Nel 1990 Marina Abramovi (Belgrado, 30 novembre 1946) creò una installazione fatta di blocchi di ghiaccio disposti intorno al proprio corpo, sul quale si muovevano (ma potevano pure stare fermi, potevano fare qualunque cosa fosse nelle loro possibilità) cinque pitoni vivi e sazi. La performance si intitolava 'Dragon Heads', e ad affascinare non erano né i rettili, né lei, né il ghiaccio, quanto la geometria variabile. Un corpo umano può stare fermo, se vuole; il ghiaccio è un blocco per definizione, ma i serpenti? Gli animali? Una sola installazione può essere centomila; mai nessuna, perché ci sarà sempre qualcosa di significativo e permanente anche se allo spettatore distratto capitasse di non cogliere nulla. Paradossi. Anima della performer serba, che non ragiona mai sul semplice rapporto tra arte e vita comunemente immaginato e rappresentato (anche dal cinema) ma le compenetra entrambe. Un atto quotidiano può essere ripetuto fino a diventare essenza di un'opera, con parti del proprio vissuto che solo nella sublimazione del gesto, nell'estetica, si compiono pienamente. Delle performance di Marina Abramovi siamo abituati a contemplare la posizione del suo corpo nello spazio (può essere una stanza, un parco, una sala del Moma di New York o del Pac di Milano). Meno a pensare al valore dell'esperienza performativa. O meglio, al fatto che l'esperienza possa diventare opera d'arte o parte di essa. L'esempio emblematico è la fine del suo rapporto con l'artista tedesco Ulay, dopo una relazione durata tredici anni. I due sono partiti da punti opposti della Grande Muraglia cinese e in novanta giorni hanno percorso 2500 chilometri per poi incontrarsi e dirsi addio per sempre. Pensateci bene: qual è la performance? Il viaggio? Il rapporto tra i corpi infinitamente piccoli e la muraglia? L'incontro? Oppure l'esperienza in sé?

Altra particolarità emblematica dell'arte di Marina Abramovi è l'assenza di qualunque solipsismo: la performance esiste se scaturisce da una interazione. Con la persona amata per anni, come sotto la Grande Muraglia, oppure con lo spettatore chiamato però a non essere più tale, annullando qualunque distanza dalla cosa vista o solo percepita. In 'Freeing the Voice' (1976), una delle sue performance più note, l'artista si ritrova supina e con la testa inclinata mentre dalla bocca emette un suono sempre più simile a un grido. Il cuore dell'esecuzione in questo caso non è l'atonalità della voce, quindi del proprio corpo nello spazio, quanto la reazione dello spettatore. Come accoglie il grido: si spaventa? si avvicina? se ne va? ride? Qualunque sensazione esterna all'installazione diventa dispensatrice di senso. Fino ad arrivare a The Artist is Present, film visibile in streaming su MYMOVIESLIVE! fino al 22 luglio, parte di un trittico che comprende The House With the Ocean View (2002) e Seven Easy Pieces (2005). La riflessione al centro della performance filmata è ancora rivolta al ruolo dello spettatore nell'istallazione, e si fa più estrema. Per due mesi e mezzo (dal 14 marzo al 31 maggio 2010), sei giorni su sette, la Abramovi è rimasta seduta in un vuoto salone del Moma accogliendo di fronte a sé chiunque si volesse accomodare. Ogni sguardo incrociato con quello di una persona di volta in volta diversa è un atto unico eppure multiplo, irripetibile ma illusoriamente iterativo. Ci sono i contatti, i movimenti banali, gli ammiccamenti. Chi partecipa non sa esattamente se sia lui a innescare la reazione dell'artista; ma la cosa geniale è soprattutto che non lo sappia lei.