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Dark Matter, Stefano Odoardi: «Rispetto a tante altre arti, il cinema è ancora tutto da esplorare»

Intervista al regista del film, una storia terrena e orrida – il rapimento di un bambino – che avvicina le zone vuote e buie dell’animo umano come dell’universo intero. Perché quello che sta in basso è uguale a quello che sta in alto. Al cinema.
di Luigi Coluccio

venerdì 12 maggio 2023 - Incontri

È in giro per le sale italiane Dark Matter, il film di Stefano Odoardi prodotto da Superotto Film Production, Orange Media e Key Films, e distribuito dalla stessa Superotto. Con un cast numeroso e assortito, dai genitori spezzati Alessandro Demcenko ed Eleonora Giovanardi, al bambino perduto – in tutti i sensi – Giulio Cecchettini, passando per l’angelo caduto Angélique Cavallari e il caldo abbraccio del nonno Orso Maria Guerrini, Dark Matter parte da una storia terrena e orrida – il rapimento di un bambino – per avvicinare le zone vuote e fredde e buie dell’animo umano come dell’universo intero. Perché quello che sta in basso è uguale a quello che sta in alto.

Abbiamo sentito, in una lunga e coinvolgente chiacchierata, il regista Stefano Odoardi.

Lei fa la spola, a livello di vita e di arte, tra l'Italia e l'Olanda. E in quest'ultima si è formato con la frequentazione del DasArts e del Binger FilmLab, come ha anche avuto il supporto e una residenza del Royal Netherlands Institute di Roma. C'è un'attenzione diversa in Olanda al finanziamento e alla diffusione dei progetti artistici, magari in un'ottica di “arti espanse”?
Sicuramente sì. Se parliamo di arte in generale, di cross-over art, in Olanda è qualcosa di comune. In questo senso è un territorio fertile. Poi a livello di finanziamenti è un luogo comunque difficile, ma i progetti vengono valutati per quello che sono, mentre mi sto accorgendo che in Italia ci sono tante variabili che spesso non dipendono dal valore artistico del lavoro proposto.

“Arti espanse”, “cross-over art”: non a caso con i suoi lavori ha partecipato, tra gli altri, alla Biennale Arte, alla Biennale Musica e alla Triennale di Milano. Quanto è importante avere uno sguardo sostenuto da altri modi di fare arte in un momento particolare com'è questo per il cinema, tra la crisi della sala, la presenza dello streaming e le nuove modalità di creazione/fruizione?
Da cineasta mi pongo sicuramente come un autore che esplora un linguaggio tutto suo. Il cinema non l’ho studiato ma mi sono ritrovato a farlo, in una sorta di conoscenza in cui sono stato subito benissimo e che mi permette di lavorare in primo luogo sull’immagine. L’immagine non è solo l’inquadratura, poiché l’inquadratura è formata da tante cose, luce, suono, movimento degli attori davanti alla macchina da presa, e a tutti questi elementi sono molto attento, dedico molta cura.
È una cosa legata alla mia formazione, alle arti visive, che continuo a praticare, a vedere nel mondo attraverso un linguaggio che non è quello cinematografico. Anche perché il cinema è un’arte molto giovane, quindi come si fa oggi a dire cos’è il cinema? Questa è una domanda che mi pongo quando lavoro. Ho l’impressione che a volte ci si fermi in una safe-zone, ma il cinema rispetto a tante altre arti è ancora tutto da esplorare. E io me ne accorgo mentre lo faccio, e il confronto con le arti visive è di grande ispirazione.

Venendo al film, Dark Matter da più parti è stato definito come un qualcosa di altro, diverso, rispetto a quanto di solito produce l'industria italiana. A parte che nell'esplosione produttiva degli ultimi anni stiamo vedendo anche qualcosa di nuovo per il nostro cinema, non pensa che un’etichetta del genere possa più nuocere che giovare al film, ai film come il suo?
Sono completamente d’accordo con te. È come se si volessero mettere da una parte, quasi dicendo che questi film non possono avere un pubblico. Penso che non sia assolutamente così, perché un autore che lavora sul linguaggio, in questo caso cinematografico, il primo confronto che fa è con l’altro, e quell’altro è lo spettatore. Quando si dice “altro”, “diverso”, si crea una frattura con il pubblico, perché film come Dark Matter nascono dal cuore e vanno visti con il cuore, senza troppe razionalizzazioni. E questo aspetto, di una visione legata ad una spinta emotiva molto forte, è quello che il cinema dovrebbe approfondire di più rispetto, magari, ad una struttura narrativa che spesso diventa manipolazione dello spettatore. Ecco, lo spettatore va rispettato per quello che è. Paradossalmente mi sto accorgendo che il film, e lo dico senza polemica, da una parte della critica non venga compreso come oggetto “definito” ma etichettato come “diverso”. Il pubblico, al contrario, ha un’idea “definita” di Dark Matter. Da questo punto di vista si tratta quasi di un’opera popolare, non a caso ho scelto di fare un thriller perché attraverso un genere riconoscibile per il pubblico gli mostro una porta accessibile, e poi sarà allo spettatore decidere se attraversare tante altre porte e approfondire gli aspetti più complessi della propria anima. Il mio è uno slancio, un impeto verso il pubblico.
 

Con Angélique Cavallari, la sua attrice-feticcio, avete lavorato a 360° gradi, partendo dal nome del personaggio da lei interpretato fino ad arrivare ai vestiti di scena. In un film così trattenuto, rigoroso mi verrebbe da dire, quanto costruisce “dietro” lo schermo per poi agire in sottrazione con quello che arriva “davanti” allo schermo?
Il lavoro sulla Elena di Angélique nasce dalla scrittura, mia e della co-sceneggiatrice Sytske Kok, in residenza al Royal Netherlands Institute di Roma. L’idea era quella non di avere dei personaggi “naturalistici” ma delle figure irriconoscibili, quasi calate dallo spazio. Il padre, la madre, il nonno, non sono delle persone normali, e su questo ho insistito tanto con gli attori, che ringrazio perché si sono prestati a lavorare in un modo inusuale, partendo se vogliamo da un’astrazione. Il percorso fatto con Angélique è stato molto profondo, ed è iniziato dai nostri lavori fatti in precedenza. Non le ho dato dei riferimenti precisi rispetto ad esempio alla figura del carnefice, del rapitore, perché il suo personaggio è anche vittima, ostaggio a sua volta.


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