stima. Ma io non spero difenderlo su questo terreno metodologico. La mia "arringa" toccherà il nocciolo della questione. Rossellini è stato veramente ed è tuttora neorealista? Mi pare che lei gli riconosca di esserlo stato. Come negare infatti la parte avuta da Roma, città aperta e Paisà nell'affermazione e nello sviluppo del neorealismo? Ma lei scopre la sua «involuzione», sensibile già in Germania anno zero, decisiva a partire da Stromboli e dai Fioretti, catastrofica con Europa '51 e Viaggio in Italia. Ora, cos'è che si rimprovera essenzialmente a questo itinerario estetico? Di abbandonare sempre più, apparentemente, la sollecitudine del realismo sociale, della cronaca, dell'attualità, a beneficio di un messaggio morale sempre più sensibile; messaggio morale che si può tendere anche a far coincidere con una delle due grandi correnti politiche italiane.
Io rifiuto senz'altro di lasciar scendere il dibattito su questo terreno troppo contingente. Anche se avesse delle simpatie democristiane (di cui io non conosco alcuna prova pubblica o privata), Rossellini non sarebbe per questo escluso a priori, come artista, da ogni possibilità neorealista. Lasciamo da parte ciò. è tuttavia vero che si ha il diritto di rifiutare il postulato morale e spirituale che si rivela sempre più chiaramente nella sua opera; ma questo rifiuto non può implicare quello dell'estetica in cui il messaggio si realizza, a meno che i film di Rossellini non siano che dei film a tesi, riducendosi alla traduzione in forma drammatica di idee a priori. Ora non v'è regista di cui meno si possano scindere le intenzioni dalla forma, e partendo di là io vorrei giustamente caratterizzare il suo neorealismo.
Se la parola ha un senso, e per quante divergenze possano sorgere sulla sua interpretazione partendo da un accordo minimo, mi pare che il neorealismo si opponga anzitutto essenzialmente non solo ai sistemi drammatici tradizionali, ma ancora ai diversi aspetti conosciuti del realismo - sia in letteratura che in cinema - per affermare la totalità, la globalità del reale. Questa definizione che mi sembra giusta é comoda, appartiene al miglior filosofo francese del neorealismo, padre Amédée Ayfre («Cahiers du Cinéma», n. 17 - Il neorealismo e la fenomenologia). Il neorealismo e una descrizione "globale" della realtà attraverso una coscienza "globale". Con questa definizione intendo dire che il neorealismo s'oppone alle estetiche realiste che l'hanno preceduto, e segnatamente al "naturalismo" ed al "verismo", nel fatto che il suo realismo non si fonda tanto sulla scelta del soggetto quanto sulla modalità della sua presa di coscienza. Quel che v'ha di realista in Paisà è la Resistenza italiana, ma ciò ch'è neorealista è la regia di Rossellini, il suo modo di volta in volta ellittico e sintetico di presentare gli avvenimenti. In altri termini ancora, il neorealismo rifiuta per definizione l'analisi (politica, morale, psicologica, logica, sociale e tutto ciò che vorrete) dei personaggi e della loro azione. Considera la realtà come un blocco, non certo incomprensibile ma indissociabile. Per questo segnatamente il neorealismo è, se non necessariamente antispettacolare (ancorché la spettacolarità gli sia in effetti estranea), almeno radicalmente antiteatrale nella misura in cui la recitazione dell'attore teatrale presuppone una analisi psicologica dei sentimenti e un espressionismo fisico, simbolo di tutt'una serie di categorie morali o psicologiche.
Ciò non significa che il neorealismo si riduca a non so che documentarismo obiettivo. Rossellini ama dire che al principio della sua concezione della regia v'è l'amore non solo dei suoi personaggi ma del reale come tale, e ch'è giustamente questo amore che gli vieta di dissociare ciò che la realtà ha unito: il personaggio e il suo ambiente. Il neorealismo non si definisce dunque con un rifiuto di prendere posizione nei confronti del mondo, nonché di giudicarlo, ma esso presuppone in effetti una attitudine mentale. È sempre la realtà vista da un artista, rifratta dalla sua coscienza ma da tutta la sua coscienza e non dalla sua ragione o dalla sua passione o dai suoi ideali e ricomposta a partire dagli elementi ch'essi hanno dissociato. Mi piacerebbe dire che l'artista realista tradizionale (Zola, a esempio) analizza la realtà, quindi ne rifà una sintesi conforme alla sua concezione morale del mondo, mentre la coscienza del regista neorealista la "filtra".
Senza dubbio la sua coscienza, come ogni coscienza, non lascia passare tutto il reale, ma la sua scelta non è né logica, né psicologica: è ontologica nel senso che l'immagine della realtà che ci vien restituita resta un'immagine globale, così come, se si vuole una metafora, una fotografia in bianco e nero non è un'immagine della realtà decomposta e ricomposta "senza il colore", ma un autentico suggello del reale, una sorta di forma luminosa in cui il colore non compare. V'è una identità ontologica tra l'oggetto e la fotografia. Forse potrei farmi capir meglio con un esempio. Precisamente lo ricaverò dal Viaggio in Italia. Il pubblico è facilmente deluso dal film in quanto Napoli non vi appare che in modo estremamente incompleto e frammentario. Questa realtà non è che la millesima parte di quel che si potrebbe mostrare ma il poco che si vede, qualche statua in un museo, delle donne gravide, uno scavo a Pompei, un pezzo di processione di San Gennaro, possiede tuttavia quel carattere globale che mi pare essenziale. è una Napoli "filtrata" dalla coscienza dell'eroina e se il personaggio è povero e limitato lo è perché questa coscienza di borghese mediocre è essa pure di una rara povertà spirituale. Comunque la Napoli del film non è falsa (mentre potrebbe esserlo un documentario di tre ore) ma è un paesaggio mentale a volta a volta obiettivo, come una pura fotografia, e soggettivo, come una pura coscienza. Mi par necessario comprendere che l'atteggiamento di Rossellini nei confronti dei suoi personaggi e del loro ambiente geografico e sociale sia quello della sua eroina davanti a Napoli, ma con questa differenza: che la sua coscienza è quella di un artista di grande cultura e, a mio avviso, d'una rara vitalità spirituale.
Mi scuso di procedere per metafora, ma non essendo filosofo non riesco a esprimermi in forma più diretta. Tenterò dunque un altro paragone. Delle forme d'arte classica e del realismo tradizionale dirò che costruiscono le opere come si costruiscono le case: con mattoni o pietre da taglio. Non e il caso di contestare l'utilità delle case e la loro eventuale bellezza o la perfetta funzionalità dei mattoni a questo uso, ma si deve convenire che la realtà del mattone sta assai meno nella sua composizione che nella sua forma e resistenza. Non ci si sognerebbe di definirlo come un pezzo d'argilla, poco importa la sua origine minerale: ciò che conta è la comodità del suo volume. Il mattone e un elemento della casa. Ciò è implicito nella sua forma stessa. Si può fare lo stesso ragionamento, a esempio, con le pietre da taglio che compongono un ponte. Esse si incastrano perfettamente per formare la volta. Ma dei blocchi di pietre sparpagliati in un guado sono e rimangono delle pietre, la loro realtà di pietra non è alterata dal fatto che, saltando dall'una all'altra, me ne servo per guadare il torrente. Se esse m'han fatto provvisoriamente le veci di un ponte, ciò e dovuto al fatto ch'io ho saputo arrecare al caso della loro disposizione l'ausilio della mia inventiva e aggiungervi il mio proprio movimento che, senza modificare la loro natura e apparenza, ha donato provvisoriamente a quelle pietre un senso e una utilità.
Allo stesso modo il film neorealista ha un senso ma a posteriori, nella misura in cui permette alla nostra coscienza di passare da un fatto all'altro, da un frammento di realtà al seguente, mentre nella composizione artistica il senso è implicito, è dato a priori: la casa è già nel mattone. Se la mia analisi è esatta ne consegue che il termine "neorealismo" non dovrebbe mai essere impiegato come sostantivo, salvo che per designare l'assemblea dei registi neorealisti. Il neorealismo non esiste per sé, ma esistono dei registi più o meno neorealisti, siano essi materialisti, cristiani, comunisti e tutto quel che si voglia. Visconti è neorealista in La terra trema, che chiama alla rivolta sociale, e Rossellini è neorealista nei Fioretti che illustra una realtà puramente spirituale. Non rifiuterò l'epiteto che a colui che dividerà, per convincermi, ciò che la realtà ha unito.
Io affermo dunque che Viaggio in Italia è neorealista; e di gran lunga più che L'oro di Napoli, a esempio, che ammiro molto ma che procede da un realismo psicologico e sottilmente teatrale a scapito di tutte le notazioni realistiche le quali cercano di sostituirlo. Dirò di più: tra tutti i registi italiani quello che mi sembra abbia spinto più lontano l'estetica del neorealismo è Rossellini. Ho detto non esservi neorealismo puro. L'atteggiamento neorealista è un ideale cui ci si accosta con maggiore o minore approssimazione. In tutti i film detti neorealisti vi sono ancora residui di realismo tradizionale, spettacolare, drammatico o psicologico. Si potrebbe analizzarli a questo modo: la realtà documentaria più un' "altra cosa", la quale altra cosa è, di volta in volta, la bellezza plastica delle immagini, il sentimento sociale, la poesia, il comico, ecc. In Rossellini si cercherebbe invano di dissociare il fatto reale dall'effetto cercato. Non v'è nulla in lui di letterario e di poetico e, se si vuole, non v'è neppure nulla di "bello" nel senso piacevole della parola: egli non mette in scena che dei fatti.
I suoi personaggi sono come ossessionati dal demonio della mobilità, i piccoli frati di Francesco d'Assisi non hanno altro modo di render gloria a Dio che la corsa a piedi. E ricorderò anche l'allucinante marcia alla morte del ragazzo di Germania anno zero: il gesto, il cambiamento, il movimento fisico costituiscono per Rossellini l'essenza stessa del reale umano. Essere, significa tendere verso qualcosa. Significa anche passare attraverso ambienti ciascuno dei quali noi è semplice luogo, ma ha un senso che penetra nell'animo degli spettatori. L'universo rosselliniano è un universo di atti puri, insignificanti per se stessi ma che preparano alla rivelazione improvvisa del senso che il regista ha colto in loro. Così è di questo miracolo nel Viaggio in Italia invisibile ai due eroi, quasi invisibile pure per la "camera", che rimane ambiguo (poiché Rossellini non pretende che sia veramente un miracolo: soltanto l'insieme di grida e di confusione che si chiama miracolo) ma il cui irrompere nella coscienza dei personaggi provoca inopinatamente la precipitazione del loro amore.
Nessuno più dell'autore di Europa '51 mi sembra sia riuscito a mettere in scena degli avvenimenti d'una struttura estetica più dura, più integra, d'una trasparenza più perfetta, in cui sia meno possibile discernere qualcosa di diverso e distinto dall'avvenire stesso.
Come un corpo può presentarsi allo stato amorfo o cristallizzato, l'arte di Rossellini sa dare ai fatti, di volta in volta, la loro struttura più densa e più elegante; non la più gradita o "bella" ma la più acuta, la più diretta o la più tagliente. Con lui il neorealismo ritrova naturalmente lo stile e le risorse dell'astrazione. Rispettare il reale non significa, in effetti, accumulare le apparenze, ma al contrario spogliarle di tutto ciò che non è. l'essenziale, pervenire alla totalità nella semplicità. L'arte di Rossellini è lineare e melodica. È vero che parecchi suoi film fan pensare ad uno schizzo, in cui il tratto suggerisce più che dipingere compiutamente. Ma non bisogna confondere questa sicurezza di tratto per povertà o pigrizia; tanto varrebbe rimproverarla a Matisse! Forse Rossellini è davvero più disegnatore che pittore, più narratore che romanziere, ma la gerarchia dei valori non sta nei "generi", sta negli artisti!
Non spero, caro Aristarco, di averla convinta. Non si convince con semplici argomentazioni. Il calore che vi si mette conta spesso di più. Nondimeno sarei felice se la mia convinzione in cui lei troverà l'eco dell'ammirazione di altri critici miei amici, potesse almeno scuotere la sua.
Da Cinema Nuovo, a. IV, n. 65, 25 agosto 1955
[...] In sostanza il Bazin viene a dire questo: ammesso che il neorealismo sia «una descrizione "globale" della realtà attraverso una coscienza "globale"» della stessa, secondo la definizione fornita dal filosofo francese padre Ayfre; e ammesso ancora che il neorealismo si opponga «alle estetiche realiste che l'hanno preceduto, e segnatamente al naturalismo e al verismo, nel fatto che il suo realismo non tanto si fonda sulla scelta del soggetto, quanto sulle modalità della sua presa di coscienza»: ebbene, Rossellini è il regista italiano che maggiormente si sarebbe spinto su questa strada, approfittando più d'ogni altro della possibilità di «filtrare» la realtà nella sua interezza, e informandola nello stesso tempo a un «postulato morale e spirituale che si rivela sempre più chiaramente nella sua opera». Non solo dunque - per la corrente critica della quale il Bazin si presenta come autorevole portavoce - Rossellini, anche da Stromboli in poi, sarebbe portatore d'un messaggio «di rara vitalità spirituale»; ma i suoi modi d'esprimerlo e di comunicarlo allo spettatore (le «modalità della sua presa di coscienza» di fronte al reale, o in altri termini il suo stile) sarebbero specialmente consentanei a darne una rappresentazione viva, pregnante [...]
In un interessante articolo pubblicato di recente da Umberto Barbaro («l'Unità», ed. romana, 24 agosto '55), si chiarivano in sede storicistica alcuni aspetti del problema relativo alla sceneggiatura nel film neorealista. Partendo dalla premessa generale che il neorealismo è nato in Italia dal nuovo spirito di libertà seguito al lungo periodo dell'oppressione politica - e che non si può intendere pienamente il neorealismo italiano se non ci si rifà alle componenti di questo spirito e del suo divenire - osserva il Barbaro che il rifiuto della cosiddetta "sceneggiatura di ferro", da parte dei registi del nuovo stile, rispondeva naturalmente a un'esigenza di libertà, e ne rappresentava un'evidente manifestazione. Ciò non significava tuttavia che un simile rifiuto fosse avanzato in nome della libertà astratta e idealistica del regista a seguire il proprio estro, e quindi coinvolgesse quello della sceneggiatura "tout court", ossia del valore da attribuirsi alla struttura compositiva del film: ché anzi, mettendo a frutto la lezione del Pudovkin assimilata più o meno consapevolmente attraverso le rielaborazioni e le indagini dei teorici di casa nostra, la giovane scuola italiana riaffermava anche in sede pratica l'importanza del montaggio narrativo, e della sua previsione, con l'uso costantemente rispettato della "scaletta". Puntualizzando nella loro successione narrativa le variazioni di tempo e di spazio, la gradualità ritmica delle sequenze-base e quindi il loro specifico risalto nell'economia generale del film, la scaletta ne costituisce com'è noto lo scheletro, «quasi il supporto metallico delle opere di scultura».
Almeno entro questi limiti, nei quali peraltro e possibile muoversi con tutta la necessaria libertà espressiva, i registi del neorealismo accettavano dunque il valore artistico della struttura e cioè, come dice il Barbaro, dell'elemento razionale dell'arte; ma bisogna aggiungere immediatamente che nello stesso tempo quella medesima struttura veniva suggerita e quasi imposta dalla forza stessa dei fatti da raccontare, da un realtà di aspetti ed evidenze e conflitti umani non puramente immaginati o costretti in uno schema convenzionale o risolti in base a valutazioni di carattere privato, ma, al contrario, urgenti con tutto il peso della loro accettabilità, con tutti i poteri d'una commozione a chiunque accessibile, con tutte le soluzioni implicite nella loro stessa dialettica. Un criterio valevole a distinguere le opere veramente neorealistiche da altre che ne presentano solo le apparenze o le vuote spoglie, perciò, è appunto quello di esaminare se talune costanti formali del neorealismo (come la pratica di girare prevalentemente in esterni e dal vero, a luce naturale corretta appena da qualche lampada o riflesso; l'impiego di attori non-professionisti; l'uso del dialetto o d'una lingua che ne conservi le inflessioni e i costrutti; la scelta di taluni accorgimenti nell'opera di sceneggiatura, e in particolare dell'ellissi o della brachilogia nel succedersi delle scene) rispondano in effetti a una verità di casi, a una tipicità di contenuti che inderogabilmente ne richieda l'adozione.
Quando noi diciamo che Due soldi di speranza o La strada non sono da contarsi nel novero delle opere neorealistiche, vogliamo dire appunto che conservano tutti o quasi tutti gli attributi estrinseci del neorealismo, rinunciando però a valersene come strumenti di una vera conoscenza dei personaggi, dei presupposti certi che dovrebbero determinarli, delle condizioni effettive tra le quali sono chiamati a muoversi; vogliamo dire che opere cosiffatte mancano di rigore dimostrativo riguardo agli aspetti tipici del gruppo di realtà addensato nel racconto cinematografico, anche se l'impostazione tecnica di ogni singola sequenza e dell'intera linea narrativa ricorda quella dei veri film neorealistici. In un suo celebre "sketch" Danny Kaye parla vertiginosamente adottando di volta in volta un diverso idioma, o meglio imitandone le cadenze, le modulazioni e il generale andamento fonico; l'impressione è quella di sentir parlare tedesco o spagnolo o francese, ma il risultato è un discorso incomprensibile anche se divertente. Ebbene, qualcosa di simile succede coi film solo in apparenza neorealistici: dove un apparato formale che del neorealismo ha tutte le figurazioni, gli appoggi di tono e gli esterni procedimenti, viene posto a servizio d'una sostanza umana estremamente opinabile perché non scaturita dalla lezione stessa dei fatti, ma travisata da interpretazioni arbitrarie e di origine in qualche modo libresca. Il risultato è un discorso incomprensibile, o solo in parte comprensibile, e in ogni caso non convincente; e la vera condanna di questi film, sul piano dell'arte autentica, e di proporci una povera e affrettata e sconnessa problematica, una filosofia da quattro soldi come quella appunto che solo è possibile costruire non già sulle indomabili speranze e le faticose acquisizioni e le ribollenti antinomie della vita reale, ma sui vagheggiamenti delle loro artificiali e dunque impossibili soluzioni, gabellate invece come possibili attraverso una tecnica particolare.
Rossellini non è rimasto immune da una simile tendenza, anzi può figurarne come il capostipite o l'antesignano; e quando noi diciamo che soltanto Roma, città aperta e Paisà sono dei veri film neorealistici, vogliamo dire che tutta la successiva produzione di questo autore risente, in più o meno larga misura, dei danni inevitabilmente connessi a un errato apprezzamento dei dati offerti dalla realtà del nostro tempo. «Chaque époque a son réalisme», disse una volta Léger; «l'oeuvre sera nouvelle autant que son point de appui sera dans son époque». Ma per Rossellini non si è trattato soltanto di allontanarsi dal realismo sociale o dalla cronaca d'attualità, come si limita a rilevare il Bazin: bensì di esporre falsi problemi con un linguaggio speciosamente realistico, che appunto perciò risulta così spesso applicato a freddo, e in un modo tanto meccanico. Sembra chiaro che non si possa usare lo stesso tono di voce per annunciare la morte d'una persona cara, e quella del proprio canarino; così come non sarebbe forse conveniente che Edith Piaf si mettesse in testa di cantare la parte di Boris nell'opera di Mussorgskij. Ma Rossellini non ha cambiato registro. E dopo aver fatto risonare gli accenti profondamente nitidi e veri del dolore e della speranza di tutti, in due film indimenticabili, ha poi modulato la propria voce nella medesima chiave per i casi di povere dementi che sognano di partorire il Redentore, o di straniere che risolvono i loro problemi d'acclimatazione assistendo al risveglio d'un vulcano; di fraticelli che ballano in tondo piuttosto che opporsi a Innocenzo III e al cardinale Ugolino per l'approvazione della Regola originaria; di donne che inseguono la saggezza tra i muri d'una clinica invece che in mezzo ai propri simili o tra le battaglie del lavoro umano; di ex-carcerati che in un certo modo buffonesco è gaglioffo rifiutano di misurarsi con gli obblighi severi della libertà; di turiste misticizzanti o di adultere pungolate dalla paura di non passarsela liscia.
Da questa sostanza umana improbabile e trita (e quando si pensi che nonostante le ambizioni, forse a causa di esse, il caso curioso e l'aneddoto inconsueto non possono mai assurgere a specchio dell'idea, o a esempio dell'universale) non è meraviglia se il tanto celebrato stile di Rossellini rimanga staccato come una scaglia. Il suo «senso affinato dell'omissione» si risolve allora in trapassi alogici, immotivati; il «piacere dell'improvvisazione» diventa puro e semplice arbitrio, estraneo come tale al dominio dell'arte; la «frettolosità nell'esecuzione», non legittimandosi nell'urgenza prepotente delle cose da dire, porta soltanto all'abborracciato e a1 caotico. Tra il particolare e l'universale non c'è fusione: il particolare si presenta a Rossellini, naturalmente immaginoso nell'osservazione, per il suo carattere di avvenimento eccezionale o di appunto inedito; e finisce quindi con l'acquistar valore di per se stesso, indipendentemente da ogni legame con una più vasta risonanza, e per una ragione diversa da quella per cui ha valore l'universale. Valga per tutti l'esempio, nella Paura, del paesaggio urbano che dovrebbe contrappuntare la atmosfera di chiusa angoscia in cui la protagonista si muove. Quelle strade flagellate dall'acqua in una grande città moderna del Nord, quegli asfalti lucidi e neri, quelle' piazze aperte come sbadigli nella nebbia notturna, sono notazioni bellissime in sé. Ma poiché dovrebbero accompagnare ansie e incubi morali che non possiamo condividere, dal momento che si risolvono nella più meschina e consunta delle preoccupazioni, restano in definitiva senza scopo e senza echi. Lo stesso dicasi, nel medesimo film, del panorama di storte ed alambicchi tra i quali si svolge il tentato suicidio della protagonista - un panorama che tenta invano di fare da preludio e da sfondo drammatico a un dramma troppo misero per esserlo davvero.
D'altronde a un regista come Rossellini pronto e immediato nell'intuizione dell'immagine, che non conosce intervallo tra il primo stimolo della vista e il desiderio di esprimerlo, viene a mancare di necessità - ove difetti un chiaro e coerente interesse umano - il senso e il gusto d'una scelta che non sia soltanto aggiunta ma coordinazione dei particolari. L'intenzione principalmente descrittiva si rivela perciò nello schema del racconto che tanto spesso procede a caso, a serie d'immagini proposte secondo la tecnica dell'accumulazione, da nessun altro legame unite se non da quello della loro nuda entità. Nell'abbandonarsi alla descrizione accade al regista di passare in rassegna sempre nuovi particolari che non s'innestano nel tutto, di tralasciare spunti ancora da svolgere e di riprenderne altri già esauriti, non tenendo alcun conto della struttura dell'opera ma seguendo soltanto l'esigenza immediata della vista e le suggestioni in superficie della realtà sensibile. Se insomma è vero che il fanatico è da ravvisare in colui che raddoppia gli sforzi quando ha perduto di vista il fine, si potrebbe parlare in questo senso d'un fanatismo di Rossellini: e in realtà egli moltiplica le sue fatiche descrittive quanto più l'assunto è vago, incerto, contrastante alla sua vera sollecitudine di avidissimo cacciatore e iniettore di, apparenze, col frequente risultato di degradare alla condizione di semplici pretesti i vari e pretesi "messaggi" delle sue opere. Sicché molto spesso può perfino sembrare che simili "messaggi" non corrispondano alle vere necessità morali del regista, ma quasi gli vengano imposte dal di fuori, da una problematica che intimamente non gli appartiene: ed egli se ne serva come di occasioni, offerte alla sua naturale indifferenza e quindi perfettamente fungibili tra loro, ma capaci in ogni modo di liberare un inesausto e sempre rinnovato "furor videndi".
Orbene: una simile capacità di visualizzare forme e figure che poi non riescono a comporsi dentro un sistema organico di conoscenze (qualcosa di simile a ciò che nel linguaggio tecnico di Freud prende il nome di agnosia), e quanto di più lontano dal neorealismo sia possibile immaginare. Chi abbia infatti qualche nozione del potenziale interno o si vorrebbe dire endogeno dï questo movimento (oltre che della storia relativa alla sua nascita, e ai suoi sviluppi), sa bene come e quanto le sue caratteristiche formali siano indissociabili da una chiara e logica strutturazione del racconto. Come ogni atteggiamento originale dello spirito, d'altro canto, il neorealismo si condiziona a contenuti che postulano di per se stessi la propria forma; e poiché esso si rivolge all'esame di apparenze e situazioni concrete, e agisce sotto la spinta d'un preciso determinismo, l'apertura di realtà presente nello spettacolo non ammette interpretazioni diverse da quelle dei fatti e degli aspetti che concorrono a delinearla.
Posticcia risulta quindi, e puramente illusoria, ogni ermeneutica che pretenda di svincolarsi da questo canone, pur esercitandosi sul materiale a cui esso si applica. La realtà verrà sempre tradita o nei modi paralogistici che ormai da molto tempo sono cari a Rossellini, o in quelli più grossolani, e diversamente` artefatti, di tanta parte della nostra produzione "piacevole" di questi ultimi anni. Comunque il risultato sarà mediocre [...]
Da Cinema Nuovo, a. IV, n. 65, 25 agosto 1955