The Painter

L'ex agente della CIA Peter Barrett conduce una vita solitaria dedicandosi alla sua grande passione, la pittura. Diciassette anni prima si era ritirato dal servizio a seguito di un incidente che aveva messo fine anche alla sua relazione di coppia: durante una sparatoria, la sua fidanzata (e collega) incinta era rimasta ferita, perdendo la bambina che portava in grembo. Quando una ragazza si presenta da lui rivelandogli di essere sua figlia e chiedendogli aiuto per trovare la madre scomparsa, Peter dovrà affrontare il suo passato e al contempo vedersela con una squadra della CIA che vuole catturarlo, e con un misterioso killer deciso ad ucciderlo.

La regia di Kimani Ray Smith non riesce a sfruttare il potenziale dell'intreccio narrativo, anche a causa di scelte e soluzioni grossolane.

Almeno nelle intenzioni, il protagonista Peter (Charlie Weber) dovrebbe emergere come un personaggio interessante sul piano psicologico e dalle molteplici sfaccettature. È infatti al contempo sia un padre sia un figlio mancato: oltre a non sapere dell'esistenza della presunta figlia, ha un rapporto ambiguo e conflittuale con il padre adottivo Byrne (Jon Voight), nonché suo ex capo alla CIA, che lo ha cresciuto e svezzato fin da quando era piccolo, trasformando il suo disturbo all'udito in un punto di forza. Purtroppo, però, l'interprete principale Charlie Weber non ha propriamente il fascino che si addirebbe al personaggio, un po' troppo inerme anche di fronte a dubbi e sospetti, svelamenti e colpi di scena.

Braccato senza saperne il motivo, Peter scoprirà che non tutto è come sembra e che all'interno della CIA esiste un programma top secret di addestramento per agenti speciali da allevare e formare sin dall'infanzia, attraverso metodi a dir poco inquietanti e dai tratti quasi disumani.

Nonostante l'ambizione in fase di scrittura e il buon potenziale dell'intreccio, a The Painter manca il supporto di una regia all'altezza che possa creare la tensione necessaria, che sappia favorire la sospensione dell'incredulità, e che non si lasci schiacciare dal cliché dell'agente segreto costretto a tornare in azione.

Alcune scelte e soluzioni registiche appaiono piuttosto dozzinali, come i flashback in bianco e nero per spiegare le vicende passate dei protagonisti o l'improbabile travestimento da vagabondo di Byrne, oppure certe sequenze di combattimenti e scontri a fuoco dalla resa scialba e poco adrenalinica. E pure il finale, che vorrebbe essere aperto, finisce semmai per risultare irrisolto.

Come se non bastasse, vedere Jon Voight nei panni del capo forse doppiogiochista o forse no riporta alla mente il primo Mission: Impossible (1996), suscitando un confronto insostenibile col film di Brian De Palma e con un agente segreto ben più celebre di questo. La speranza è che, quando andrà in pensione, Ethan Hunt non si metta pure lui a dipingere. 