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Rassegna stampa di Alberto Lattuada

Alberto Lattuada è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, montatore, musicista, assistente alla regia, è nato il 13 novembre 1914 a Milano (Italia) ed è morto il 3 luglio 2005 all'età di 90 anni a Roma (Italia).

RED
L'Unità

Ha fatto a tempo a inaugurare il rifacimento del suo Mulino del Po, quello chalet sulle rive del fiume che aveva fatto da sfondo al suo film omonimo, tratto dal romanzo di Baccelli. Distrutto dall’incuria e da ansie modernizzatici senza memoria, e poi risorto e trasformato in parco. E lui era andato, solo poche settimane fa. Un’occasione per ricordare la sua infanzia di lombardo nato nel 1914, anche se pellicola e romanzo erano ambientati nell’Ottocento. Oggi, prima domenica di luglio, Alberto Lattuada ha detto addio al mondo. Il regista è morto nella sua casa di campagna nei pressi di Roma. I funerali si svolgeranno martedì a Roma nella chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo.

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

Alberto Lattuada è stato un grande regista e non se ne ricordava più nessuno, o quasi. Lo sapevano gli esperti, certo. Lo ricordava il grande pubblico per cui ha sempre lavorato, ma che era invecchiato con lui. Lo sapevano i colleghi, che di Lattuada avevano sempre ammirato la duttilità, la cultura, l'eclettismo, la capacità di usare tutti i generi facendoli suoi. Eppure sul regista di Anna, il gra n mélo con Silvana Mangano omaggiato da Nanni Moretti in Caro diario, era calato un velo di silenzio. Come accade paradossalmente ai grandi artisti che sopravvivendo alla loro epoca non si decidono a entrare nella leggenda. E come succede anche più spesso ai cineasti che non creano mondi nuovi, non impongono uno sguardo o uno stile riconoscibili a prima vista, ma provano, cambiano, sperimentano. Appoggiandosi magari ad altri grandi.

ALBERTO CASTELLANO
Il Mattino

Non è un caso che le sue tre componenti espressive fondamentali (la vocazione letteraria, la rappresentazione del sesso, una conoscenza e un uso del mezzo tecnico insolita per il cinema italiano) siano state spesso semplificate con altrettante etichette («calligrafico», «regista delle donne», «cineasta all'americana») che di fatto lo sminuivano. Dopo essersi laureato in architettura a Milano, dove era nato il 13 novembre del 1914, figlio del musicista Felice, il giovane Lattuada manifesta subito interessi poliedrici. Lavora come scenografo, scrive racconti, articoli, poesie, recensioni cinematografiche, s'interessa di fotografia, ma soprattutto si dedica al recupero e allo studio di vecchi film, ponendo le basi per la futura Cineteca italiana, che fonderà con il fratello di Luigi Comencini, Gianni. Per il suo film d'esordio dietro la macchina da presa «Giacomo l'idealista» (1942) attinge a un romanzo di Emilio De Marchi, dando inizio a un connubio con la letteratura che segnerà regolarmente tutta la sua produzione. Il film mette in evidenza subito le sue doti narrative, confermate dal successivo «La freccia nel fianco» ('44) dal romanzo di Luciano Zuccoli, che lo accostano ai «calligrafi» Poggioli e Soldati. L'ondata neorealista nel dopoguerra lo contagia inevitabilmente, ma lui prende subito le distanze dai dettami ideologico-formali rivendicando uno stile debitore del gangster e del noir hollywoodiano (il taglio delle inquadrature, il ritmo, l'azione, una buona dose di spettacolarità). «Il bandito» ('46), «Senza pietà» ('48), «Il mulino del Po» ('49) da Bacchelli, interpretati dalla moglie Carla Del Poggio, e «Il delitto di Giovanni Episcopo» ('47) lo impongono come un autore di indubbio talento e di sicura personalità. Nei primi anni '50 s'impegna nella difesa del cinema italiano ed è in prima fila nelle battaglie contro la censura. Dopo «Luci del varietà» ('50) girato a quattro mani con Fellini, si muove di pari passo sul doppio binario della letteratura e dell'erotismo. Si rivolge ai grandi romanzi di D'Annunzio, Gogol, Verga, Puskin, Cechov, Machiavelli, Brancati, Bulgakov, Chiara e comincia il ciclo dei ritratti femminili, personaggi di donne descritti con sensibilità e incisività, che diventano per lui il veicolo priviliegiato di una gamma di sentimenti e sensazioni. Ne scaturiscono opere che esaltano le qualità di attori già affermati o lanciano nuovi talenti: «Anna» ('51) e «La tempesta» ('58) con Silvana Mangano, «Il cappotto» ('52) con un memorabile Renato Rascel drammatico, «La lupa» ('53), «La spiaggia» ('54) con Martine Carol, «Guendalina» ('57) e «I dolci inganni» ('60) con le debuttanti Jacqueline Sassard e Catherine Spaak, «Mafioso» ('62) con Sordi, «La mandragola» ('65) con Totò, «Don Giovanni in Sicilia» ('67) con Lando Buzzanca. Negli anni Settanta Lattuada cambia genere e rilegge la commedia all'italiana con una serie di film impreziositi dalla presenza di attori popolari come «Venga a prendere il caffè da noi» ('70) con Tognazzi, «Bianco, rosso e...» con Celentano e Sofia Loren ('72), «Sono stato io» con Giannini ('73), «Le farò da padre» con Proietti ('74), «Oh! Serafina» con Pozzetto ('75) e «Cuore di cane» ('76), satira della burocrazia russa da Bulgakov. Prima di congedarsi definitivamente dal cinema con il trascurabile «Una spina nel cuore» ('85) e di realizzare alla fine degli anni Ottanta alcuni prodotti per la televisione come il kolossal Rai «Cristoforo Colombo», il maestro ha scolpito la sua classe narrativa, il suo inconfondibile tocco e il suo seducente sguardo ambiguo in «La cicala» ('80), elegante melodramma erotico in cui si affrontano la matura sensualità di Virna Lisi e il provocante libertinaggio di Clio Goldsmith.

SILVANA SILVESTRI
Il Manifesto

Negli ultimi anni viveva isolato nella sua malattia in famiglia, protetto e vegliato dalla moglie Carla Del Poggio, l'attrice che scelse ancora sedicenne, sorella del Bandito: grande maestro del cinema italiano, un uomo del passato per il suo rigore e la sua competenza, ma che sarà sempre un contemporaneo per aver saputo catturare l'essenza stessa del cinema, il bagliore della giovinezza. Le sue «fanciulle» da Jacqueline Sassard - Guendalina, ad Teresa Ann Savoy (Le farò da padre), a Dalila Di Lazzaro (Oh Serafina!) a Clio Goldsmith e Barbara De Rossi (La cicala) hanno reso emblematico il suo nome, in una fase del suo cinema già piuttosto avanzata, quando lo scontro tutto italiano con la censura aveva sempre a che fare con l'erotismo, la sensualità, la morale corrente, la piccola borghesia al potere. E accanto alle giovanissime, sono stati trasformati dal suo occhio sapiente attori «comici» reinventati come Aldo Fabrizi, Proietti, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, Lando Buzzanca, Ugo Tognazzi, Adriano Celentano, il geniale Giannini (e colse Gassman al suo primo apparire). Sono dovuti passare gli anni degli schieramenti invalicabili, per riconoscere la sua grandezza di primo piano, offuscata da quel marchio di «calligrafismo» che come una parola d'ordine serviva a individuare i registi che non mettevano al primo posto le istanze politiche, ma quelle artistiche, le «atmosfere» detestate nel dopoguerra. Figurarsi poi un regista che si può considerare il diretto discendente di un certo decadentismo italiano: nessuno come Lattuada ha colto le atmosfere dannunziane e le ha riportate sullo schermo e non solo per aver ricomposto gli sfinimenti del poeta (Il delitto di Giovanni Episcopo), ma per aver colto un clima culturale, letterario di respiro europeo di inizio secolo, per essersi fatto interprete della pagina scritta in capolavori come Il cappotto da Gogol, interpretato in maniera sorprendente da Renato Rascel, celebre attore di varietà in una parte drammatica sostenuta grazie allo stile sobrio del regista. Alla letteratura russa tornerà con La steppa da Cechov e con Cuore di cane ('76) dove affronterà un difficile Bulgakov con Max von Sydow e Cochi Ponzoni, degli scrittori italiani sarà ancora in sintonia con Bacchelli, Berto, Brancati, Piero Chiara, come con De Marchi e Verga. Il primo film lo avrebbe tratto da Moravia (Gli Indifferenti) se la censura razziale non lo avesse bloccato più volte. Cresciuto nell'ambiente cosmopolita di Milano, compagni di liceo Mondadori e Monicelli, studi di architettura al Politecnico, quando il richiamo del cinema si fece decisivo, il padre lo convinse a concludere gli studi perchè, gli disse, «se non termini il Politecnico e non digerisci la noia della matematica superiore, della meccanica razionale, della geometria proiettiva, delle costruzioni, tu non porterai a compimento nulla nella tuia vita, nessuna specie di lavoro». Suo padre, nel frattempo, aveva lasciato il posto fisso per dedicarsi alla musica lirica. L'ambiente del cinema di Milano significa per quei ragazzi degli anni Trenta frequentare il Cineguf, il centro dove si riunivano i giovani iscritti al partito fascista con Castellani ed Emmer (che finanziarono i documentari di Comencini, mentre Lattuada ne fu espulso «per intempreranza»), il Cine Club diretto da Baffico e Masetti, il primo in Italia ad avere un'attività continuativa, la rivista «Convegno» che dovendo avere un protettore dell'area fascista, e trovarono in Galeazzo Ciano il loro padrino non allineato. Milano significava soprattutto la Cineteca («Comencini ed io raccoglievamo i vecchi film nei depositi, sottraendoli al macero»): da una ventina di film si arrivò a diecimila titoli, con la guerra riparò tutti i film nella sua casa di campagna. E non bisogna dimenticare l'importanza di Carlo Ponti, giovane produttore pronto a trasferire a Roma la sua abilità pragmatica, Mario Soldati maestro del fraseggio con la macchina da presa. Il posto di Lattuada nel cinema italiano è stato quello di registrare l'eredità del piccolo mondo antico nel nostro paese con il supporto del genere, un classico fraseggio che guarda al cinema francese, sa prendere le distanze dall'aristocrazia esaurita e dalle classi popolari inventate dal cinema. Il suo è il punto di vista della borghesia colta, la beffarda messa in scena di un erotismo con funzione critica in un paese tanto bigotto da essere tornato ancora oggi a far parlare di sè nel resto dell'Europa, «neopagano» come diceva lui stesso, sempre più giovane man mano che passavano gli anni. Fino a fare, non molti anni fa, un breve tratto di strada su per una strada ghiacciata in pendenza sotto la neve temendo per la sua fragilità, ma con la precisa sensazione che, se avesse voluto, avrebbe potuto anche fare tuttoin discesa libera, parlando non a caso di Carmelo Bene come argomento inaspettato. «La disponibilità, l'abbandono, la gioia, l'amore sono le ragioni del cinema di Lattuada», scriveva Giuseppe Turroni, il suo più sottile biografo, li univa la passione per la faccia misteriosa del cinema. Da Il Manifesto, 5 luglio 2005

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

In «Guendalina», 1958, recitava un'altra sua scoperta, Carla Gravina, pure lei colta all'uscita di un ginnasio in via Asmara a Roma; del resto, anche sua moglie Lattuada l'aveva conosciuta facendole la posta mentre andava a scuola. Catherine Spaak, conosciuta in Costa Azzurra dallo sceneggiatore Charles Spa- ak, restava la sua scoperta forse più riuscita e tormentosa: «Andò benissimo per “I dolci inganni”, nel 1960: la sua schiena fragile e nuda era intensamente suggestiva, purissima. Aveva in sé il mistero dell'androgino, è un genietto molto enigmatico e feroce: non esiste che lei, solo a se stessa dà importanza, gli altri si limita a usarli. Dopo il successo mi ha rinnegato, poi siamo ridiventati come vecchi compagni di scuola». Altre invenzioni: Cristina Gajoni («un Renoir»), le principesse Soraya e Ira Fürstenberg, Thérèse Ann Savoy («Le farò da padre», 1976), Clio Goldsmith («La cicala»,1980). Insomma creare attrici era per questo regista intellettuale una vera vocazione, originata da diversi elementi: il pigmalionismo, la prepotenza, l'amore per le donne e in particolare per la loro bellezza adolescente («Mi danno anche del maniaco, dell'amatore di ninfette, ma non è vero. Sono normalissimo, quindi le donne giovani mi piacciono più di quelle mature». Credeva in tutte, magari per poco ma veramente, come del resto credeva in tutto ciò che faceva, e questa totale partecipazione spiega forse il suo eclettismo d'autore. Ha diretto film tra loro molto differenti: drammi neorealisti, affreschi storici («Il mulino del Po», «La tempesta»), analisi intimiste («Lettere di una novizia»), gialli come «L'imprevisto», fumetti come «Anna» (da lui definito un film cinico-farmaceutico, perchè vi erano dosati con freddezza tutti gli ingredienti necessari al successo popolare), avventure spionistiche («Fraulein Doktor», «Matchless»), commedie di provincia («Venga a prendere un caffè da noi»). Per non parlare del primo film a cui collaborò, «Il cuore rivelatore», una versione in sedici millimetri del racconto di Poe diretta da uno che poi nel cinema non fece carriera, Alberto Mondadori. I suoi estimatori dicevano che era un regista di tipo americano, capace cioè di dare sempre un prodotto ben confezionato, corretto, e ogni tanto anche un film di ottimo livello. I suoi detrattori dicevano che era un regista senza un proprio mondo, segnato dal dualismo tra impegno intellettuale e tentazioni della popolarità, tra cultura e spettacolo. La cultura era all'origine di Lattuada. Cresciuto in una famiglia in cui l'arte era metodo di vita, figlio del compositore Felice Lattuada; redattore nel 1933 di «Camminare», una rivista di ribellismo giovanile fascista fondata insieme ad alcuni compagni di scuola del liceo Berchet di Milano, Luciano Anceschi, Enzo Paci; laureato in architettura al Politecnico; componente il comitato di redazione di «Corrente» con Ernesto Treccani, Vittorio Sereni, Giansiro Ferrata, Dino Del Bo, Raffaele De Grada; co-fondatore e organizzatore della Cineteca Italiana. Insonne, vitale, fumatore di mezzi toscani (quattro al giorno), portatore di cappelli e berretti. Pignolo: perché il cinema è un mestiere di pignoleria, la mancanza di meticolosità può distruggere la geniale sintesi di un'idea, perchè era milanese, perché era architetto e perché, diceva sua moglie, era pazzo. Sempre dominato dalla passione di scrivere: critica letteraria e cinematografica, racconti e appunti di viaggio, note apposte su certi quadernetti cartonati che teneva sempre in tasca, versi, novelle allucinate alla maniera di Gogol. Indimenticabile, nel suo «Diario del grande amatore», l'insuperato inno surrealista dell'anziano viveur austriaco marchese Rathenau von Krommen: «Io ormai ciunto-età decrepita-a mi la tonna-difenuta ensipeta -perciò montare-mio velocipeta -e marsch! Vienna ancor».

GIAN LUIGI RONDI

Lo scorso novembre, qui su «Il Tempo», avevo celebrato i suoi 90 anni. In una chiave storico-critica, senza riferimenti privati. E questo perché, mentre scrivevo, sapevo. Della sua lunga infermità che lo aveva quasi costretto al silenzio, della sua incapacità di riconoscere gli altri, delle cure quotidiane, per stargli vicino, per farlo sentire vivo, che, anche a costo di duri sacrifici, non gli lesinava un solo istante sua moglie, la nostra carissima e sempre bella Carla Del Poggio. Era da lei che avevo sue notizie al telefono anche se, neanche un mese fa, per San Luigi, la mia festa e la sua perché era stata battezzata come Maria Luisa, non avevo osato chiederle nulla, intuendo molto dal suo silenzio su di lui. Non avevo mai neanche osato chiedere di andarlo a trovare, sapendo che si sarebbe limitato a guardarmi con occhi spenti. I miei ultimi ricordi, così, risalgono a quando ero presidente della Biennale a Venezia e lui, al mio fianco, faceva parte del Consiglio direttivo dell'Ente. Lavoravamo insieme e anche se, spesso, certe riunioni lo affaticavano («non è il mio campo», diceva), passavamo poi molte sere insieme sulla terrazza dell'albergo che ci ospitava, lui estasiato di fronte al panorama che ci si spalancava di fronte, la Chiesa della Salute, specialmente quando alle sue magiche architetture dava risalto la luce della luna. «Questi splendori, però, — mi disse una sera — debbo pagarli con tutti quei temi a me estranei che tu tratti in Consiglio. Stai tranquillo — continuò — non me ne andrò, però diminuirò le mie presenze perché sento che proprio cominciano a pesarmi. Oltre a tutto — aggiunse con mia grande sorpresa — debbo seguire da vicino una trattativa che ho avviato con una casa d'aste per certe vendite cui sto pensando: ho bisogno di soldi, non lavoro più e debbo cominciare a guardarmi attorno. Anche in fretta». Non potei fare a meno di obiettargli che qualche giorno prima mi aveva regalato un olio di Clerici non certo da buttar via. Replicò: «Regali posso ancora farne, ma quello che resta bisogna che lo venda. Ammesso — mormorò con voce triste — che ci riesca, perché il mercato dell'arte è fermo da anni e non c'è più nessuno che compri». Depresso, quasi umile, senza più quella baldanza e quegli impeti non di rado perfino aggressivi che gli avevo conosciuto in gioventù quando lo chiamavamo «la piccola vendetta lombarda»: perché di statura non alta, perché milanese e perché, anche senza essere proprio vendicativo, era abbastanza permaloso. Come sapevano anche quei critici non abbastanza pronti a lodarlo. «Oggi divido i critici — mi disse un giorno — tra quelli che hanno capito "Senza pietà" e quelli che non l'hanno capito. Contento, contentissimo che tu sia tra quei primi». Difatti mi ha sempre avuto tra quelli che, durante tutta la sua splendida carriera, l'hanno apprezzato e sostenuto. Purtroppo, però, non ascoltando attorno pareri sempre unanimi, mentre invece sarebbe stato giusto che vi fossero. Come per «Il Mulino del Po», ad esempio, sicuramente il suo capolavoro. Mi rivedo al Festival di Locarno ad applaudire il film e poi a scriverne con entusiasmo, avendo al mio fianco anche molti critici stranieri pieni di lodi. Ben altra musica, invece, dopo, in Italia. In linea con il romanzo di Bacchelli, il film non metteva il male da una parte e il bene dall'altra. La politica vi era vista soprattutto come Storia, raccontando cose vere, oggettivamente; con la speranza, anche di indicare nel passato qualche occasione per riflettere sul presente senza accontentare né gli uni né gli altri. Di conseguenza ebbe subito contro tutti quelli — e, specie allora, non erano pochi — che nel far critica non pensavano solo al bello e al brutto, ma anche ad elementi del tutto irrilevanti e superflui (almeno per l'estetica). La sua reazione, comunque, non fu per nulla accomodante: «Se questi vogliono un cinema che faccia da portabandiera a gente come loro, con me hanno fatto male i conti. Sono libero e con i loro graffi non mi faranno certo cambiar strada». Non la cambiò mai anche se, toccando da maestro quasi tutti i generi del cinema, si era meritato quell'appellativo di eclettico che, anche per la vitalità della sua persona e la colorita molteplicità di tutti i suoi atteggiamenti, gli andava decisamente a pennello. Fino all'immobilità e al silenzio di questi ultimi anni, tenuti vivi, per me, solo dalle periodiche telefonate a sua moglie. Adesso, così, al momento di dirgli addio, per non immalinconirmi troppo, anziché i suoi fasti e le sue glorie, preferisco ricordare un piccolo tranello che mi tese quando stava per uscire «La spiaggia», di cui qualcuno aveva anticipato addirittura la «licenziosità» e che lui, forse, pensava potesse dispiacermi. Al mio fianco, all'improvviso, in saletta, vidi che veniva a sedersi Renato Angiolillo. Finita la proiezione, non esitò: «Bravo Alberto, i miei complimenti». E guardandomi ammiccò. Anche senza la sua presenza, comunque, sarei stato ancora una volta, come critico, dalla parte di Alberto.

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Regista del senso del bello senza senso di colpa, Alberto Lattuada è morto ieri a novantuno anni, diciannove dopo Una spina nel cuore, l'ultimo suo film. Questo lungo silenzio aveva coinciso con la crisi del nostro cinema e della sua salute, durante le quali gli è rimasta vicina Carla Del Poggio, sposata nell'aprile 1945, diretta ne Il bandito, in Senza pietà, ne Il mulino del Po e in Luci del varietà, il film dei risparmi andati in fumo e delle mogli mandate in scena, visto che l'interpretano la Del Poggio e la Masina, moglie del co-regista, Federico Fellini.
La Del Poggio non è stata la prima delle attrici imposte da Lattuada: Marina Berti era apparsa nel suo film d'esordio come regista, Giacomo l'idealista (dal romanzo di De Marchi), prima di celarsi sotto pseudonimo (Maureen Melrose! ) nel dopoguerra, per aver lavorato per il cinema della Repubblica sociale; e Mariella Lotti era apparsa ne La freccia nel fianco (dal romanzo di Zuccoli). Poi ci sarebbero state May Britt con La lupa (dal racconto di Verga), Jacqueline Sassard con Guendalina; Pascale Petit con Lettere di una novizia (dal romanzo di Piovene); Catherine Spaak con I dolci inganni; Dalila Di Lazzaro con Oh, Serafina! (dal romanzo di Berto); Terry Ann Savoy con Le farò da padre; Nastassja Kinski con Così come sei; Barbara De Rossi e Clio Goldsmith con La cicala (dal romanzo di Prinetto e D'Aunia).

GLORIA SATTA
Ciak

Maestro dell’erotismo adolescenziale, scopritore di attrici giovanissime come Catherine Spaak e Nastassja Kinski, Barbara De Rossi e Clio Goldsmith, Dalila Di Lazzaro e Jacqueline Sassard, Eva Aulin e Therèse Ann Savoy. Studioso di cinema e raffinato libertino ma anche architetto mancato, fondatore con Ferrari e Comencini della Cineteca Italiana di Milano, esponente del neorealismo e nello stesso tempo il più letterario dei registi italiani: da Giacomo l’idealista a Il cappotto, da La steppa fino a La lupa e Cuore di cane molti dei suoi film sono ispirati alla pagina scritta. Fu anche un paladino ante litteram delle battaglie contro le ipocrisie sessuofobiche del nostro Paese e quella censura ottusa che molto spesso, con la scusa dell’oltraggio al pudore, colpì il suo lavoro.
Da molti il regista di Il bandito, Dolci inganni, Il cappotto, Luci del varietà (diretto a quattro mani con Fellini), Mafioso, Le farò da padre è riduttivamente considerato il cantore delle “ninfette”, un termine che venne coniato per indicare le protagoniste acerbe e conturbanti dei suoi film. Erano tempi, i Sessanta, in cui il sesso non aveva perso il suo mistero sbandierato su schermi piccoli e grandi, sui giornali, nelle conversazioni da salotto: bastava l’ambiguità di un sentimento suggerito, l’allusione di uno sguardo o un contesto evocativo per destare il massimo scandalo e fu così che la scena in cui la sedicenne Catherine Spaak si sveglia da un sogno erotico, in Dolci inganni, scate nò i fulmini dei moralisti e il film fu condannato senza pietà.

GIAN PIERO BRUNETTA

Tutto spostato verso la valorizzazione e la sovrapposizione del proprio sul punto di vista dei personaggi è lo sguardo di Lattuada, che alterna trascrizioni di romanzi e racconti a dimensione epicizzante a un'attenzione ravvicinata per il sesso come momento di autentica scoperta, ma senza perdere peraltro di vista i grovigli di sentimenti e intrecci tra pubblico e privato, trasgressività e conformismo, storia, società, cronaca e letteratura.
Lattuada si mantiene assai disponibile professionalmente a sensibili mutamenti tematici e stilistici (basti pensare alla struttura della Tempesta o della Steppa e allo stile di Fraulein Doktor o dell'Imprevisto, o a soggetti che lo coinvolgono direttamente come I dolci inganni e Lettere di una novizia).
La mutevolezza dei registri e la capacità di sviluppare grandi temi sinfonici o inseguire i drammi di un'anima e cogliere sul nascere i primi turbamenti sentimentali e sessuali di una jeune fìlle en fleur ne fanno spesso uno splendido esecutore di temi altrui. Eclettismo in lui non significa dissipazione di talento, né superficialità, ma plasticità e capacità di rimettersi in gioco, disponibilità a mettersi al servizio delle esigenze del testo prima di imporre con forza la propria personalità d'autore. Dal punto di vista stilistico, da sottolineare almeno due elementi caratterizzanti: la valorizzazione della soggettività del punto di vista e la capacità di arricchire la carica emotiva e affettiva di questa visione. Lattuada esalta il corpo negli anni Sessanta (penso alla sua trascrizione della Mandragola di Machiavelli) e crede nel rapporto di coppia come unica modalità di sopravvivenza in una società sempre più legata ad apparenze e valori di superficie.

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