GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Occhio a Billy Wilder. Humour e realismo. Sceneggiatura di ferro e dialogo spumeggiante, il regista di Duplicity s'ispira all'autore di A qualcuno piace caldo per riportare a Hollywood la commedia intelligente.
Cinquantadue anni, brizzolato, gl occhi, la mente e l'umore visibilmente irrequieti quando gli parli, Tony Gilroy si è dato un obiettivo difficile: fare cinema hollywoodiano «adulto», «intelligente» e di grande successo. Sceneggiatore di thriller tra ì più quotati sulla piazza (suoi i tre Bourne e l'imminente State of Play), due anni fa, con Michael Clayton, il suo primo film da regista, aveva portato a casa sette nomination agli Oscar, tra cui miglior script, miglior regia e miglior film dell'anno. Il suo ricercato mix di attualità, dettagli realistici, trame rompicapo e cast di serie A, unito a un'ironia graffiante, un occhio stilizzato e un orecchio impeccabile per gli slang delle sottoculture, Gilroy è spesso citato come l'erede più plausibile del cinema americano «impegnato» degli anni Settanta.
Non stupisce dunque che sia stato proprio lui a convincere julia Roberts ad accettare un ruolo da protagonista dopo un esilio volontario di anni. II film è Duplicity, un'avventura d'amore e spionaggio dove Roberts e Clive Owen, amanti per una notte in Dubai, sono due ex dei servizi segreti assoldati da corporation decise a distruggersi a vicenda. Del film e di molto altro abbiamo parlato con Tony Gilroy a New York.
Corruzione e guerra tra cartelli industriali. Ha scelto un soggetto attualissimo...
Specialmente dopo i Bourne, mi sembrava di aver detto praticamente tutto sull'argomento «spie». L'unica dimensione che non avevo ancora esplorato era quella dello spionaggio industriale, perché tutte le cosiddette «spie» che conosco - e molte sono ex agenti del governo - lavorano anche per il settore privato. t un giro d'affari enorme e lucroso: lo stipendio di un alto funzionario della Cia s'aggira sui 150.000 dollari all'anno. Nel settore privato, anche la corporation più traballante te ne garantisce 3/400.000. Lo chiamano con un eufemismo curioso: «intelligente competitiva». Hanno persino delle corporazioni di settore, organizzano congressi. t un business molto consolidato. Infatti, nel film non c'è nulla che non sia vero, e che non succeda tutti i giorni.
Il rapporto tra i personaggi Julia Roberts e Clive Oven evoca la guerra dei sessi di certe commedie classiche hollywoodiane...
Cercavo qualcosa di realistico ma anche di molto stilizzato. Da un lato, la fiducia è il cardine intorno a cui ruota ogni rapporto, la radiografia di una relazione. Dall'altro, dovevo trovare il tono comico giusto. Ho sempre avuto un grande rispetto per Bílly Wilder ma solo dopo Duplicity ho capito davvero quanto sia difficile trovare quell'equilibrio tra verità e commedia che rendeva grandi i suoi film. Una delle conversazioni più importanti che ho avuto prima di cominciare le riprese di Duplicity è stata con Sydney Pollack. Stava già male, ma ci sentivamo spesso al telefono. Io ero preoccupato della capacità del mio film di fare anche ridere, delle quantità di risate che sarebbe riuscito a suscitare. Allora Sydney mi ha confidato che un mese prima dì dare il via a Tootsie era stato assalito da un attacco di panico: aveva visto Victor Victoria e concluso che lui non sarebbe mai riuscito a essere così divertente! A quel punto aveva persino cercato di abbandonare il progetto, ma era troppo tardi. Alla fine ha deciso di fottersene, di girare Tootsie «come se fosse Cechov». Pare sia stata una lavorazione noiosissima. In realtà tutta la comicità di cui aveva bisogno è saltata fuori al montaggio. Perché la comicità non si insegue.
Molta della «realtà» delle sue storie emerge attraverso i dialoghi. Dove ha imparato a scrivere così?
Vedo ogni film come un mondo a se stante, da allestire nei minimi particolari. Per questo, ogni tanto, ho delle difficoltà all'inizio di una sceneggiatura: non ho ancora visualizzato ogni dettaglio. E io non posso scrivere se tutto non è completamente «reale». t per questo motivo che faccio moltissima ricerca. Parte del mondo di ogni film è il linguaggio che vi si parla. Scrivere «in gergo» mi è sempre stato facile, in certi film d'azione ho inserito scambi di battute in gergo che non sono affatto essenziali ma, una volta sullo schermo, funzionano alla grande.
Nel film si dice che siamo entrati in una nuova fase dell'evoluzione: al centro non c'è più la specie umana bensì quella delle corporation. Lo pensa veramente?
(Ride) Alcune delle cose le penso sul serio.
Suo padre è stato un importante regista/sceneggiatore. Che parte ha avuto il cinema nella sua infanzia
Crescendo non ho mai pensato di fare cinema. Fino ai vent'anni volevo fare il musicista, poi scrivere canzoni, o romanzi importanti. t stato solo quando ci ho provato che ho capito quanto ci fossi cresciuto dentro. t come venir su con un padre calzolaio, per forza sai tutto di scarpe. Se pensa poi che uno dei miei fratelli ha montato Duplicity e l'altro fa lo sceneggiatore a Hollywood, c'è da credere che sia anche una questione genetica...
Da Lo Specchio, Aprile 2009