Ernst Lubitsch. Data di nascita 28 gennaio 1892 a Berlino (Germania) ed è morto il 30 novembre 1947 all'età di 55 anni a Los Angeles, California (USA).
Regista tedesco attivo negli Stati Uniti dopo il 1923. Allievo di Max Reinhardt, iniziò la sua carriera come attore. Esordì nella regia nel 1917 e si rivelò ben presto come un grosso uomo dello spettacolo, capace di allestire film nel gusto delle colossali messinscene di Reinhardt. In questo spirito Lubitsch realizzò, fra l'altro, La principessa delle ostriche, Madame Dubarry e Carmen, tre fra i maggiori film prodotti dalla UFA in quegli anni. Secondo Georges Sadoul, il regista "seppe adattare al cinema il comico tradizionale delle operette tedesche. La sua verve fu volgare, ma travolgente, robusta...". Tuttavia, la strada maestra del cinema tedesco fu, in quegli anni, segnata dalla esperienza espressionista. Lubitsch portò con sé negli Stati Uniti, oltre al gusto per le messinscene sfarzose, le sue tipiche predilezioni per la commedia operettistica, con quel tanto di falso che era proprio del genere, e che, alla resa cinematografica, risultava più spiccatamente, facendo spesso dei film lubitschiani girandole d'una allegria un po' a vuoto, un po' opaca. I successi comunque furono molti, e qualcuno durevole, perfino clamoroso: da Matrimonio in quattro, 1923, a Il ventaglio di Lady Windermere di Oscar Wilde, 1925, da Il principe studente a L'allegro tenente, 1931. L'incontro di Lubitsch con Maurice Chevalier, protagonista di quest'ultimo film, ebbe un altro buon esito con La vedova allegra, 1934. Un altro grande successo di Lubitsch fu Partita a quattro, 1933, da una commedia di Noel Coward: non minore simpatia riscosse Angelo, 1936, con la Dietrich, da un testo di Melchior Lengyel. Tutti i film di questo spiritoso regista diedero comunque l'impressione di durare lo spazio d'un mattino, di essere frizzanti ma fatui come coppe di champagne. Un altro successo fu colto da Ninotchka, che presentò Greta Garbo per la prima volta in una commedia, nei panni di un'austera emissaria bolscevica conquistata da un viveur ingenuo e domestico come Melvyn Douglas (1939). Nel 1941, con Vogliamo vivere, Lubitsch diresse Carole Lombard, e spezzò una lancia in favore dell'antinazismo: naturalmente in chiave comica, ma non senza una certa ironica vitalità. L'ultimo attraente prodotto lubitschiano fu Il cielo può attendere..., 1943: un garbato film, in cui l'autore ripiegava su se stesso riconoscendo amabilmente il tramonto di un modo d'essere frivoli, e negandosi, con simpatico disincanto, il fastidio delle nostalgie.
Il 29 gennaio 1892 fa nasceva a Berlino Ernst Lubitsch, destinato ad entrare nella storia del cinema quale maestro inarrivabile della commedia brillante e della satira sofisticata. Figlio di un sarto, il giovane Ernst è un appassionato di teatro e recita nel gruppo teatrale della scuola.
A sedici anni abbandona la scuola e inizia a lavorare come contabile nel negozio del padre. Successivamente entra a far parte del teatro tedesco di Max Reinhardt, all'interno del quale ottiene ruoli di sempre maggiore importanza. A partire dal 1912 lavora come apprendista negli studi cinemaografici Bioscope di Berlino. L'anno successivo recita in una serie di commedie grazie alle quali ottiene un discreto successo. Gradualmente Lubitsch inizia a scrivere sceneggiature e nel 1918 esordisce come regista con Gli occhi della mummia, una storia tragica interpretata da Pola Negri.
Nello stesso anno esce Carmen, sempre con Pola Negri, che ottiene un discreto riconoscimento anche all'estero. Ma il successo vero e proprio arriva con La principessa delle ostriche (1919), una satira pungente delle abitudini americane.
A partire da La principessa delle ostriche l'humour sottile e l'ironico cinismo diventeranno il tratto distintivo dei film di Lubitsch. Dopo due trammi storici come Madame Dubarry e Anna Bolena, nel 1921 Lubitsch si reca per la prima volta negli Stati Uniti per promuovere il suo film Das Weib des Pharao, e l'anno successivo vi ritorna per girarvi Rosita (1923) con Mary Pickford e Matrimonio in quattro (1924), che ottennero un grande successo di critica e di pubblico. Fondati sulla descrizione corrosiva di ambienti aristocratici o alto-borghesi, i film di Lubitsch sono il risultato di un'intelligenza che si fa beffe di tabù e convenzioni, trasgredisce divieti e sa anche essere crudele. I suoi maggiori successi - Il principe consorte (1929), L'allegro tenente (1931), La vedova allegra (1934), L'ottava moglie di Barbablù (1938) - confermano Lubitsch come maestro indiscusso della cosiddetta 'commedia sofisticata hollywoodiana', densa di allusioni, metafore e toni satirici, una delle espressioni più felici di una sensibilità europea nel sistema cinematografico americano.
Nel 1939 Lubitsch firma un altro capolavoro: Ninotchka, storia di una commissaria comunista russa (magistralmente interpretata da Greta Garbo) inviata in missione a Parigi per controllare l'operato di tre agenti sovietici. Dopo Vogliamo vivere! (1942) e Il cielo può attendere (1943), nel 1944 Lubitsch si trova costretto ad affidare la regia di Scandalo a corte a Otto Preminger per problemi di salute. Lubitsch muore nel 1947 per un infarto e il suo ultimo film, La signora in ermellino (1948), viene terminato ancora da Otto Preminger.
CURIOSITA'
Lubitsch nacque a Berlino da una famiglia ebraica. La sua esistenza si condusse squallidamente in una delle tante bottegucce del ghetto, dove le meraviglie dell'epoca guglielmina arrivavano sotto forma di leggenda. A sedici anni cominciò a bazzicare il music-hall, a diciassette entrò nel mondo del cinema come generico, a diciannove passò nell'entourage di Max Reinhardt, il quale lo forma come attore. Parallelamente mette al servizio del cinema il personaggio comico che aveva inventato per il varietà: un ebreo ottuso e sordido, una macchietta caricaturale pregna di antisemitismo. Con queste comiche, iniziate nel 1913 e proseguite fino al 1919, Lubitsch diventa un attore celebre e abbandona così il varietà.
Lubitsch scelse una comicità borghese, distaccata e qualunquista, elegante e superficiale. Il cliché dell'intrigo, dell'equivoco, dell'inseguimento, calati in ambienti da cartolina, come la Parigi della belle époque e la Vienna dell'operetta, sottendono al meglio l'atmosfera delle commedie di Lubitsch.
Lubitsch si trasferisce nell'autunno del 1922 a Hollywood, assunto dall'America come rievocatore ufficiale del mondo mitteleuropeo elegante e raffinato; mentre von Stroheim, realmente vissuto a Vienna, non può separare la leggenda dalla turpe verità di una società in via di putrefazione, Lubitsch, che nel suo ghetto è stato anch'egli soggetto al mito, può facilmente raccontare Vienna e Parigi agli americani come essi vogliono che siano. Attenuando l'impeto tedesco che ha sino ad allora animato le sue allucinazioni comiche, Lubitsch può distillare una commedia sofisticata, senza sesso e senza brutalità, senza offendere i puritani, più consona inoltre alla nuova sensibilità del cinema. La stilizzazione comica (imposta da Chaplin) prevede recitazioni germaniche (fino all'auto-parodia), ambientazioni in immaginari reami di cartapesta, tipizzazione da music-hall (il marito, la vamp, il viveur...). Frivole e briose, le prime commedie americane di Lubitsch sono mosaici di dettagli allusivi, dove ogni nuovo dettaglio svela un altro po' della vicenda, di per sé piuttosto scarna..
I film di Lubitsch, costruiti sui molteplici registri del vaudeville, della commedia e dell'operetta, si basano su un canovaccio amoroso geometricamente compiuto, con una struttura binaria e con ruoli standard affidati ai due sessi. Il primo ordine di ambiguità nasce proprio dall'esito della lotta fra il maschio e la femmina, laddove non si capisce più se la sconfitta non sia una vittoria e la vittoria una sconfitta. Il secondo ordine di ambiguità riposa nel labile confine che separa il bene dal male, per cui Lubitsch riesce a far amare i vizi dei suoi personaggi (donnaioli o ladri) visto che il vizio è uno dei due cardini della società moderna (sesso e denaro). La misura del suo genio comico è data dalle gag e dalle battute, sovente metaforiche, sempre nitide, essenziali ed eleganti, che costituiscono il tratto più personale dei suoi film e dai sottintesi, che formano la gran parte delle sue sceneggiature.
C’è soprattutto un’immagine, particolarmente luminosa, dei film di prima della guerra che mi piace molto. I personaggi sono piccole sagome scure sullo schermo. Entrano in scena da porte alte tre volte loro. Non c’era crisi degli alloggi allora e per le vie di Parigi, alle facciate degli immobili, grazie alle strisce con la scritta “Affittasi”, era sempre il 14 luglio.
Le imponenti scenografie dei film di quel periodo facevano concorrenza alle vedette, i produttori le pagavano care e volevano che si vedessero; era il minimo che chi sborsava il denaro potesse pretendere e sono sicuro che avrebbe messo alla porta quel regista che avesse avuto il fegato di girare un film tutto di primi piani.
Erano tempi in cui non si sapeva ancora collocare la cinepresa alla giusta distanza: la si metteva troppo lontana. È vero anche che oggi la si sbatte fin sotto i buchi del naso degli attori… Si è passati da un’insufficienza modesta a un’insufficienza pretenziosa.
Questa premessa nostalgica non è fuori luogo per introdurre Lubitsch che era fermamente convinto che è meglio ridere in un palazzo che piangere in un retrobottega all’angolo della via. Mi rendo ben conto, come diceva André Bazin, che non potrò cavarmela in fretta.
Come tutti i maestri della stilizzazione, Lubitsch, coscientemente o no, riscopre la narrazione dei grandi autori di racconti per ragazzi. In Angel (Angelo, 1937), una cena penosa e imbarazzante unisce Marlène Dietrich, Herbert Marshall, suo marito, e Melwyn Douglas, suo amante per una sera, che lei pensava di non rivedere mai più e che suo marito ha casualmente invitato a cena. Come accade spesso in Lubitsch, la cinepresa abbandona il lato giardino non appena la situazione si fa scottante e ci intrattiene sul lato cortile dove potremo ancor meglio goderci le conseguenze. Siamo in cucina. Il maitre va e viene. Riporta indietro prima il piatto di Madame: “Strano, Madame, non ha nemmeno toccato la sua cotoletta”. Poi il piatto dell’invitato: “Toh, nemmeno lui!” (infatti questa seconda cotoletta è tagliata in cento pezzettini ma ancora tutta li). Arriva il terzo piatto, vuoto: “E tuttavia il Signore sembra aver apprezzato la cotoletta”. Si è riconosciuto “Ricciolo d’oro” nella casa dei tre orsi: la pappa di Papà Orso era troppo calda, quella di Mamma Orsa troppo fredda, quella del Piccolo Orso andava bene. Conoscete una letteratura più utile di questa?
Eccoci, è il primo punto in comune tra il Lubitsch touch e l’Hitchcock touch; il secondo è probabilmente il loro modo di affrontare il problema della sceneggiatura. Apparentemente si tratta di raccontare una storia per immagini ed è su questo punto che ambedue insisteranno nelle loro interviste. Non è vero. Mentono non per il piacere di mentire e per prendersi gioco di noi, no, mentono per semplificare perché la realtà è troppo complicata e perché è meglio dedicare il proprio tempo a lavorare e a perfezionarsi, perché abbiamo a che fare con dei perfezionisti.
La verità, in questo tipo di lavoro, è che si tratta di non raccontare la storia e anche di cercare i mezzo di non raccontarla del tutto. C’è naturalmente il punto di partenza del soggetto riassumibile in due righe, generalmente la seduzione di un uomo da parte di una donna che non ne vuol sapere o viceversa o ancora l’invito al peccato per una sera, al piacere; gli stessi temi di Sacha Guitry, l’essenziale essendo di non trattare mai il soggetto direttamente. Allora, se restiamo dietro le porte delle camere quando tutto avviene all’interno, se restiamo nella stanza di servizio quando tutto avviene nel salotto, e nel salotto quando tutto capita sulle scale e nella cabina del telefono quando tutto si risolve in cantina, questo capita perché Lubitsch, modestamente, si è rotto la testa a scrivere per sei settimane, per permettere, alla fine, agli spettatori di costruire essi stessi la sceneggiatura, assieme a lui, mentre il film scorre sullo schermo.
Ci sono due tipi di cineasti, e questo vale anche per i pittori e gli scrittori: ci sono quelli che lavorerebbero chiedendosi: per chi lo faccio? Lubitsch senza pubblico non è dunque immaginabile, ma attenzione: il pubblico non è l’in più della creazione, è l’insieme, fa cioè parte del film. Nella parte sonora di un film di Lubitsch ci sono i dialoghi, i rumori, la musica e ci sono le nostre risate, sono essenziali, senza di queste non ci sarebbe il film. Le incredibili ellissi del racconto funzionano solo perché ci sono le nostre risa che fanno da ponte tra una scena e l’altra. Lubitsch è un gruviera dove ogni buco è geniale.
Usata spesso a vanvera, l’espressione “messa in scena” significa finalmente qualcosa e diventa qui un gioco che non si può fare che in tre e soltanto durante la proiezione. Chi sono i tre? Lubitsch, il film e il pubblico.
Quindi, proprio niente a che vedere con film del tipo Il dottor Zivago (Doctor Zhivago, 1966). Se qualcuno dice: “Ho appena visto un film di Lubitsch dove c era un inquadratura inutile”, Costui mente. Il suo cinema è il contrario del vago, dell’impreciso, dell’inespresso, dell’incomunicabilità, non ammette mai nessuna inquadratura decorativa, messa là per fare bella mostra: no, dall’inizio alla fine si è immersi nell’essenziale, fino al collo.
Sulla carta una sceneggiatura di Lubitsch non esiste, nemmeno dopo la proiezione ha più alcun senso, tutto accade mentre si guarda il film. Un’ora dopo averlo visto, o forse rivisto per la sesta volta, vi sfido a raccontarmi la successione delle scene di To be or not to be (Vogliamo vivere, 1942): è matematicamente impossibile.
Noi, il pubblico, eravamo là, nell’ombra, la situazione sullo schermo era chiara, era tesa fino al limite della rottura tanto che, per rassicurarci anticipiamo la scena seguente ricorrendo evidentemente ai nostri ricordi di spettatori, ma Lubitsch stesso aveva già passato in rassegna tutte le soluzioni preesistenti per utilizzare quella mai adottata prima, l’impensabile, l’enorme, appunto, come tutti i geni dominati dallo spirito di contraddizione, squisita e sconcertante. Scoppi, sì, scoppi di risa, perché, scoprendo la “soluzione Lubitsch”, il riso, letteralmente, scoppia.
Si potrebbe, per descrivere questo metodo di lavoro, parlare di “rispetto di Lubitsch per i pubblico” ma poiché questa nozione è usata troppo spesso per giustificare i peggiori documentari o i racconti puramente incomprensibili, lasciamola da parte e affidiamoci a un esempio significativo.
In Trouble in paradise (Mancia competente, 1932) Edward Everett Horton durante un cocktail guarda con sospetto Herbert Marshall. Dice tra sé di aver già visto quella faccia da qualche parte. Noi sappiamo, però, che Herbert Marshall è il borsaiolo che, all’inizio del film ha, in una stanza d’albergo a Venezia, ridotto a mal partito, per derubarlo, il povero Horton. È quindi necessario che a un certo punto Horton si ricordi e in questo caso nove registi su dieci, banda di sfaticati, cosa facciamo quasi sempre? Si mostra il tipo che dorme nel suo letto, nel cuore della notte si sveglia, si batte una mano sulla fronte: “Ci sono! Venezia! Ah, il farabutto!”. Chi è il farabutto? Quello che si accontenta di una soluzione così arbitraria. Non è certo il caso di Lubitsch che si rende la vita dura, ci dà tutto quello che può e muore con venti anni di anticipo. Ecco cosa fa Lubitsch: ci mostra Horton che fuma una sigaretta e che si chiede evidentemente dove ha mai potuto incontrare prima Herbert Marshall, che aspira ancora il fumo della sua sigaretta e che infine schiaccia la cicca in un portacenere d’argento a forma di gondola... Gondola... Venezia! Per dio, Horton ha capito, bravo, e ora è il pubblico in gondola e Lubitsch è forse là, in piedi nell’ombra in fondo alla sala che tiene d’occhio la sua platea paventando il minimo ritardo nel riso come Frederich March in Design for living (Partita a quattro, 1933), oppure gettando uno sguardo verso il suggeritore che vede Amleto avanzare verso la scala e si appresta, a caso, a suggerirgli: “To be or not to be!”.
Ho parlato di ciò che si può imparare, ho parlato di talento, ho parlato di ciò che, volendo, si può comperare, ma ciò che non si può né imparare né comperare è il fascino e la malizia, ah, il fascino malizioso di Lubitsch, ecco ciò che faceva di lui un vero principe.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975
Personaggio inimitabile più di chiunque altro. Attraversa il cinema dal 1918 (Gli occhi della mummia, con Pola Negri) al 1947 (La signora in ermellino, completato e montato dopo la sua morte da Otto Preminger), oscillando fra due generi: l'affresco storico e la commedia. Durante il muto non mostra preferenze spiccate, ora coltiva l'uno (Madame Dubarry, 1919; Anna Bolena, 1920), ora l'altro (La principessa delle ostriche, 1919; Matrimonio in quattro, 1924; Baciami ancora, 1925). Poi, a poco a poco - lui che, figlio di un sarto, era stato attore comico alla scuola di Max Reinhardt - piega verso le soavi sciocchezze delle operette, perché gli sembrano le più adatte per satireggiare le inclinazioni della borghesia senza affondare nella carne la lama della riprovazione ideologica. Ci ricorre esplicitamente ( Il principe studente, 1927, Il principe consorte, 1929, L'allegro tenente, 1931, La vedova allegra, 1934, tutte tranne la prima affidate al brio irresistibile di Maurice Chevalier) o se ne serve per disegnare personaggi e creare lievi atmosfere di scherzo: (Mancia competente, 1932, Partita a quattro, 1933, persino L'ottava moglie di Barbablù, 1938, senza delitti, con i gentili Gary Cooper e Claudette Colbert).
La commedia sofisticata deve tutto a lui prima che a Capra e ad Hawks. Sa essere crudele senza ferire, canzonando i bravi borghesi americani afflitti dal denaro e dal sesso (una cosa sola, maledetta o benedetta allo stesso tempo, secondo morale puritana). Sa anche essere indulgente, con il sorriso (Angelo, 1937, una Marlene Dietrich dolce e allusiva) o con la indiretta polemica politica (pilota spiritosamente una Greta Garbo in veste di commissario sovietico per l'avventura parigina di Ninotchka,1939). Ma tocca le corde più profonde (non c'è nulla di futile nella sua comicità) quando esorcizza con un'amara alzata di spalle la paura della morte. Nascono due capolavori: Vogliamo vivere! (1942) e Il cielo può attendere (1943). «Nella gruviera Lubitsch - ha detto Truffaut - ogni buco è geniale.»
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
A cent'anni dalla sua nascita a Berlino (28 gennaio 1892, esattamente come Genina) ci si può legittimamente domandare: chi era Emst Lubitsch, e perché si è parlato alternativamente tanto male e tanto bene di lui? Come mai ebbe tanto successo ai tempi suoi e fu popolare quanto Chaplin, e poi dopo la morte (a Hollywood il 30 novembre 1947, al sesto infarto) è stato dimenticato, quasi che la gente si vergognasse di essersi troppo divertita ai suoi film?
Se ne è parlato male da chi riteneva il suo cinema effimero, epidermico, lontano dalla realtà. Un mondo ridotto al rango di operetta. Un professionismo eccellente, ma senza spessore di pensiero né di sentimento. Un autore pronto a scherzare su tutto, a non rispettare, anzi a non riconoscere alcun valore. Lubitsch bazzicava troppo coi ricchi, poneva i suoi personaggi in ambienti fastosi, fingeva di cantare d'amore (La vedova allegra del 1934, che ha inaugurato su Rai Tre l'ultima personale ogni domenica a mezzanotte) e cantava invece di danaro. Insomma un formalista e un cinico, attratto esclusivamente dalle battute spassose, ma sostanzialmente vuoto, senza ideali e senza coscienza, e per il quale i fenomeni sociali e i drammi della storia erano al massimo oggetti di commedia.
Ma se ne è parlato bene, e se ne parlerà sempre meglio, da chi entra nel suo universo immaginario comprendendo che è volutamente artificioso soltanto per risultare artisticamente più vero. Si scopre allora un cineasta grande e complesso, assolutamente autonomo e anticipatore, uno che prima di Hitchcock (Il ventaglio di Lady Windermere,1925) spiegava la situazione al pubblico e poi lo coinvolgeva nell'attesa e nel mistero, senza barare al gioco e mettendo in campo le ambiguità e le contraddizioni della natura umana, indagata ben oltre la superficie. E nella struttura del film, nella cura intensa portata alla sceneggiatura (e non solo alla scenografia!), nella volontà di cavarne l'essenziale e di affidare il resto alla fantasia dello spettatore, c'è già il fascino discreto di Buñuel, la sua aerea leggerezza.
Non c'era niente di superfluo nelle sue fiabe, eppure tutto era una continua fonte di meraviglie: nel reame della commedia, è stato il più prodigo dei sovrani. Mancia competente (1932), Partita a quattro (1933) sono gioielli di sofisticazione e di sobrietà. Uscita dalla cura Sternberg, Marlene in Desiderio
(1936) da lui prodotto, in Angelo (1937) da lui diretto, è pura musica (Giacomo Debenedetti), un'astrazione piena di grazia, che non ha certo bisogno di mostrare le gambe. Ma tutte le sue donne sono tanto più erotiche, quanto più riservate. Lubitsch è un asso nel suggerire, nel sottintendere; ma ciò che nasconde e preciso e lampante, come il suo montaggio scandito come un metronomo. Cantore di vanità? Sia pure: ma non per eccesso di cinismo, semmai per un fondo inestinguibile di malinconia. La sua Vedova allegra è tutt'altro che allegra, anche se non lugubre come quella di Stroheim, E se il suo bianco e nero è già una provocazione coloristica, Il cielo può attendere, che nel 1943 avrà colori di pastello e sarà il più autobiografico e riassuntivo dei suoi film, dirà quanto potesse la tenerezza, e perfino l'angoscia, in questo autore che pur si batteva per il divertimento über alles.
Certo fu lui che fece ridere Greta Garbo, la quale in verità aveva già riso qualche volta sullo schermo prima che in Ninotchka (1939), ma non così di cuore. Anzi Lubitsch (secondo Truffaut) costruiva i suoi meccanismi a orologeria in modo tale da inglobarvi, per così dire, anche le risate degli spettatori, quasi facessero parte del copione. Guardatelo bene questo signore di Hollywood sempre fotografato con un grosso sigaro in bocca: è tutto meno che un normale capitalista. Veniva da Berlino e passava per viennese, e il suo allievo Billy Wilder, che viennese lo è davvero, in confronto fa la figura di teutonico. Scherzava, è vero, su qualsiasi cosa; ma figuratevi che nei suoi capolavori tedeschi aveva scherzato perfino sull'espressionismo, dandone finalmente l'aspetto ludico che non era il minore del movimento, anche se trascurato dal cinema serio.
Il 1919 è l'anno del Gabinetto del dottor Caligari ma anche di un film di Lubitsch, La bambola di carne, annunciato nel ciclo televisivo e che insegnerà parecchio del suo cinema successivo. Pochi registi come lui, dotato di un fiuto infallibile per lo spettacolo, hanno rispettato il pubblico. Ma rispettando anche se stesso, a qualche fiasco andò incontro pure lui. Come nel 1921 con La gatta selvatica, scatenato balletto erotico e antimilitarista che i tedeschi usciti dalla disfatta non gradirono per niente. La guerra inscenata era grottesca, l'operetta distruttrice, e come in una sarabanda dei fratelli Marx (ma con quanto anticipo) c'era uno scambio vertiginoso di parti: il forte diventava debole e il debole forte. Chissà che l'autore - suggeriva nel suo penetrante saggio del 1977 Guido Fink, chiamato a commentare con Vieri Razzini la rassegna - chissà che Lubitsch non pensasse al paradosso di Nietzsche che sarcasticamente suonava: «Bisogna sempre proteggere i forti contro i deboli».
All'epoca, il figlio del sarto ebreo originario della Russia era già un maestro del cinema. Maestro della commedia sofisticata con La principessa delle Ostriche, che nel 1919 se la prendeva col modo di vita americano, mentre poi a Hollywood il regista fece finta di nulla, come se l'America non esistesse che come set per un'Europa di cartone. Maestro del kolossal storico, ma la sua Madame Dubarry (anche del 1919) era colossale nel senso che Lubitsch vi applicava brillantemente la tecnica dei movimenti di massa appresa in teatro da Max Reinhardt di cui era stato uno dei mille discepoli, mentre quanto alla storia... Sì, c'era dell'esprit francese nella futura favorita Pola Negri che, al primo appuntamento con il re Emil Jannings, inauditamente gli saltava sulle ginocchia. Eppure proprio così, guardando la storia dal buco della serratura, il film fece la fortuna oltreoceanica dell'attrice e del regista, beninteso a patto di insistere - in quel primo dopoguerra in cui i tedeschi non erano molto popolari in America, come del resto nel secondo - sulla nazionalità polacca di lei e di gabellare Lubitsch (con quel nome!) come autentico parigino.
Il 1923 è l'anno del primo film americano (Rosita) quando la diva Mary Pickford che l'aveva voluto gli gridò dietro esasperata: «Sei il regista delle porte!», senza sapere di toccare un punto nevralgico e di rivolgergli un gran complimento. Lubitsch ha sempre sostenuto che «ci sono tanti modi di piazzare la macchina da presa, e in realtà ce n'è uno solo». E in quel solo modo otteneva più effetto non mostrando le cose che mostrandole. Ovvero: ciò che avviene dietro le onnipresenti porte non era meno importante, ai fini dell'azione e dell'emozione, di ciò che si vedeva e si ascoltava davanti. Film interi sono costruiti su porte che si aprono e si chiudono, su personaggi-manichini, mossi da uno straordinario burattinaio, che entrano ed escono come in un balletto in punta di piedi, sempre sul filo dell'equilibrio come in un esercizio che fa tenere il respiro, anche se costellato da scoppi d'ilarità devastanti. Sotto tale profilo non c'è differenza tra Matrimonio in quattro e Partita a quattro, tra La zanna e Ninotchka, tra Il principe studente e La vedova allegra, ossia tra muto e sonoro. Salvo che col dialogo, le musiche e i rumori (la famosa pernacchia di Charles Laughton al capoufficio nello sketch di Se avessi un milione, 1932) le risate sono ancor più fragorose.
Tutto questo - e moltissimo altro - costituiva l'inimitabile Lubitsch touch, il tocco alla Lubitsch. Essere divertenti era in fondo il più piacevole dei diktat e faceva sì che non ci fosse modo di annoiarsi a un suo film (idem con Hitchcock o con Buñuel). Né era pregiudicata la trattazione di temi apertamente dolorosi, come l'occupazione nazista della Polonia. Dopo Il grande dittatore di Chaplin, il contributo di Lubitsch in Vogliamo vivere! (1942) risultò non meno generoso. Il titolo originale Essere o non essere fu ripreso ai nostri giorni dal remake con Mel Brooks. Nel vecchio film, in cui la magnifica Carole Lombard dava l'addio al cinema e alla vita (morirà poco dopo in un giro aereo di propaganda), la scalcagnata compagnia teatrale polacca non recitava soltanto il monologo di Amleto, bensì anche quello di Shylock, affidato a Felix Bressart, il più irresistibile dei tre compagnoni di Ninotchka: «Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Forse se ci pungete non sanguiniamo? E se ci solleticate non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? Se ci fate torto non cercheremo di vendicarci?».
Correva voce che, all'inizio della sua carriera come attore negli anni Dieci, Lubitsch raffigurasse in modo volgare e pesante l'ebreuccio Mayer (o Moritz Abramowsky, o Solomon Pinkus). Molte di quelle farse sono andate perdute e non sono state ancora ritrovate, ma alla retrospettiva "Prima di Caligari" di Pordenone '90 il Dr. Satansohn del 1916 e soprattutto Meyer aus Berlin smentivano la brutta fama. Vero è che il secondo era scritto e diretto oltre che interpretato da Lubitsch, e che il 1919 era già, come si è visto, un anno buonissimo per lui. In tenuta da alpinista bavarese, sicuramente Meyer non si prende troppo sul serio, e una pioggia di didascalie, l'una più spiritosa dell'altra, è già un preludio alle fulminanti battute sonore. Ma la parodia, come in un transfert, si sposta da lui alla fauna che lo circonda, e sembra una presa di distanza ante-litteram dalla cascata di imminenti e mistici film di montagna del dottor Fanck, di Leni Riefanstahl e di Luis Trenker, tutti rigorosamente superariani. La realtà è che fin da allora il nostro eccelso cineasta si muoveva felicemente e spavaldamente sul duplice binario critico e autocritico che sarebbe diventato la sua sigla e avrebbe fatto la sua gloria; e che oggi si riscopre, ovviamente adattato ai tempi nuovi, nell'ultimo dei suoi seguaci: Woody Allen.
Per ricordare degnamente i cento anni di Lubitsch, Rai Tre ha fatto ancora una volta le cose sul serio. A mezzanotte di ogni domenica la rubrica Movie, ovvero «i film come non li avete mai sentiti», si è occupata lui. Per la gioia dei cinéfili nottambuli, o con l'intervento sperabilmente massiccio dei loro videoregistratori, è sfilata una splendida serie di film sonori (parlati, e talora anche cantati) risalenti alla prima metà degli anni Trenta, che fu il periodo in cui la popolarità del regista raggiunse l'apice. Tutti erano apparsi all'epoca sugli schermi italiani, tutti a eccezione di uno: L'uomo che ho ucciso, presentato bensì alla prima Mostra di Venezia del 1932, ma poi vietato dal fascismo per il suo appello pacifista. Erano apparsi però nelle versioni doppiate. Adesso si sono finalmente ascoltati nella recitazione autentica degli attori (la comprensione dei dialoghi facilitata da puntuali sottotitoli) e nel tessuto sonoro originale. Condizione indispensabile per gustare un autore così attento al ritmo musicale della narrazione e al delicato equilibrio tra parola, musica e suoni. I film non erano sempre in ordine strettamente cronologico, come noi invece li disporremo. Ogni proiezione era seguita da un commento a due voci: Vieri Razzini, curatore del ciclo, e Guido Fink, specialista di Lubitsch cui nel 1977, per la collana del Castoro Cinema, aveva dedicato un'eccellente monografia.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006