Kenji Mizoguchi è un regista, è nato il 16 maggio 1898 a Tokyo (Giappone) ed è morto il 24 agosto 1956 all'età di 58 anni a Kyoto (Giappone).
Entrato nel cinema attorno al 1920, già noto in Europa (sia pure a pochi) fin dall'epoca del muto, premiato più volte alla Mostra di Venezia in questo dopoguerra, morto qualche mese dopo aver ultimato La strada della vergogna(e mentre lavorava a Una storia di Osakache avrebbe ripreso, in costume, un tema da lui trattato nell'anteguerra in Elegia di Osaka), questo artista coerentissimo ha avuto anche qualche parentesi commerciale ma, in tutta la sua carriera che conta, ha sempre perseguito e approfondito - in quel suo caratteristico stile dove la vita sembra fluire davanti ai nostri occhi come per magia .- lo stesso discorso sulla donna giapponese. Lo stato della società, il permanere del feudalesimo nelle leggi, nelle mentalità e nei costumi, il travaglio di un mondo nuovo che si vien sostituendo (e non sempre positivamente) a quello antico, sono esaminati dal regista con l'imparzialità del vero realismo, più sul tono della constatazione rigorosa che su quello dePa denuncia, e con un'effusione lirica autentica, che non scade mai nel vizio congenito di tanti altri cineasti nipponici: il patetismo. Anche se del passato egli ci restituisce tutto il profumo, non v'è nostalgia cieca verso di esso, come non v'è mai compiacimento, nè sentimentale nè paternalistico e nemmeno polemico, nella raffigurazione di un presente drammatico e spesso cupo. L'arte di Mizoguchi è profonda, obiettiva e universale, e i suoi ritratti di donne umiliate e offese sono tra i più teneri e sconvolgenti che siano apparsi su uno schermo. Tra i principali animatori di un cinema 'di tendenza' influenzato dall'esempio sovietico negli ultimi anni venti (lo dimostrano, a un livello già notevole, film come La marcia su Tokyoe Sinfonia metropolitana, e forse anche il precedente Passione di una maestra, giunto allora in Europa), Mizoguchi inizia il proprio cammino originale nel 1931 con Eppure continuiamo a vivere, dove una madre e una figlia sono costrette entrambe alla prostituzione. Elegia di Osakae Le sorelle del Gionsono, nel 1936, due tappe: nel primo una giovane telefonista è condotta alla rovina da una società in cui domina il danaro, e nel secondo esplode il contrasto tra modernismo spregiudicato e superficiale e tradizione ottusa ma dignitosa in due sorelle che lavorano nel quartieri delle geishe di Kyoto: contrasto che travalica di molto il ristretto e particolare ambiente, per investire un problema di fondo sentito da tutta la società giapponese, allora come oggi. Dopo la parentesi 'culturale' del tempo di guerra, in cui il regista approfondisce in una serie di film sull'epoca Meiji il suo studio del mondo del Kubaki e, ancora una volta, delle sue donne, Mizo~uchi è ormai pronto per la sua classica trilogia 'veneziana' (1952-54): La vita di O-Haru donna galante, sul destino di una creatura che scende, da dama di palazzo a guardiana di cessi e a meretrice di strada, tutta la scala della degradazione fisica e morale; Ugetsu monogatariovvero I racconti della luna pallida d'agosto, una 'fiaba' sui disastri della guerra e sui fantasmi, sulla fedeltà in amore e sulla corruzione; e L'intendente Sansho, dove l'umanità più incontaminata viene fatta risplendere tra le pieghe di un'epoca feroce. A Cannes nei 1955, con il titolo Gli amanti crocifissi, giunse poi un altro film in costume, Una storia da Chikamatsu(Chikamatsu è, per così dire, lo Shakespeare del Giappone), una tragedia, sensuale e, insieme, casta vicenda d'adulterio e di castigo. Invece la coproduzione con Hong Kong Yang Kweifeisu una famosa cortigiana, come ormai americanizzato. L' ultima sequenza, con la fanciulla ancora adolescente che veniva iniziata alle arti della prostituta attuale, così squallide in confronto a quelle dell'antica geisha, mirabilmente sigillava una carriera e una vita.
Tra i maggiori autori del cinema mondiale, attivo dal 1922, ha diretto almeno un centinaio di film. Per oltre trent'anni ha sviluppato un personalissimo discorso sulla società giapponese affrescata con una straordinaria capacità figurativa che ne contraddistingue l'inimitabile stile. La perfetta padronanza dei mezzi tecnici gli consentì di produrre un linguaggio filmico che anticipò quello di grandi maestri occidentali come Antonioni e Jancsó. Grandissimo ammiratore di John Ford tendeva a somigliarli anche caratterialmente nella sua gestione del set. Eclettico nel periodo muto, tra influssi figurativi, teatrali e letterari anche occidentali, e infine ideologici ( Il folle amore d'una maestra di canto, 1926; La marcia su Tokyo e Sinfonia metropolitana, 1928-29), il regista iniziò il suo cammino più personale con Eppure continuano a vivere (1931), dramma di una madre e di una figlia costrette alla prostituzione: E' proprio il mondo femminile a fornire al regista il "terreno" principale di indagine e di espressione della sua poetica visiva. Il suo atteggiamento dei confronti della condizione femminile emerse in due lavori degli anni trenta, veri e propri manifesti del "nuovo realismo", Le sorelle del Gion (1936), ambientato nel quartiere delle geishe, il microcosmo da cui il cineasta seppe osservare l'intera società giapponese, ed Elegia di Osaka (1935). Nonostante fosse costretto dal clima politico e dalla guerra a ripiegare su tematiche più lontane dall'attualità spesso tratte dal repertorio del teatro tradizionale Kabuki, il regista lasciò tuttavia opere fondamentali come Storia di crisantemi tardivi (1939) o La donna di Naniwa (1940). Un nuovo grande periodo di fervore creativo è quello nel dopoguerra in particolare a partire dal 1949 fino alla sua scomparsa. I capolavori che realizzò in questi anni riguardano sia storie del Giappone moderno e sia storie e leggende del Giappone arcaico che raggiunsero la punta più alta nella trilogia presentata e acclamata alla Mostra di Venezia, La vita di O-Haru, donna galante (1952); I racconti della luna pallida d'agosto (1953) e L'intendente Sansho (1954). La vita di O-Haru, donna galante è stata definito dai critici "il film più femminista della storia del cinema". Da non dimenticare gli altri ottimi lavori di questo periodo come Ritratto della Yuki (1950), La musica del Gion (1953), Gli amanti crocifissi (1954). L'avvento del colore costituì un ulteriore spunto narrativo di cui si avvantaggiò Yokihi (1955), film con grandi scene di massa. Quando il regista è morto Kurosawa ha dichiarato: "il cinema giapponese ha perso il suo più autentico creatore".
The new boxed set from the Criterion Collection's budget line, Eclipse, is titled “Kenji Mizoguchi's Fallen Women,” which is probably a more enticing title than “Four Randomly Chosen Films by Kenji Mizoguchi,” but is no more meaningful. From his earliest surviving films, like “Tokyo March” (1929) and “The Water Magician” (1933), this great Japanese filmmaker showed his dedication to those women driven to the margins of society — actresses, geishas, ordinary prostitutes — by the hypocrisy of men.
In falling, of course, these women often demonstrate more strength, compassion and selflessness than their unappreciative, exploitative lovers have ever shown toward them. In film after film Mizoguchi explores this paradox, of the woman who achieves the highest moral standing by descending to the lowest point of the social scale.
Although Mizoguchi (1898- 1956) was not a Christian, this is a theme he often drapes in Christian imagery: a woodcut of a Madonna and child appears under the opening credits of “Oyuki the Virgin,” a 1935 story of a geisha (Isuzu Yamada) who offers herself to an army officer to save the lives of a group of ungrateful bourgeois travelers . (The film is based on the same Maupassant story that John Ford turned into “Stagecoach”).
In “Women of the Night” (1948) a band of prostitutes gathers in a bombed-out church to administer a brutal beating to Fusako (Kinuyo Tanaka), one of their own who has dared to dream of going straight. These women are not saints or martyrs — for Mizoguchi, there is no next world in which they might receive their reward — but, more concretely and more movingly, mere human beings whose strength of character sets them apart, the true aristocrats of a fallen world.
“Women of the Night” is one of the features included in the Eclipse box; the others are his twinned masterpieces of 1936, “Osaka Elegy” and “Sisters of the Gion,” and his final film, the anomalously bright, harsh “Street of Shame” (1956). All of his major creative phases are covered: the romantic, Expressionist-tinged work of the silent and early sound periods; the politically engaged work of the postwar period, influenced by Italian neo-realism; and the final creative surge of the 1950s, in which a distanced, contemplative tone conveys an infinite solicitude for human suffering, balanced by a sense of its insignificance in the cosmic order.
Both “Osaka Elegy” and “Sisters of the Gion” star Isuzu Yamada, Mizoguchi's first muse and an actress who would become one of the most enduring personalities of the Japanese cinema. (Among Ms. Yamada's 100 other roles is the Lady Macbeth figure of Akira Kurosawa's 1957 “Throne of Blood.”) In each of the two films she plays a confident, modern woman — it isn't hard to imagine Bette Davis starring in the Warner Brothers' versions — whose powerful sense of self-reliance is still not sufficient to rescue her from the web of family obligations and the economic power of men.
In “Osaka” the delicate, long-faced Ms. Yamada is a switchboard operator who is forced into an affair with her boss to repay the money embezzled by her worthless father (a character said to be based on Mizoguchi's own father). Delicate and retiring at first, she emerges from the film a hardened, ruthless woman. In the famous final shot she strides directly into a confrontational close-up, as if she were about to denounce the public for its complicity in her plight.
In “Sisters of the Gion,” made later in 1936, after “Osaka Elegy” had proved an unexpected hit, Ms. Yamada seems to be playing a continuation of the same character, only now she is a geisha in a working-class quarter of Kyoto whose determination to take her customers for every last penny shocks even her sister (Yoko Umemura), a geisha who still sees her job as providing necessary comfort and affection.
For Mizoguchi “Osaka” and “Sisters” represented a radical stylistic breakthrough: the relatively conventional editing patterns of his earlier films vanish almost completely, to be replaced by long takes and slow, graceful camera movements. Scenes are often illuminated by a single light source that isolates the characters in a pale, luminous pool surrounded by absolute darkness. The frame seems to lose its edges: all that exists is a cone of light at the center of the screen. The influence of German Expressionism is apparent, but Mizoguchi takes the style one step further. These are not characters threatened by or struggling with an encroaching darkness, but individuals trying to generate some light and warmth in a world that has long gone dead.
In the Osaka films Mizoguchi almost seems reluctant to intrude on the privacy of his characters. His camera remains withdrawn, even abashed; there is no cross-cutting to draw us into the drama, no tearful close-ups to solicit our sympathy. In “Street of Shame,” made 20 years later and set in the Yoshiwara district of Tokyo, Mizoguchi's method has been reversed. Even at night, this is a brightly lighted world, flooded with neon.
The principal setting is Dreamland, a tatty brothel with half a dozen employees living out the last of its days before prostitution is outlawed in Japan. Instead of darkness, the characters seem to be surrounded by mirrors, trapped inside multiple, dehumanizing images of themselves. The ruthlessness of the Yamada character has been transferred to Yasumi (Ayako Wakao), the most beautiful of the prostitutes, as well as the most heartless. (She augments her income by making small loans to her co-workers at high interest rates.) Her softer “sister” is now Hanae (Michiyo Kogure), who works to support her invalid husband and young son.
But Mizoguchi seems most fascinated by another figure, the flamboyant Mickey (Machiko Kyo). As her permed hair, toreador pants and Western name suggest, she represents something new in postwar Japan. Her blunt, brassy sexuality contradicts the geisha's world of cultured illusion. Yet Mizoguchi expresses no nostalgia for the passing of that profession. He seems even to locate an element of hope in Mickey's physicality and candor, which grant no quarter to traditional hypocrisies.
But if Mickey represented something new in Mizoguchi, the director was unable to explore it further: six months after the release of “Street of Shame,” he died at 58, and an immense career was cut short. (Eclipse-Criterion, $59.95, not rated)
Da The New York Times, 28 Ottobre 2008
Esordisce nel 1922, a 24 anni. Muore di leucemia a 58, dopo aver girato 86 film. Di tanta produzione pare sopravvivano soltanto 29 opere. Pochissime se ne conoscono fuori del Giappone e assai poco si può dire di questo intellettuale che in gioventù, dopo aver subito un atroce trauma familiare (la sorella Suzu venduta come geisha), coltiva la pittura, studia l'arte occidentale, si forma una coscienza cinematografica su classici come Lubitsch, Renoir, Ford, Clair, e trova impiego presso la Nikkatsu. Presentato in Europa sulla scia della rivelazione veneziana di Kurosawa (1950), il suo cinema offre al pubblico cinque capolavori di scavo psicologico che costituiscono altrettante perle della narrativa contemporanea. Tutti s'imperniano sul destino della donna nella società. Portano, naturalmente, i segni del costume nazionale ma hanno un valore universale. Tre, in particolare. I più densi e toccanti.
Due sono film storici. La vita di O Haru, donna galante (1952), che si aggiudica il Leone d'argento alla Mostra di Venezia, narra con lenta e implacabile sobrietà (mai un sovratono) la vita miserabile di una prostituta nel secolo XVII. I racconti della luna pallida d'agosto (1953), secondo Leone d'argento, narra di guerre, fughe, persecuzioni, sofferenze infinite, di donne prostituite, di uomini incoscienti, di fantasmi, in un paese sconvolto (siamo nel 1500) dalle lotte intestine. È una fiaba inquietante, che si apre e si chiude armoniosamente sul gesto di un bambino che depone il cibo sulla tomba della madre uccisa: all'interno, la vana ricerca della bellezza e dell'amore da parte di due contadini che abbandonano le famiglie, le mille trappole della esistenza e la finale scoperta che non si può sfuggire al proprio destino.
Di ambiente contemporaneo e di toni più crudi è La strada della vergogna (1956), girato dal regista poco prima di morire. Narra ciò che accade in una casa di tolleranza, i soprusi che le prostitute subiscono, le illusioni che coltivano, le umiliazioni che debbono sopportare, le astuzie che escogitano. Un mondo tetro, senza speranza: il nostro.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995