A erva do rato

Un uomo e una donna si incontrano in un cimitero desolato e avviano una convivenza per compensare le reciproche mancanze. A lei è venuta a mancare da poco la figura paterna, persona a cui si dedicava completamente e servilmente, per il semplice bisogno di sentirsi necessaria per qualcuno; a lui, intellettuale appassionato di storia e di geologia, manca la possibilità fisica di consumare un rapporto sessuale, problema che tende a sublimare attraverso lo studio e la compilazione delle sue lunghe ricerche. L'idillio platonico si interrompe quando giunge in casa un topo, che diviene il terzo elemento di un anomalo triangolo amoroso.
Partendo da due engrammi, due tracce mnemoniche lasciate impresse da dei racconti dello scrittore brasiliano Machado de Assis, Júlio Bressane (in co-regia con la sceneggiatrice di fiducia Rosa Dias) sviluppa un atipico racconto sulle ossessioni e le pulsioni dello sguardo e della carne. E lo fa apparentemente seguendo un percorso intimo, cerebrale: un insieme di libere associazioni mentali, conseguito a partire dalle immagini di un orribile topo e di un uomo che convive con uno scheletro. Il maturare del rapporto fra i due protagonisti segue così una parabola tipicamente freudiana, che da una più casta sete intellettuale di condividere il sapere dell'uomo, arriva a far emergere le pulsioni sessuali latenti. Il desiderio di entrambi pare infatti accendersi e svilupparsi progressivamente, attraverso tappe un poco frammentate, nelle quali lui sublima sempre più concretamente il suo desiderio di penetrazione (la "possiede" prima attraverso le parole, poi attraverso le immagini di un apparecchio fotografico), mentre lei scopre la passione ed annulla il suo bisogno di sottomissione in essa.
Allo stesso modo, anche la costruzione delle immagini pare svilupparsi con un movimento in crescendo. Bressane comincia infatti la sua opera impostandola quasi come un contrappunto ironico dei quadri-immagine dei film di Straub e Huillet, per poi invece passare a una rappresentazione non convenzionale dell'ossessione erotica, che può ricordare la fantasia del portoghese Joao César Monteiro de La commedia di Dio. È così che un topo diviene il vero e proprio deus ex machina del film, dentro e fuori dal suo testo, per il peso eccessivo che Bressane lascia a questa sola intuizione. Perché il difetto principale della pellicola, è proprio quello di concentrarsi su di un numero troppo ristretto di idee e di strategie rappresentative, tale da garantire un sostegno adatto alla durata del film. Probabilmente il formato e le tempistiche di un cortometraggio avrebbero potuto essere più adeguate, per il peso specifico differente che ne avrebbero acquisito i nuclei narrativi e l'originalità del racconto, che di certo non manca. Certo è, che a Bressane e a Dias spetta un encomio per la fantasiosa leggerezza con cui sono riusciti a rendere in immagini una scena di zoofilia senza minimamente peccare di volgarità. 