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Ultimo aggiornamento mercoledì 31 maggio 2023
Un giovane ragioniere, in attesa di processo nel 1977 per appropriazione indebita con una possibile condanna a 20 anni, si unisce a un gruppo di detenuti che chiedono l'amnistia. Il film ha ottenuto 14 candidature a Goya,
CONSIGLIATO SÌ
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Manuel è un giovane contabile con indosso un vestito di buona fattura e nelle tasche un pacchetto di sigarette - tutte cose che gli verranno tolte appena entrato a La Model, il carcere di Barcellona dove sono assegnati i detenuti in attesa di giudizio. È il febbraio 1976, siamo nella Spagna fascista e dittatoriale, e quello che aspetta Manuel è un periodo di attesa di sei o otto anni soltanto perché inizi il processo. Ma il suo periplo carcerario è scosso da quanto sta succedendo fuori: il caudillo Franco è morto ed è iniziata la Transición verso la democrazia. I prigionieri politici formano così il Copel, il gruppo dei carcerati in lotta, che con l'appoggio dei detenuti comuni chiede l'amnistia per i crimini commessi sotto il franchismo. Manuel si unisce a loro, e insieme al suo compagno di cella Pino, infiamma le rivendicazioni.
Prendendo spunto dall'evasione di 45 carcerati nel giugno 1978, il film racconta eventi a lungo rimossi nella giovane democrazia spagnola.
"Leggi sempre la Bibbia?" chiede il secondino, "Eh già, ti si aprono un sacco di porte" risponde Frank mentre ripone il tagliaunghie nel dorso del libro sacro - il film è, naturalmente, Fuga da Alcatraz di Don Siegel, titolo che, decisamente, tocca citare ogni qual volta si parli di prison movie e, ovviamente, il tagliaunghie servirà ad aprire il varco dal quale Frank e gli altri scapperanno... Eh già, in galera mentre si chiudono porte dietro le spalle altre se ne possono aprire. Porte della libertà, si spera. Anche della storia, perché no? Addirittura della percezione, e queste forse più di tutte. Manuel cerca fin dall'inizio di attraversare quelle del primo tipo, dall'alto della sua istruzione che gli permette di farlo in un modo nuovo e spiazzante - richiedendo, compilando e firmando dei reclami; Manuel, Pino e tutti gli altri, dopo un po', capiscono invece che il modo migliore per varcare le porte del secondo tipo, quelle della storia, è aggregarsi tutti insieme dal di dentro per unirsi a quello che succede al di fuori - la Transición; quindi c'è l'approdo finale, quella percezione che induce Manuel, Pino e un pugno di loro alla più radicale delle lotte, la fuga - sia essa dal carcere, dalla dittatura o dal fantasma di Franco.
È un gran lavoro di intrattenimento popolare e narrazione colta quello di Prigione 77, messo in scena dallo specialista Alberto Rodríguez, anzi, dagli specialisti Rodríguez e Rafael Cobos. Regista e sceneggiatore il primo, sceneggiatore il secondo, da quasi vent'anni i due insistono nel presentare gli strati più nascosti dell'anima spagnola attraverso piccoli e grandi racconti di genere, dalla ritrattistica generazionale di 7 virgenes e After agli affreschi socio-politici di Unit 7, La isla minima e L'uomo dai mille volti, tendendo sempre più i nervi scoperti di una nazione che ha le istituzioni che affondano fino al ginocchio nel lungo e complicato processo della Transición post-franchista.
E Prigione 77 non fa eccezione: prodotto da Atípica Films e dal colosso Moviestar+, presentato in apertura del 70°Festival di San Sebastian, candidato a 15 premi Goya (ne ha poi vinti 5), il film di Rodríguez parte dal brodo storico di quegli anni per accomodare una storia di finzione che sia esemplare sia nell'aderenza orizzontale al genere che nella verticalità della costruzione simbolica.
Sì, perché le vicende del Copel (Coordinadora de Presos en Lucha), come quella de La Model, sono reali ed esemplificative già per conto loro: il carcere di Barcellona fu costruito nel 1904 sull'incrocio chimerico dei principi di sorveglianza di Jeremy Bentham (il foucaltiano panopticon) e del modernismo catalano degli architetti Salvador Viñals e José Doménech y Estapá, per poi passare da istituto modello a fossa dove buttare dentro, semplicemente, chiunque; ed è a Barcellona che il Copel, dopo la sua fondazione nel carcere madrinista di Carabanchel a fine 1975, prende forza grazie all'unione tra i dissidenti politici e i criminali comuni.
Da qui Manuel e Pino, i due protagonisti principali (rispettivamente, Miguel Herrán, star de La casa di carta e Élite, e Javier Gutiérrez, visto in film come Il movente), si innestano come figure retoriche che incarnano da una parte la nuova Spagna stanca delle restrizioni ideologiche ma soprattutto consumistiche imposte dal regime, dall'altra la Spagna che ha vissuto una Guerra Civile e una dittatura quasi oramai accettate che queste siano una parte inscindibile del proprio essere.
Su questa dicotomia di storie e consapevolezze Prigione 77 trova il suo quadrato metaforico, facendo de La Model una rappresentazione in piccolo di quanto succedeva in grande, quasi sottoscrivendo l'assunto della Spagna come "prigione dei popoli" - nel carcere catalano sono stati rinchiusi, di volta in volta, anarchici e socialisti, franchisti pre-1939, prigionieri politici post-Guerra Civile, delinquenti comuni e infine attivisti della Transición. Nonostante la sceneggiatura non perda mai di vista l'impegno civile sottoscritto (ad esempio l'insistere sulla presenza massiccia dietro le sbarre di omosessuali, immigrati irregolari, gitani, vagabondi, come predisposto dalle leggi di salute pubblica volute da Franco), a volte dal popolare si scade nel populista, individuando spesso e volentieri la merce capitalistica di cui arriva notizia dentro la prigione come unico simbolico avanzamento sociale; ma a questo fa da contraltare l'occhio di Rodríguez, capace di dare ritmo e respiro ad una vicenda di due ore soprattutto con la scelta di sfruttare l'irripetibile forma carceraria de La Model, dilatata e allungata a dismisura, tanto a volte da far affondare Manuel e Pino dentro le sue incommensurabili spire.
La sommatoria è quella di un film che vuole ripercorrere tutte le tappe dei prison movie senza rinunciare né allo spettacolo né all'impegno, per una formula combinatoria che guarda allo scintillio hollywoodiano come all'aura europea.
Un film "chiuso", anzi recluso (e si perdoni la facile allusione), che fa del proprio spazio, la prigione del titolo, non un limite ma uno strumento allegorico per parlare di ciò che sta fuori. Sembra un giochino teorico a uso e consumo di letture pigre, eppure Prigione 77 rivela una stratificazione forse imprevista, non solo sul piano dei vari generi che vi si incontrano: il prison movie, va da sé; [...] Vai alla recensione »