Veljko Bulajic è il regista croato (montenegrino di nascita, ma croato d'adozione) che per molto tempo è stato il più premiato in patria e il più noto all'estero. Aveva imparato il cinema in Italia con De Sica e in Jugoslavia con De Sayitis, di cui era stato assistente per La strada lunga un anno. Alla fine del 1989 aveva in testa un film sul futuro della Jugoslavia. «Riuscirà il paese a sopravvivere o scomparirà dall'Europa?». Questo il dilemma. Ma il progetto non è passato. Non vedrà la luce né in Croazia né altrove.
Al festival di Pola Bulajic era il regista più giovane nel 1959, quando vi presentò il suo primo film Treno senza orario, e il più anziano nel 1986, quando gli diede un seguito in Terra promessa. Che cos'era accaduto in effetti ai contadini poveri della Dalmazia, in gran parte di origine serba, ammassati in vagoni merci e sospinti verso i fertili terreni della Slavonia? Ciò che nella visione giovanile era un'avventura dolorosa (si soffre sempre il distacco dalla casa) ma anche esaltante (per le prospettive che il socialismo sembrava offrire), diventava nella ricostruzione a posteriori (ventisette anni dopo) un dramma sociale e un fallimento politico. La Jugoslavia aveva rotto sì con Stalin, ma poi si era adeguata al metodo di collettivizzazione sovietico, già rovinoso e tragico per l'Urss.
Certo non spetta al cinema di essere in sintonia con la politica. I tempi e i modi delle due pratiche non sono gli stessi. Avrebbe potuto Bulajic girare il secondo film al tempo del primo? Sarebbe stato formidabile, ma non era possibile. Treno senza orario era il film più coraggioso che si potesse concepire in quel momento. Gliene diede atto Dusan Makavejev, allora nella veste di critico cinematografico. Più tardi, dopo La battaglia della Neretva del croato e l'esilio del serbo, in Europa li avrebbero contrapposti come se il primo fosse soltanto il regista di regime e il secondo soltanto il genio iconoclasta e ribelle. Ma allora (1959) Treno senza orario strappò a Makavejev le espressioni più appassionate. «Noi non penetreremo nel cuore del mondo se non porteremo con noi la sofferenza jugoslava, il riso jugoslavo e la morte jugoslava. La paura jugoslava, l'amore jugoslavo... tutto di noi stessi».
Nel panorama croato Bulajic costituisce un'eccezione proprio perché, girando film in quasi tutte le repubbliche, più d'ogni altro ha voluto essere un cineasta "jugoslavo". Memorabile, da questo punto di vista, il suo lungo documentario sul terremoto in Macedonia, Skopje '63, Leone d'oro a Venezia: opera davvero unica, che nell'Italia terremotata, per esempio, a nessuno verrebbe mai in mente di concepire e tanto meno di finanziare. Senonché l'essere cineasta jugoslavo ha anche comportato, forse inevitabilmente, un cammino a zig-zag, avanti e indietro, con esiti diseguali.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006