Anno | 2018 |
Genere | Documentario, |
Produzione | Italia |
Durata | 82 minuti |
Regia di | Daniele Segre |
Uscita | mercoledì 16 ottobre 2019 |
Distribuzione | I Cammelli |
Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
MYmonetro | 3,07 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 14 ottobre 2019
Daniele Segre torna ad indagare nel mondo dei tifosi. Cosa rappresenta, per loro, la curva?
CONSIGLIATO SÌ
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A quattro decadi da uno dei suoi primi lavori, Il potere dev'essere bianconero (1978) Daniele Segre posiziona di nuovo la macchina da presa in un ambito non proprio tra i più accessibili: il gruppo dei Drughi, una delle cinque tifoserie organizzate della curva juventina. Il nome drughi riprende quello dei delinquenti furiosi di Arancia meccanica di Stanley Kubrick (1971), a sua volta tratto dal romanzo omonimo di Anthony Burgess): un fotogramma con le sagome nere dei droogs campeggia sullo sfondo di uno dei set di questa serie di interviste a fedelissimi bianconeri.
Un montato delle loro risposte "posate" (le domande rimangono fortunatamente fuori dal girato, così come ogni commento o didascalia) si alterna ad alcune riprese di cori fuori dallo stadio e a fotografie d'archivio, tra cui quelle scattate dal regista e raccolte nel catalogo "Mazzotta Ragazzi di stadio" (1980), nonché al film omonimo.
Le testimonianze concorrono a definire la necessità di aderire in maniera assoluta e acritica alla "fede" a una squadra, così come alla socialità coatta e alla divisione dei ruoli che ne conseguono. Un senso di appartenenza sui generis, un rito di iniziazione che si rinnova ogni settimana, svincolato da qualsiasi altra forma sociale, che sia la famiglia o l'ambiente di lavoro. Che va difeso perfino a patto di perdere amici, genitori, eventuali opportunità di emancipazione individuale o addirittura la libertà personale.
L'accesso a quel mondo chiuso è anzi considerato un motivo di vanto, un grado guadagnato in un campo ideale di guerra, una simulazione di scontro in un mondo che spesso reprime gli istinti di rabbia. Pur in assenza di qualsiasi riferimento alla gestione degli scontri dentro e fuori gli spalti o al possesso di armi o al rapporto con le forze dell'ordine e il club, e nemmeno all'ingerenza criminale nella gestione dei biglietti (di recente il gruppo è stato oggetto di un'inchiesta di Report sull'infiltrazione della 'ndrangheta nello stadio torinese, a cui è seguita un'intimidazione feroce nei confronti dell'autore, il giornalista Federico Ruffo), si avverte al contempo un cambio di rotta da quella prima ricognizione del regista. Uno spartiacque che pare suggerito dalle trentanove vittime all'Heysel di Bruxelles, il 29 maggio del 1985: da un mondo semplificato e militarizzato, quindi con delle regole, a una realtà attuale più cinicamente spregiudicata, fuori controllo.
Colpisce il fatto che nessun intervistato compaia con il proprio nome e cognome ma soprattutto che molti neghino con forza la violenza e il razzismo degli ultrà, nonostante motti e simboli fascisti siano palesi, esibiti. Meglio, dati come elementi scontati, connaturati a quel contesto. La rissa, lo scontro, l'identificazione di un nemico sono intesi come sistema, valvole di sfogo di una rabbia sociale che ha le sue radici in un una comunità e una realtà socioeconomica ben più ampia, su cui il film spinge tutti a riflettere, tifosi e non. Nella sezione Festa mobile al Torino Film Festival 2018.