Titolo internazionale | Dark Red Forest |
Anno | 2021 |
Genere | Documentario, |
Produzione | Cina |
Durata | 85 minuti |
Al cinema | 6 sale cinematografiche |
Regia di | Huaqing Jin |
Uscita | lunedì 22 maggio 2023 |
Tag | Da vedere 2021 |
Distribuzione | Wanted |
MYmonetro | 3,59 su 4 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 19 maggio 2023
Un maestoso documentario che tratteggia i particolari dell'annuale ritiro di migliaia di monache Tibetane, auto-confinate in piccole abitazioni in legno, che punteggiano il vasto altopiano del Tibet. In Italia al Box Office Il respiro della foresta ha incassato 11,4 mila euro .
CONSIGLIATO SÌ
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Nel 2014 il regista cinese Jin Huaqing si trova in una valle remota, nella parte ovest della provincia di Sichuan, dove incontra per la prima volta alcune monache tibetane. Si tratta di una comunità di circa diecimila persone, che sotto il magistero di alcuni lama intraprendono un consistente percorso di studi e preghiera presso il vicino Monastero di Yarchen. Per il regista è l'inizio di una serie di viaggi e complicate trattative per avere accesso nel tempio buddista senza disturbarne le attività, farsi accettare dalla comunità e ottenere il permesso di realizzare riprese, che prenderanno l'avvio solo nel 2017, per protrarsi fino al 2020. La "foresta rosso scuro" del titolo originale (Dark Red Forest, dalla caratteristica cromia degli abiti monacali), fondamentale per la vita spirituale del Tibet, è infatti accessibile a pochissimi. E sarà presto minacciata dal governo di Pechino, che proprio durante l'arco delle riprese interverrà sradicando molte delle monache o deportandole in programmi di "rieducazione culturale". Cosa che il film non mostra, più interessato a tenere il fuoco sulla tensione e devozione mistica delle religiose, anche se rari cartelloni propagandistici stradali danno l'idea della temperatura politica.
Formidabile distillato di anni di pazientissima osservazione, il film sembra quasi un esercizio contemplativo scaturito dall'impegno e dalla dedizione degli oggetti verso i quali rivolge lo sguardo.
Non sarebbe corretto definirle protagoniste, perché nessuna delle monache spicca su o si distingue rispetto a un'altra e perché per espressa volontà del regista (che firma anche direzione della fotografia e montaggio) di nessuna di loro conosciamo il nome o anche solo una parte di passato, ma solo l'aspirazione a migliorarsi cercando di restare nel monastero.
Il loro è un coro, un collettivo, un corpus spirituale, un'unità compatta che obbedisce non alle leggi della macchina da presa (il più possibile nascosta, oltre che oggetto a loro sconosciuto) ma alle regole dell'eremo: studio, isolamento, pratica, silenzio, preghiera, esercizio della pazienza e del non attaccamento.
Non esiste sceneggiatura, né drammaturgia, o dialoghi con cui tentare anche minimamente di familiarizzare o immedesimarsi. E nemmeno commento, tanto meno musicale, didascalie, voce over. Solo una successione di quadri, scenari, a volte intimi - visite mediche, dialoghi con il maestro - e a volte rituali - sessioni di canto e preghiera tra cembali e tamburi, oppure lo spostamento, nei cento giorni più freddi dell'anno, verso un ritiro all'esterno, in piccole casette di legno diligentemente montate e smontate per l'uso.
Piccoli avamposti di indipendenza in un ambiente inospitale, duro, che costantemente ricorda a loro e a chi guarda la caducità terrena, l'inessenzialità del corpo, l'irrilevanza dell'umano, le monache testimoniano un principio di resistenza, un sistema di valori, pongono domande esistenziali.
L'impatto e la persistenza di immagini dai margini del mondo, da un Tibet oppresso, sono ipnotici, chi guarda si abbandona loro come sotto effetto rasserenante di mantra cantati ad libitum.
La macchina, presenza non invadente, quasi invisibile, registra la poesia primitiva, ultraessenziale di un paesaggio indistinto di volti ma anche il crudo realismo della sepoltura celeste (o sky burial): l'offerta dei cadaveri agli avvoltoi, perché li trasportino in una dimensione ulteriore, continuando il ciclo di vita altrove. Immagini, queste, che rendono Il respiro della foresta una di quelle visioni impossibili da dimenticare.
In una valle isolata nella provincia occidentale di Sichuan, molte monache tibetane fanno parte di una comunità di circa diecimila persone, che, sotto la guida di alcuni maestri, intraprendono un intenso percorso di studi e preghiera presso il vicino Monastero di Yarchen. Jin Huajing, racconta questa storia ne Il respiro della foresta, premiato per il Miglior Documentario al Golden Horse Film Festival [...] Vai alla recensione »
Al monastero Yarchen, su un altopiano in Tibet, regione di Sichuan, si staglia in mezzo alla neve una fitta foresta rossa, come suggerisce il titolo originale, Dark Red Forest, del doc di Jin Huaqing (in Italia premiato al Trento Film Festival 2022). A comporla non sono alberi ma circa 20 mila monache tibetane, «naturaliste spirituali» che scelgono di ritirarsi in piccole capanne durante i 100 giorni [...] Vai alla recensione »
Nel monastero buddista Yarchen Garm, nella contea di Baiyu, area autonoma di Garzc, nella provincia cinese dello Sichuan, vivono più di 10.000 tibetane che praticano il monachesimo. Isolate e immerse nella natura più aspra e avversa, lontane dai propri affetti, affrontano il lungo cammino per raggiungere lo stato divino. Il respiro della foresta di Jin Huaqing segue queste migliaia di monache durante [...] Vai alla recensione »