Beffardo, anarchico, solitario, preso dal gioco dell'esistenza, tra Ragione e stagione, tra la normalità del filosofo e la follia dell'assurdo. Lo ricordo, un giorno, in piedi su un tavolino di una trattoria a Lisbona, a gridare, contro la rivoluzione tradita, tutto il suo disprezzo e contro il conformismo politico che aveva invaso la classe dirigente, dopo la stagione dei garofani rossi. Il cogito cartesiano era la sua forza nell'impeto della creatività e la ragione espressiva dei suoi film da Ricordi della casa gialla sino a Comédia de Deos, a Bolas de Deos e a Vai e Vem, quest'ultimo film testamento sulla libertà umiliata e sulla morte. Il fittizio non è nei suoi film, nelle cose e negli uomini che racconta, ma nell'impossibile verosimiglianza, nella sua ricerca di un impossibile, espresso con la tranquillità del vero, in un'ansia continua di prendere e dare, di costruire una iperbole, riflessiva, tranquilla. La pazienza riflessiva e la fiction che si annulla nel vuoto in cui risolve le forme e si intreccia per formare un discorso, sono al centro del suo spazio espressivo.
La follia più che un atto passionale è in lui un atto ragionato, una maschera consapevole per esprimere la sua resistenza. In Ricordi della casa gialla il giallo è il colore della malattia che corrompe e degrada, come la vita quotidiana nella città povera vista dal Tago, colta nelle sue piccole strade che si aprono, come un teatro, con le case che fanno da quinte e la follia che si insinua inquietante.
Il suo cinema è fatto di odori, di voci che si sovrappongono, di gesti e dei rumori dei vecchi tram, in un impasto di scrittura perverso che ricorda, talvolta, la prosa di Cèline, con in più innesti surreali di frequenti nonsensi. I;attrazione per le cose del mondo, per la quotidianità che in lui ha una particolare forza impensata, si sposa con il desiderio sadiano, con la materialità artaudiana, con la trasgressione di un Bataille. E costruisce un racconto, una festa, dove allegria e consapevolezza si coniugano in una affabulazione che pre-sente la morte.
A Comédia de Deos e il successivo Bolas de Deos sono il gioco di un libertino del Settecento che immagina astuzie perverse inseguendo, in un microcosmo, i ritmi 'scandalosi' di avventure del pensiero esasperate sino al paradosso. Come in un'ottica rovesciata le pulsioni melanconiche nascondono una calma inquietudine, la morbidezza dei gesti, una pacata simulazione che sottolinea questa sua follia espressiva. "La mente mi sconvolse e il sentimento" recita il protagonista della Comédia in un esercizio di sensibilizzazione delle ragazze, nella convinzione 'spudorata, che il gusto può essere educato attraverso l'esperienza e la pratica. La metafora del gelato, nel film, è la indicazione di questa educazione 'sentimentale' del tatto e dell'olfatto, vissuti come una Trinità, in cui si assommano armonia, sacralità e ragione. Metafora enigmatica, chiusa in paragrafi eleganti illuminati di irriverenza, la Comèdia ripete il gusto futurista de Ricordi della casa gialla nella astrazione di una scrittura geometrica, quasi automatica. Nelle disquisizioni sulla sessualità, il protagonista, con le sue giovani allieve sparge i suoi legami immorali in una filosofia ironica del Piacere, preludio alla Philosophie dans le Boudoir che Monteiro avrebbe un giorno voluto girare. La trasgressione forza il piacere dello sguardo, in una invisibilità che attiene alla discrezione, al piacere lento, sommesso con cui guarda e sa guardare, con la gioia folle di infrangere l'interdetto.
In Monteiro il culto barocco, quasi mistico, si ripete, in particolare, nell'altra 'cantata' metafisica As bodas de Deus che intreccia il mitologico, in un pandemonio visuale e surreale all'interno del 'demonismo' di un personaggio vitalistico, che lo stesso regista interpreta furiosamente. L'inganno si esprime in tutta la sua laica e gioiosa carnalità, giocando sul corpo nudo tutta l'avventura di un uomo alla ricerca di una felicità edonistica, che esalta i sensi tra incanto e disincanto, in una dissertazione dove prevale una sorta di vocalismo linguistico. Il rifiuto del mondo reale è per Monteiro l'urlo politico, la rabbia per una ferita ideologica che non vuole rimarginare, il gesto futurista per il Grande Tradimento.
L'occhio dello sconvolgente finale di Vai e Vem è il segno della immobilità e della fissità, la dilatazione del tempo che taglia lo sguardo come il rasoio di Bunuel ne L'Age d'or: Arabo, bizantino, italiano, portoghese Monteiro parla la lingua dell'esuberanza, canta la ballata del crimine a una donna poliziotta, rivisita i luoghi metafisici del suo cinema inseguendo l'osceno, balla la zarzuela con la felicità amorosa di un impenitente, e guarda attraverso le vesti trasparenti la silhouette della giovane domestica. Traduce ogni segno con una 'intensità' che stravolge la visione, in un gioco dialettico coscientemente ambiguo, intromette come elemento improvviso Bella ciao! nelle due versioni, partigiana e della risaia, per interrompere l'alienato silenzio della città, forza il linguaggio verso un simbolismo geniale, a volte impalpabile. Le referenze letterarie si impongono, sono il sostrato di un pensiero che si estende negli interstizi delle immagini, nel desiderio di trasformazione: Swift, Mallarmè, Pessoa, ma anche Bresson, Dreyer, Ford - parola e immagini - riempiono il suo amore di cinema, incrociano percorsi emblematici narrando la tragica bellezza del vivere.
L'autobus, nel suo ultimo film, come un refrain continuo, un endecasillabo ritornante, è voce e coro, vita sognata e poesia immaginaria della città, felicità di comunicare. Nella grande villa, sotto l'albero centenario, Monteiro siede sulla panchina, ascolta il silenzio, le voci lontane di un pomeriggio di gole e osserva una fanciulla che, in bicicletta entra nel quadro con la cadenza del tempo, nel Grande Ritorno nietzschiano. Va e Vien compendia tutta una vita in una continua allegria senza peso, sorridendo in un furioso razionalismo, di luminosa intensità.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006