Il 5 marzo del 1982 morì, ucciso da una overdose, l’attore più devastante apparso sulla scena americana nei tardi anni Settanta. John Belushi aveva 33 anni, era esploso in Europa nel 1978 con Animal House di Landis (solo in superficie uno scherzo da college, sotto sotto un manifesto teorico sulla fine di un’epoca e sulla conclamata "morte del cinema"), ma negli Stati Uniti era famoso dal 1975, per le sue gag scatenate al Saturday Night Live, lo show della Nbc che raccoglieva il meglio dei comici usciti dalle università, dai teatri off, dalla satira del "National Lampoon", li piazzava nello studio e, "live", li lasciava fare. In cinque anni, il Saturday Night Live ribaltò qualsiasi concezione di satira e spedì in orbita il perbenismo. Gli altri del Saturday si chiamavano Chevy Chase, Gilda Radner, Bill Murray, Dan Aykroyd, lo spilungone canadese che subito s’intese con Belushi a suon di blues. Belushi impazzava, saltava e cantava vestito da ape, a strisce gialle e nere, sbraitava come cuoco giapponese e come ristoratore greco, era Beethoven che compone compunto al piano poi inforca gli occhiali scuri e canta Ray Charles, faceva un Joe Cocker sdrucito e fulminato in concerto, un Marlon Brando rantolante nei panni di Vito Corleone. Tra le tante anime dello spettacolo era quella più al limite, l’anima folle e sorniona, che non ha bisogno di parole.
È stato un comico tutto di gesti: un sopracciglio che s’inarca, uno sguardo in macchina, una lattina accartocciata contro la fronte, e il corpo che piroetta, s’infrange al suolo, si rialza, trascina con sé l’energia di tutti gli altri. Fu il simbolo della catastrofe comica, quella che il nuovo cinema americano, giunto negli anni Ottanta alla resa dei conti con il riassetto di Hollywood, mise in scena per l’ultima volta, contro le buone maniere e i buoni sentimenti che si riappropriavano del cinema e della cultura, contro la fine dei sogni. Nei suoi tre film più famosi, Animal House e The Blues Brothers di Landis e 1941 di Steven Spielberg, tutti e tre corali, Belushi era il catalizzatore della catastrofe, il motore umano, fisico, di una sfida nervosa già persa in partenza. Il cinema non sarebbe più stato quello che la Hollywood della grande crisi gli aveva consentito di essere negli anni Settanta, allora tanto valeva distruggerlo, con un immane sberleffo, e trascinare nella sua rovina istituzioni universitarie e pre-yuppies, pompose parate cittadine e squadroni di poliziotti armati, colonne di neonazisti e bande di stolidi cowboy canterini, addirittura la difesa nazionale ai tempi di Pearl Harbor. I cineasti più intelligenti lavorarono di clava: Landis, Spielberg, Belushi, che si trasformò in un’arma micidiale contro le convenzioni del buon gusto medio e contro quella che di lì a poco sarebbe diventata la trappola del "politically correct".
Belushi non sarebbe potuto nascere negli anni Novanta: troppo offensivo, troppo grasso, troppo disgustoso, troppo misogino, troppo brusco. Ma, forse, è come se non fosse mai morto: i trentenni lo adorano, le sagome dei Blues Brothers sono un simbolo anche per i giovanissimi. Più amato di James Dean, che però era bello ed era "dannato". Non basta essere vissuti in fretta e morti giovani. È che Belushi aveva un’energia e una libertà che bastavano anche per le generazioni successive. Che forse è vero (come dicono i suoi compagni di Animal House) che la guerra è finita e l’hanno vinta gli altri (il rettore). Ma è anche vero, come urla Belushi, che la guerra finisce quando la facciamo finire noi, che sono ancora le risate a seppellire il mondo e a fare a pezzi la pellicola.
Da Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2002