Francesco Rosi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 15 novembre 1922 a Napoli (Italia) ed è morto il 10 gennaio 2015 all'età di 92 anni a Roma (Italia).
Dopo una breve esperienza radiofonica e teatrale si accostò al cinema, scrivendo sceneggiature e lavorando con alcuni dei maggiori registi dell'epoca come Zampa in Processo alla città (1952), Antonioni ne I vinti (1953) e Visconti in La terra trema (1950), Bellissima (1952), Senso (1954). In queste collaborazioni sviluppò un forte interesse per la realtà e la vita politica e sociale italiana, interesse che Io guiderà nella scelta di soggetti di impegno civile e politico. Nel 1950 portò a termine Camicie rosse, lasciato incompiuto da G. Alessandrini, per esordire alla regia nel 1956, con La sfida, in cui affrontava il tema della camorra nei mercati generali di Napoli. Il film era svolto con le tecniche proprie dei film gangster americani. Nel 1959 diresse I magliari amara testimonianza sul malcostume di certa emigrazione italiana in Germania. Con Salvatore Giuliano (1961), raggiunse la sua maturità artistica e riuscì a ritagliare uno spazio lirico all'interno di un apparentemente arido film-documento su una delle vicende più torbide della storia italiana del Novecento. Con Le mani sulla città (1963), cronaca-storia del neorealismo nella decisa denuncia della speculazione edilizia a Napoli, vinse il Leone d'oro al Festival di Venezia. Questo premio sancì la sua definitiva consacrazione come uno dei più rappresentativi e interessanti registi italiani, confermata anche dalle sue opere successive come Uomini contro (1970), manifesto antimilitarista tratto dal romanzo di Emilio Lussu. Dopo i meno convincenti Il momento della verità (1965) e C'era una volta... (1967), tornò al cinema politico con Il caso Mattei (1972), che sollevava interrogativi inquietanti sull'oscura fine del fondatore dell'ENI, Lucky Luciano (1973) e Cadaveri eccellenti (1976), tratto dal romanzo Il contesto di Leonardo Sciascia. Di matrice letteraria furono anche i film successivi: Cristo si è fermato a Eboli (1979) dal capolavoro di Carlo Levi, Tre fratelli (1981), il film-opera Carmen (1984), Cronaca di una morte annunciata (1987) da Gabriel García Márquez. Con Dimenticare Palermo (1990), riprese il filone che lo aveva reso celebre negli anni Settanta. Poco convincente è stata anche la sua trasposizione di La tregua (1997), dal celebre romanzo di Primo Levi.
Raccontare nei suoi aspetti reali ed evidenti il mio Paese, ma anche indagare attraverso i patti abbietti tra certe istituzioni corrotte dello Stato e il potere politico ed economico di una criminalità organizzata che è sempre più potente: è questo l'aspetto della realtà che ha voluto conoscere il mio modo di fare cinema. Ho sempre immaginato lo spettatore non come una figura passiva, ma come un interlocutore del film. Un individuo che può e deve andare al di là dei dubbi insinuati dal mio lavoro e formularne a sua volta dei nuovi. Questo è il cinema della realtà, il mio cinema, che pone delle domande più che dare delle risposte. Non ho mai girato pellicole a tesi. Sono state sempre aperte alla riflessione, alla discussione. Il mio è un cinema che ha al suo centro l'uomo, le sue passioni, le virtù e i vizi. Un modo perché gli uomini si conoscano e si capiscano meglio tra loro, perché i registi hanno in mano il più potente mezzo di comunicazione e conoscenza.
Sono sinceramente onorato per l'Orso d'oro alla carriera che mi assegneranno al festival internazionale del cinema di Berlino il 14 febbraio prossimo. Nella mia lunga carriera - 50 anni nel cinema e 60 nello spettacolo-ho avuto molti riconoscimenti: il Leone d'oro e quello d'argento a Venezia, l'Orso d'argento nella stessa Berlino, il primo premio al festival di Mosca, la nomination all'Oscar per Tre fratelli (i981), molti Davide di Donatello, per citarne alcuni. Ma questo è un premio per la prima volta rivolto all'insieme dei miei film, in una manifestazione importante come quella di Berlino. Mi onora perché significa che riconoscono nel mio lavoro i valori di attualità e che molti dei miei film -tranne C'era una volta (1967) con Sofia Loren e Omar Sharif, Cronaca di una morte annunciata (1987) e Carmen (1984) - ripercorrono un itinerario coerente e conservano attualità nelle tematiche sociali affrontate: la realtà nella quale viviamo, la società, a volte con un'ottica politica oltre che sociale.
Tematiche ancor oggi valide e fonte di discussione. Le mani sulla città (1963), per esempio, che ha al centro della trama un costruttore, indagato per il crollo di una palazzina, che corrompendo la politica riesce a farsi eleggere assessore all'urbanistica, è il primo film sul conflitto di interesse.
Un tema, questo, all'ordine del giorno nelle discussioni che devono avvenire in Parlamento, ma che evidentemente non è ancora stato affrontato nella maniera più opportuna. Il fatto che molti leader politici sostengano che l'Italia sia in ginocchio, che stia attraversando un periodo di declino e crisi gravissima, significa che sentono l'urgenza di dover intervenire nella maniera più efficace. Come ne Le mani sulla città c'è ancora una parte della politica sana nel Paese e questo è un conforto, anche se sul futuro dell'Italia non mi posso dire ottimista, ma al massimo attendista.
Per capire meglio la mia maniera di fare cinema, riporto una recensione che Alberto Moravia scrisse sull'Espresso nel 1963 a proposito del mio film Salvatore Giuliano (1962).
Critica in cui mi riconosco perfettamente. «Per fare il film, come aveva in mente, Rosi ha dovuto inventare tutta una maniera nuova di narrare che chiameremo corale o epica, se non fosse prima di tutto realistica [...] Visione panoramica della complicata vicenda, eliminazione dell'intreccio, del personaggio e di qualsiasi amplificazione o aggiunta fantastica [...] Rosi ha riprodotto la storia di Giuliano con uno scrupolo esattissimo della verità [...] ma la verità per Rosi non è solo cronaca, documento; è anche rappresentazione delle passioni umane. Questa è alla fine la lezione del film di Rosi, specie per coloro che di fronte a una simile materia avrebbero creduto di non potere scegliere che tra il film d'invenzione più o meno fumettistico e il piatto documentario».
A me questa recensione oltre a sembrare molto bella, pare toccare tutti gli aspetti del mio modo di fare cinema. L'essere fedele a una realtà che, rispettata nella sua verità, diventa una realtà storica, senza nessuna contaminazione di fantasia. Certe strutture del film sono appoggiate a inchieste, non giudiziarie o poliziesche, ma sui fatti. Quindi, rispettare i fatti interpretandoli, significa anche non contaminarli con una divagazione fantastica che può compromettere la verità del film.
Sono fiducioso perché, mentre per un certo periodo, dopo i vent'anni della tremenda stagione terroristica italiana, i giovani si sono interessati al privato, oggi stanno tornando a vigilare i problemi della nostra società. Ci sono molti piccoli film, molti documentari sulla società e questo è un segno positivo per me. Mi auguro solo che queste nuove leve non vengano schiacciate dall'organizzazione, perché uno dei difetti maggiori del nostro cinema oggi è proprio la distribuzione.
Da Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2008
Nella fascia mediana, con frequenti sganciamenti verso l'attacco, si può ritrovare la più grossa concentrazione di autori: accanto agli esordienti, vi sono registi con alcuni titoli già realizzati e con una lunga esperienza di documentarismo o di aiuto regia. Ciò che distingue soprattutto questa fascia è il rapporto di maggiore integrazione e capacità contrattuale nei confronti della produzione. Mentre gli autori di cui si è finora parlato hanno tentato di difendere a oltranza la propria identità e il proprio mondo, anche a costo del silenzio e dell'emarginazione, i rappresentanti del gruppo seguente, dai contorni tematico-stilistici assai meno caratterizzati, assumono posizioni più elastiche nei riguardi della produzione. Per molti di costoro il modulo iniziale di gioco è quello neorealista, mentre le mosse successive si svolgono lungo assi e direttrici del campo assai più ristrette e prevedibili.
La maggior parte contribuisce a valorizzare il filone del cinema politico e d'impegno civile, che diventerà il fiore all'occhiello della produzione più illuminata a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Alcuni riescono - sempre sulla base del modulo neorealista - a inventare mosse di grande produttività a segnare, con la loro opera, alcuni momenti capitali della storia del cinema dell'ultimo trentennio. È il caso di Francesco Rosi, tipico rappresentante della generazione di mezzo, con una lunga esperienza alle spalle, che ha tutte le carte in regola per essere scelto come ideale guida di questa seconda fascia di registi e come uno degli autori dal percorso più alto coeso e coerente.
Tra i registi del dopoguerra Rosi si inserisce in una grande linea - in cui si collocano, a parere di chi scrive, anche Welles, Huston, Losey, Kubrick, Kurosawa - di autori per cui la vocazione realistica implica anche la capacità naturale di passaggio dal piano della realtà a quello del sogno, senza soluzioni di continuità. Fellini e Bergman fanno parte di un gruppo che si muove in direzione analoga, ma su percorsi paralleli.
Di fatto con I magliari termina la fase di formazione dell'opera di Rosi: come ha scritto Jean Gili, Salvatore Giuliano del 1961, terzo lungometraggio, inizia il periodo della maturità. Dopo il lungo apprendistato la maturazione registica è fulminea. Da questo momento il regista alza il tiro e mette allo scoperto le reali ambizioni stilistiche, tematiche e ideologiche. Di fronte a una vicenda per molti versi ancora oscura e irrisolta, Rosi procede, sul piano dei significati, a una indagine in profondità e, su quello dei significanti, alla decostruzione della struttura lineare del racconto. Il referente più facilmente identificabile è Quarto potere di Orson Welles. L'intenzione non è tanto quella di scolpire, a tutto tondo, la figura del bandito siciliano, riconfermandone il mito, sia pure in termini critici, quanto piuttosto di allargare lo sguardo dal caso esemplare al contesto che ne ha manovrato l'azione. Mediante una tecnica di narratage e un uso molto libero della macchina da presa (ora manovrata con violenza e promossa quindi a soggetto dell'azione, ora bloccata o appena mossa in lunghi e lenti movimenti di registrazione della violenza nelle cose), il regista mette a punto e collauda un prototipo stilistico-tematico destinato ad agire su tempi lunghi sul suo sistema espressivo. La tecnica di inchiesta parte in Salvatore Giuliano (come poi nel Caso Mattei, o in Lucky Luciano) dalla cronaca per allargarsi e accogliere nuove ipotesi interpretative. Il film vuole essere, prima di tutto, un saggio storiografico e politico in cui la passione civile si unisce a un lucido tentativo di riaprire un processo chiuso da tempo, avanzando dubbi legittimi e producendo nuovi testimoni e capi d'accusa.
I film di Rosi non hanno mai una struttura in cui l'orizzonte si viene restringendo e per via di esclusioni venga improvvisamente imboccata la strada che porta alla rivelazione finale degli enigmi e alla risoluzione dei misteri. La scomposizione della linearità narrativa a favore di una forma che si potrebbe chiamare a grafo sparso fa sì che lo spettatore venga condotto lungo un percorso labirintico in cui sempre i processi di occultamento e cancellazione della verità prevalgono sulla rivelazione. A mano a mano che si avanza di fatto i nodi non si risolvono, né la verità si avvicina. Sia le cause che le soluzioni si raddoppiano, si scompongono in un gioco di specchi e rifrazioni, si dilatano ipertroficamente a ventaglio. I colpevoli non vengono scoperti, le zone d'ombra sembrano occupare uno spazio crescente nella nostra storia. Gli interrogativi senza risposta si moltiplicano.
Che sia il contesto a interessare Rosi si capisce presto: la figura di Giuliano, ad esempio, non è soggetto drammatico dell'azione né viene mai ripresa direttamente. Lo si vede di profilo, di spalle, a distanza, in campo totale, se ne sente la voce fuori campo, ma il procedimento registico mira a illuminare cause ed effetti delle sue azioni.
Le mani sulla città (1963) segna un ritorno alla struttura narrativa tradizionale: il tema affrontato è quello della speculazione edilizia a Napoli.
Rosi rivela, in maniera diretta, il volto del potere politico ed economico e lo collega, senza perifrasi, agli effetti catastrofici nel sociale. Bisogna tornare alle opere del primo neorealismo per trovare una eguale carica di passione civile e politica nell'affrontare una vicenda italiana esemplare attraverso un film.
Con questi due film dei primi anni Sessanta Rosi assume un ruolo di punta e il suo coraggio civile e il suo esempio hanno una funzione trainante, rispetto a tutto un gruppo di registi esordienti. Grazie anche al suo coraggio il film d'impegno civile per oltre un decennio ha un compito di presenza interlocutoria rilevante. Il regista dimostra ancora una fiducia nelle superiori possibilità e capacità conoscitive della macchina da presa, rispetto agli altri mezzi di comunicazione di massa.
Rosi è uno dei pochi registi italiani che ha lavorato sul tempo e sulla sua pluridimensionalità, che ha fatto delle strutture spazio-temporali strutture portanti della sua ricerca. La rappresentazione del tempo per lui non è mai lineare ed è sempre un rapporto di coesistenza di temporalità multiple. Nel suo cinema esiste una temporalità in cui circolarità e linearità, tempo del mito e della modernità, coesistono e si intrecciano. Rosi percepisce e rappresenta una temporalità propria del mondo meridionale e ne analizza la vocazione a scandire il tempo dell'intera società italiana e a proiettarsi verso scenari mondiali.
I successivi Il momento della verità (1965) e C'era una volta (1967) e in parte anche Uomini contro (1970) non sono stati amati né capiti dalla critica, in quanto diversi dalle caratteristiche finora conosciute. La svolta o il mutamento di registro non sono dovuti a un restringimento delle possibilità discorsive in atto nella produzione; il decentramento spazio-temporale nella Spagna (che egli guarda amandola per i suoi aspetti di napoletanità) o quello nella dimensione della favola e del mito trascinano tutto il mondo del regista e lo ripropongono, dopo averlo fatto passare attraverso opportune metamorfosi. Rosi, tra i suoi archetipi narrativi, ama l'eroe medievale (sia pure trasformato nel tempo o rivissuto in moderne varianti hemingwaiane) che insegue da solo un suo sogno e un suo progetto, contro tutto e tutti: in questo senso la sfida quotidiana alla morte del torero nell'arena gli appare come la situazione simbolica più emblematica. Della favola successiva, C'era una volta, alla cui sceneggiatura ha collaborato Tonino Guerra, non si sono in pratica né capite né apprezzate le scelte generali, né le soluzioni Specifiche. Eppure Rosi è uno dei primi registi a trasferire e utilizzare nel film a soggetto (per il documentario c'era stato il notevole esempio della Taranta di Gianfranco Mingozzi del 1963) gli strumenti dell'antropologia culturale e i risultati delle ricerche di Ernesto De Martino, per esplorare aspetti radicati e profondi della cultura popolare del Sud. Riti, magie, stregonerie, superstizione in apparenza sono risolti nella dimensione della favola, di fatto affondano il loro sguardo nel vivo della storia, della memoria collettiva, nei gesti, nei riti, nelle pratiche di repressione quotidiana dimenticate e rimosse, e ancora, di fatto, presenti in una memoria sepolta. C'era una volta si serve di nuovi strumenti di interpretazione e rappresentazione per realtà - come quelle del Sud - viste da vent'anni secondo un'ottica prigioniera degli stessi stereotipi e di categorie esaurite. Non è trascurabile in ogni caso quella componente visionaria di piacere di affabulazione visiva, che Rosi forse comprime a favore di una narrazione in cui l'immagine scavi e colpisca, che si manifesta in maniera potente in questo film e nel Momento della verità e si ritroverà in Carmen e in Cronaca di una morte annunciata.
Se il meccanismo della favola non riesce, in pratica in C'era una volta, a scalzare questi stereotipi, quello di una rappresentazione che rovesci l'interpretazione storiografica comunemente accettata della prima guerra mondiale, in Uomini contro, colpisce in modo più diretto e violento la critica e il pubblico. Già nella scelta del libro di Emilio Lussu Un anno sull'altipiano, il regista dimostra di voler guardare alla Grande Guerra con un'ottica interpretativa rovesciata". Ma soprattutto i testi storiografici scelti a supporto del film confermano questa intenzione: prima di Uomini contro, alcuni grandi atti d'accusa contro il militarismo, aventi come scenario la Grande Guerra, il cinema li aveva avanzati: da Per la patria di Abel Gance fino ai più recenti Orizzonti di gloria (1959) di Stanley Kubrick e Per il re e per la patria ( 1963 ) di Joseph Losey. Rosi, accogliendo la linea interpretativa dei testi usciti in quegli anni (da Plotone d'esecuzione di Alberto Monticene ed Enzo Forcella ai Vinti di Caporetto di Mario Isnenghi), tenta di rappresentare e raccontare una storia finora taciuta o mai considerata dalla storiografia ufficiale. La storia dispersa, ma unitaria, di migliaia e migliaia di voci e di persone che rifiutavano e si opponevano alla guerra e a tutti i suoi valori; la storia raccontata da fonti mai indagate, come gli atti dei tribunali militari, i diari dei cappellani, le lettere dei soldati ai familiari, e così via. Il film nasce in una congiuntura ideologica favorevole: esso è il frutto cinematografico dell'incontro fra un nuovo corso storiografico di studi sulla Grande Guerra e una tensione culturale e sociale del contesto, di cui il regista sa farsi interprete.
Per la sua rappresentazione Rosi sceglie un punto di vista che oscilla tra uno sguardo d'insieme, dominato da piani generali, in cui le individualità sono neutralizzate e gli uomini diventano carne da cannone, e un punto di vista interno ai personaggi, regolato da una dialettica di primi piani, che trasmette il senso dello scontro tra l'ideologia militarista e il suo rifiuto. L'analisi dei meccanismi di potere qui raggiunge, soprattutto nella prima parte, nelle marce degli alpini, nelle allucinanti carrellate sul terreno, dopo gli inutili assalti a Montefior, nelle scene dell'ospedale, la sua fase estrema. Ai volti del potere si oppongono le masse di uomini che lottano per la sopravvivenza e contro la perdita della propria identità: la classe egemone afferma la sua potenza ai danni di un'opposizione pur dilagante delle classi subalterne. Il protagonista del film, il tenente Sassu, diserta la sua classe e per questo finisce di fronte al plotone d'esecuzione, ma la sua protesta e la sua ribellione sono un gesto tutt'altro che individualistico.
Il senso ideologico dell'interpretazione del regista è affidato all'accumulazione dei dati sull'inutilità della strage e sulla follia che anima i quadri ufficiali di vertice, ma, nello stesso tempo, la follia dei quadri di comando (il generale Leone per tutti) è perfettamente legittimata dai poteri concessi dai regolamenti. L'evidenza del discorso è in prevalenza di tipo visivo, anche se vi sono momenti di forte concentrazione di senso che costituiscono la chiave di interpretazione del film. Come la scena in cui il tenente Ottolenghi, prima di morire sotto il fuoco degli stessi compagni, grida: «Eccolo là il nemico ! E alle vostre spalle!».
Con II caso Mattei e Lucky Luciano dei primi anni Settanta, a partire dalla stessa scelta della struttura narrativa, Rosi si ricollega, come si è già detto, al modello di Salvatore Giuliano. Anche in questo caso i dati della cronaca servono solo per avviare il meccanismo che rapidamente si allarga e mostra la rete di intrecci noti e meno noti tra il potere mafioso e poteri politico ed economico, fino a spingersi al limite di zone più oscure, assumendosi rischi interpretativi nuovi rispetto alle risultanze e alle conclusioni degli atti processuali. Il caso Mattei, rispetto a Salvatore Giuliano, così come il film successivo (ottimamente interpretati da Gian Maria Volente), pone i protagonisti al centro dell'immagine e della vicenda e fa ruotare attorno a loro un insieme di interessi e di forze sopranazionali. Di film in film Rosi tenta con coraggio, servendosi dei mezzi più eterogenei, ma preparando comunque e studiando a fondo il suo argomento, di rompere la crosta delle apparenze, dei silenzi, dell'omertà, delle omissioni ufficiali.
Con la stessa passione civile che aveva guidato Danilo Dolci negli anni Cinquanta, Rosi concepisce i suoi film anche come inchieste, come strumenti di conoscenza e denuncia. Non è in fondo un caso che, a un certo momento della sua carriera, si incontri con l'opera di Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli) o con quella di Leonardo Sciascia (Cadaveri eccellenti è tratto da II contesto, due autori che, come lui, hanno lavorato per tentare di penetrare nel cuore delle cose e per spiegare i singoli avvenimenti nei termini di una logica più ampia.
Se Leonardo Sciascia aveva parlato di «sicilitudine» («forse tutta l'Italia sta diventando Sicilia»), ossia della riconsiderazione della Sicilia come di una realtà non separata, ma capace di diventare paradigma e spazio topologico con caratteri universali, per Rosi si potrebbe parlare di «meridionalitudine», ossia di un insieme di mentalità e comportamenti propri di una realtà geografica circoscritta che si moltiplicano, sono esportabili, si proiettano nello spazio, attecchiscono facilmente su qualsiasi terreno e agiscono da modificatori dei processi economici, storici, politici e sociali su scala nazionale e internazionale. Mentre nel cinema americano lo schermo è il luogo privilegiato in cui sistematicamente si trasferiscono le grandi paure collettive, il cinema di Rosi parte da un processo già avvenuto e sedimentato in cui, ad esempio, le grandi paure del comunismo sono state esorcizzate mettendo a coltura le cellule malavitose e mafiose usate molto a lungo come vaccino anticomunista. Cellule che da un certo momento in poi risultano incontrollabili. Nel suo cinema molto presto i volti del potere politico e quelli del potere mafioso si confondono in modo tale da risultare indistinguibili. Il potere mafioso, la cui rete si estende dai piccoli paesi del Sud al Parlamento, alle fabbriche del Nord e si dirama in Europa e oltre Oceano, è rappresentato dal regista in tutta la sua morfologia poliedrica e tentacolare e in tutti i suoi possibili comportamenti. Braccio armato di un potere politico ed economico che intende, a ogni costo, mantenere le leve di comando e i privilegi acquisiti, la mafia è un cancro che ha messo radici profonde e ha raggiunto gangli insospettabili all'interno degli organismi democratici.
Rosi riesce a saldare vicenda individuale e ambientale come nessun regista della sua generazione, che si era posto identici obiettivi, è riuscito a fare. In effetti fin dall'esordio dimostra di possedere una diversa qualità di sguardo che gli permette di tradurre visivamente il senso di precarietà dell'esistere individuale, il valore simbolico dei gesti, degli sguardi, dei silenzi, dei sistemi di relazione tra individui e paesaggio.
Nei film degli anni Settanta, da Cadaveri eccellenti a Cristo si è fermato a Eboli, a Tre fratelli, Rosi, in pratica, costruisce tre varianti di un'unica storia, mostrando la compresenza, in realtà politiche e sociali solo in apparenza distanti, di modi di vivere di società arcaiche, di sistemi di repressione capaci di aggiornarsi di continuo e di adeguarsi al mutare dei livelli di industrializzazione delle società. Il regista cerca, nella sua ultima produzione, di mostrare come, al di là di ogni disgregazione sul piano politico e sociale, si nasconda un identico volto, capace di assumere un infinito numero di ruoli e maschere.
Film dopo film Rosi cerca di esplorare i misteri ingloriosi dell'Italia del dopoguerra: misteri politici, misteri giudiziari, misteri amministrativi, misteri militari, misteri economici. Misteri destinati a rimanere sempre tali, Rosi è attirato dall'apparente facilità con cui ci si può muovere a lungo nei labirinti misterici e dall'impossibilità di giungere a soluzioni ufficiali e plausibili degli enigmi. Da Salvatore Giuliano a Dimenticare Palermo la cupola mafiosa estende il suo potere in ogni continente e per garantire la propria sopravvivenza coopta forze insospettabili e onnipresenti. Un occhio onnisciente e onnipotente pare regolare il mondo controllato dal potere mafioso.
Pur mantenendo le caratteristiche del proprio stile ellittico e giocando sempre sulla valorizzazione della parte per il tutto, Rosi carica di messaggi i suoi film, ribadendo una fiducia intatta quasi nel potere del sistema di favorire la crescita della coscienza civile. Per lui la società odierna, per liberarsi delle eredità negative del passato, deve saperle riconoscere, guardarsi indietro e recidere senza timori o nostalgie quei fili che ci collegano a un passato di oppressione e repressione, di negazione della personalità umana, di ignoranza e miserie. Nei suoi ultimi film Rosi non si accontenta più di volgere lo sguardo all'indietro, o di esplorare il presente, ma comincia a suggerire mondi possibili e come le leggi di questi mondi possibili siano reperibili e già scritte in comportamenti che ci giungono da lontano. Lo stile si è fatto più netto, la sua ricerca di essenzialità, dopo le stagioni manieriste e barocche, ha raggiunto effetti degni dei grandi affreschi pre-rinascimentali. Concentra/ione, intensità, nobiltà, complessità e semplicità sono gli attributi che definiscono le ultime stagioni espressive, da Cadaveri eccellenti a Cronaca di una morte annunciata, da Carmen a Dimenticare Palermo. I suoi tentativi di diagnosi sono anche un invito a reagire, a servirsi - nella lotta contro il potere mafioso - dei pochi strumenti che lo Stato democratico può ancora mettere in gioco per cercare di arginare il potere di forze sempre più aggressive e capaci di alzare il tiro, di mantenere almeno sveglia la propria coscienza, di non rinunciare a pensare, illuministicamente di poter mutare il corso delle cose anche se l'orizzonte delle speranze appare sempre più ristretto e nulla sembra giustificare sprazzi anche minimi di ottimismo. Nel 1993 Rosi gira Diario napoletano, duro documento sul degrado della sua città natale e poi due anni dopo porta a termine La tregua, liberamente tratto dal romanzo di Primo Levi. Nel film Rosi sceglie una rappresentazione implicita dell'orrore, ma ciò che lo interessa soprattutto è il senso del ritorno alla vita e il racconto della picaresca odissea di un gruppetto di sopravvissuti del lager che tenta di tornare in patria. Per tutti si tratta di una vera e propria rinascita, della possibilità e capacità di riscoprire le emozioni primarie minime in una goccia d'acqua, in un raggio di sole, in un verso di una rana, o in un semplice incrociarsi di sguardi.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007