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Rassegna stampa di Goffredo Alessandrini

Goffredo Alessandrini è un attore egiziano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 9 settembre 1904 a Cairo (Egitto) ed è morto il 16 maggio 1978 all'età di 73 anni a Roma (Italia).

PIETRO BIANCHI

Lunghe e anche aspre polemiche oppongono da noi i puri e i realizzatori del cinema; con implicita l'ipotesi che qualche volta son puri quelli che fanno del cinema e impuri quelli che ne parlano sui giornali. Ma come spirito e materia in certe filosofie del Romanticismo, puri e realizzatori non s'incontrano mai; paralleli essi sono come i binari della ferrovia, e destinati a ignorarsi in eterno. L'ultima espressione della purezza cinematografica è stata l'inchiesta dei giovani forlivesi di Pattuglia: pur mo' annunziata questa inchiesta è già oggetto e pretesto di polemiche e di piccole aggressioni. In un certo senso anche Alessandrini, regista di Noi vivi e Addio, Kira, è partito dal cinema puro, con quel Cavalleria che è restato il migliore dei suoi film; e a un cinema se non puro, di intenzioni intellettuali, egli è tornato con questa sua ultima opera. Niente importa che Alessandrini sia partito da un racconto mediocre, che si affida al contenuto e per niente allo stile. Anche il Vidor della Cittadella è partito da Cronin, che è scrittore della forza di Ayn Rand; a non contare il Renoir della Béte humaine zoliana e altri meno recenti. Importa invece il punto di partenza, il sentimento, l'ispirazione di Alessandrini. Il difetto numero uno del suo film, è che questo sentimento creatore non si riesca a farlo saltar fuori. Opera antibolscevica no, perché allora non sarebbe Giachetti, pezzo grosso della Ghepeu, il personaggio più vivo, più simpatico e umano del film. Opera di psicologia, di caratteri, neppure: non si va a prendere per far questo un ambiente strabico, con personaggi lontani da noi come la luna. In una cinematografia più scaltrita e adulta della nostra, l'americana, tutte le volte che i produttori sono usciti da casa loro han fatto fiasco. Non c'è bisogno di conoscere de visu il paradiso del signor Koba, meglio conosciuto come Stalin, per accorgersi che questa è una Russia fatta in casa e con russi di maniera, letterari ed irreali. Forse ha attratto Alessandrini la novità, spietatezza e rozzezza dei casi, per cui Noi vivi (con appendice kiresca) non sarebbe altro che un film di avventura. Visto a questo modo, il film acquista, senza dubbio. Smessa la polemica antibolscevica, che è qui troppo semplice; smessa la critica al comunismo, che, secondo l'emigrato Berdiaeff, non è altro che un male organico del popolo russo; abbandonati i particolari crudeli, anch'essi male organico del popolo russo, di questa nazione che non è più Asia e non è ancora Europa; resta l'interesse per la vicenda, per gli eroi, insomma, per gli attori. Qui il regista ha avuto la mano felice. E' noto che Brazzi, la Valli, il Giachetti (e specialmente i primi due) non sono niente di straordinario, lavorano spesso di maniera. Ma l'intelligenza del piano industriale del film è consistita nel mettere ciascuno al suo posto, in parti tagliate, si direbbe, su esatte misure. La Valli (con quel caratterino! ) non fa nessuna fatica a far la russa, emancipata, e sensuale di testa più che del resto; né Giachetti l'amatore predestinato al disastro; né Brazzi il ragazzo tirato su nella bambagia e viziato, privo di volontà e di carattere, che le donne con un sospetto di maschilità prediligono tra tutti. Quanto al clima c'è qualche particolare di giardino invernale che non dispiace; dispiace invece il fondale mal dipinto che dovrebbe rappresentare una piazza, e dispiace l'insister del direttore artistico nei raccordi per associazione di immagini: strada chiama strada, numero chiama numero, implacabilmente, sino alla fine.

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