(Sarebbero tre stelle e mezza)
E’ oramai chiaro a tutti che la cifra stilistica di Sorrentino è il barocco. Se è del regista il fin la meraviglia, non si può prescindere da un’esperienza sensoriale che sia quanto più intensa possibile: ecco allora una parte visiva davvero sontuosa accompagnata da musiche azzeccate che riescono a moltiplicarne l’effetto. Sfruttando la brillante fotografia di Luca Bigazzi, il regista napoletano dissemina tutto il film di inquadrature memorabili, sfruttando bene il contrasto fra la linearità e la luce del panorama montano messe a confronto con gli ambienti vecchio stile che caratterizzano gli interni del grande albergo un po’ malandato in cui si svolge gran parte della vicenda: i ‘quadri’ dell’esposizione sorrentiniana variano così dalle nature morte con persone – la sauna, la piscina, l’amore comprato – ai paesaggi in cui la bucolicità alpina brilla nel verde dei prati e nel bianco delle nevi. La colonna sonora di David Lang sottolinea la storia con una delicata, malinconica classicità alternandosi con gusto, come abitudine del regista, a brani provenienti dall’universo pop-rock (inclusa la fascinazione per l’orrido): spunta anche un (bel) rifacimento di ‘Reality’, ma lo spazio maggiore è appannaggio di Mark Kozelek che, in una scena, interpreta se stesso. L’uomo dietro i Sun Kil Moon segue David Byrne e Venditti nella raccolta di figurine musicali di Sorrentino, qui rafforzata anche dalla violinista Viktorija Mullova e dal soprano Sumi Jo: una tendenza all’accumulo che, spesso e volentieri, non dà un particolare valore aggiunto. Del resto, l’impressione di sovraccarico è sempre presente nei film del regista, con tanti argomenti che si intrecciano grazie anche all’introduzione di numerosi personaggi secondari a volte solo abbozzati: ecco allora che alla meditazione sulla vecchiaia si uniscono il rapporto fra padri e figli, la riflessione sul passato, il motore della creatività e la sua stasi, il desiderio come base dell’arte e della voglia di andare avanti nella vita più varie ed eventuali. Il tutto grava su una storia assai esile: in un hotel di lusso sulle Alpi svizzere Fred, direttore d’orchestra a riposo, e Mick, regista che tenta disperatamente di rimanere in attività, entrambi anziani, passano le vacanze rievocando sovente il passato comune. Il primo è al limite dell’apatia che ne accentua una certa anaffettività, mentre il secondo si circonda di giovani alla ricerca di linfa vitale: l’abbandono della figlia del primo da parte del materialissimo pargolo del secondo increspa appena le acque, consentendo di esternare qualche vecchio rancore prima che una serie di piccoli eventi portino i due personaggi principali a incrociare gli stati d’animo. Tutto qui, ma è impossibile raccontare le mille deviazioni che tagliano la strada e, quasi come in Pynchon, prendono per un attimo la scena per poi venire dimenticate, come l’attore colto tormentato dall’idea di venire ricordato solo per l’interpretazione di un supereroe (vedi alla voce ‘Birdman’) o l’omaggio all’idolo Maradona per non parlare del monaco buddista oppure di Miss Universo che, almeno, è indispensabile per la scena in un certo senso riassuntiva riportata anche nel manifesto. A parte gli scambi di battute tra Fred e Mick e a qualche spruzzo di umorismo acido, i dialoghi sono spesso stilizzati allo stesso livello delle immagini, ma alla fine le frasi ad effetto sono, anch’esse in eccesso oltre a rivelarsi a volte di una certa banalità: così, ripensando al film a mente fredda (ovvero lontano dalla fascinazione della messa in scena) si finisce per pensare che si tratti di un lavoro non del tutto riuscito, in cui ai difetti propri del regista non si contrappone il mirabile equilibrio presente ne ‘La grande bellezza’. Ciò non toglie che, nel buio della sala, le emozioni non manchino perché – tanto vale ribadirlo – Sorrentino è bravo con la macchina da presa: a confermarlo basterebbero gli echi felliniani della scena che celebra le ‘donne’ di Mick e il crescendo emotivo della sequenza finale spezzata però da un’immagine-coltellata che neanche Dario Argento. In più c’è un signor cast, tutto internazionale (il film è stato recitato in inglese, come già ‘This must be the place’) e sicuramente in sintonia col progetto: la classe di Michael Caine nei panni di Fred (con una pettinatura che ricorda parecchio Jep Gambardella) , il dinamismo di Keitel come Mick, la bella e brava Rachel Weisz, un Paul Dano che sorprende in positivo e la breve apparizione di Jane Fonda che non nasconde le rughe e assomiglia sempre più al padre. Il risultato è un lavoro meno riuscito del predecessore, ma che, pur tra eccessi di ambizione e qualche scivolata, sa regalare momenti di grande cinema e due ore di intrattenimento che, malgrado l’argomento non facile, non fa percepire il tempo che passa.
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