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Rassegna stampa di Sydney Pollack

Sydney Pollack è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, è nato il 1 luglio 1934 a Lafayette, Indiana (USA) ed è morto il 26 maggio 2008 all'età di 73 anni a Pasadena, California (USA).

MICHAEL CIEPLY
The New York Times

LOS ANGELES — Sydney Pollack, a Hollywood mainstay as director, producer and sometime actor whose star-laden movies like “The Way We Were,”“Tootsie” and “Out of Africa” were among the most successful of the 1970s and ’80s, died Monday at home here. He was 73.
The cause was cancer, said the publicist Leslee Dart, who spoke for his family.
Mr. Pollack’s career defined an era in which big stars (Robert Redford, Barbra Streisand, Warren Beatty) and the filmmakers who knew how to wrangle them (Barry Levinson, Mike Nichols) retooled the Hollywood system. Savvy operators, they played studio against studio, staking their fortunes on pictures that served commerce without wholly abandoning art.
Hollywood honored Mr. Pollack in return. His movies received multiple Academy Award nominations, and as a director he won an Oscar for his work on the 1985 film “Out of Africa” as well as nominations for directing “They Shoot Horses, Don’t They?” (1969) and “Tootsie” (1982).
“Michael Clayton,” of which Mr. Pollack was a producer and a member of the cast, was nominated for a best picture Oscar earlier this year. He delivered a trademark performance as an old-bull lawyer who demands dark deeds from a subordinate, played by George Clooney. (“This is news? This case has reeked from Day 1!” snaps Mr. Pollack’s Marty Bach.) Most recently, Mr. Pollack portrayed the father of Patrick Dempsey’s character in “Made of Honor.”
Mr. Pollack became a prolific producer of independent films in the latter part of his career. With a partner, the filmmaker Anthony Minghella, he ran Mirage Enterprises, a production company whose films included Mr. Minghella’s “Cold Mountain” and the documentary “Sketches of Frank Gehry,” released in 2006, the last film directed by Mr. Pollack.
Mr. Minghella died in March, at the age of 54, of complications from surgery for tonsil cancer.

A. O. SCOTT
The New York Times

Sydney Pollack’s career as a director blossomed in the 1960s and ’70s, but in many ways he was a throwback to an earlier era in American movies.
The story of the New Hollywood, dominated by a wild bunch of ambitious, iconoclastic would-be auteurs, is by now overgrown with nostalgia and legend-mongering, but Mr. Pollack’s place in that legend suggests continuity rather than upheaval. The vitality of motion pictures has always been sustained by craftsmen with a modicum of business sense and the ability to tell a good story. Mr. Pollack, who died on Monday at 73, was never (and never claimed to be) a great innovator or a notable visual stylist. If he could be compared to a major figure from the Old Hollywood, it would not be to one of the great individualists like Howard Hawks or John Ford, who stamped their creative personalities onto every project, whatever the genre or the level of achievement. Mr. Pollack was more like William Wyler: highly competent, drawn to projects with a certain quality and prestige and able above all to harness the charisma of movie stars to great emotional and dramatic effect.

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Il decennio 1966-1975 di Sydney Pollack - regista, sceneggiatore, montatore, produttore e attore, morto ieri a Los Angeles a settantatré anni - è stato uno degli ultimi grandi momenti di Hollywood. Questa ragazza è di tutti, Non si uccidono così anche i cavalli?, Corvo rosso non avrai il mio scalpo, Come eravamo, I tre giorni del Condor e Yakuza non esprimono solo senso della dignità e della libertà; esprimono anche quel che i film americani più costosi dovevano rimuovere, come il senso del tragico, mantenendo quel che la moda sessantottarda rimuoveva come un orpello: il senso dell'onore.
Per questa sintesi di rivoluzione e conservazione, di ciò che tornava a essere con ciò che era sempre stato elemento di spettacolo, quei film sono invecchiati relativamente bene. Non si direbbe altrettanto di altri film coevi, allora più quotati presso la critica europea, che inizialmente guardava a Pollack con sufficienza. Meno estremista di Alan J. Pakula e Hal Ashby, meno velleitario di Dennis Hopper e Bob Rafelson, Pollack insospettiva anche la vasta cinefilia di sinistra; affascinava invece la meno vasta cinefilia di destra (ma ciò avrebbe fatto vendere ai suoi film solo dieci biglietti in Italia e cento in Francia). A contare era che Pollack fosse in sintonia col grosso pubblico: questo di lui piaceva alle majors, prontissime ad affidarsi a grandi talenti quando sono sinonimi di grandi incassi: Come eravamo e I tre giorni del Condor lo furono. Si ricordi il primo quarto d'ora di quest'ultimo, quasi una danza: poche parole, tanti colpi col silenziatore, rumori di telescriventi. Un incipit che diede speranza a chiunque mal sopportasse i colleghi d'ufficio: la speranza che il sicario Max von Sydow ne sfoltisse i ranghi...

DINA D'ISA
Il Tempo

Come epitaffio avrebbe voluto una sua stessa battuta, intrisa di quel finissimo humour ebraico che aveva nel sangue: «Non è vero che i film che ami di più sono quelli che ricordi più volentieri. Ti viene sempre in mente la fatica dannata che ti sono costati!».

Così scherzava il premio Oscar Sydney Pollack, morto lunedì sera a Los Angeles nella sua casa di Pacific Palisades, a 73 anni (ne avrebbe compiuti 74 il primo luglio), a causa di un tumore allo stomaco. Se ne è andato lasciando un segno indelebile nel cinema internazionale, del quale rappresentava il trade union tra il tradizionale divismo americano e la cinematografia innovativa delle ultime generazioni. Pollack ha definito un'epoca in cui sia alcuni registi (oltre a lui, Barry Levinson e Mike Nichols) sia star come Robert Redford, Barbra Streisand e Warren Beatty, avevano cambiato i meccanismi di Hollywood raggiungendo successi di cassetta senza abdicare alle ambizioni artistiche. Ha diretto 21 pellicole e 10 show televisivi, recitando in oltre trenta tra film e producendo più di 44 pellicole. Stanley Kubrick ricorse a lui come attore nella lunga avventura di "Eyes Wide Shut" dopo l'abbandono di Harvey Keitel.

MARIAROSA MANCUSO
Il Foglio

Chiacchierano dei rispettivi lavori, come due ragazzini alle prese con i compiti. Condividono il vizio di rimandare fino all’ultimo, l’angoscia della scadenza che si avvicina, il timore di non farcela. Soprattutto, hanno lo stesso incubo: qualcuno prima o poi li sbugiarderà, rivelando il bluff. Sono Sydney Pollack, che del documentario è anche regista, e Frank Gehry, l’architetto del Guggenheim Museum a Bilbao (in “Frank Gehry: creatore di sogni”, da Feltrinelli il dvd). L’architetto canadese qualche problema lo ha avuto: il Mit gli ha chiesto i danni, constatate le infiltrazioni d’acqua nell’anfiteatro da lui disegnato e costruito appena un anno prima. A Sydney Pollack i danni non li chiederà nessuno. Qualche suo film lo abbiamo amato molto, qualche altro meno, il trascorrere degli anni non sempre ha portato consiglio (però neppure Cassandra poteva immaginare che un ruolo in “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick si sarebbe rivelato il disastro che è, per morte intempestiva del regista). Ma il suo nome resta a garanzia di un equilibrio d’altri tempi tra intelligenza, originalità, ragioni di un’industria che ama il suo pubblico. Era lui l’unico, parlando di sé, a dubitare della propria bravura. In un’intervista apparsa sull’American Cinematographer, mensile supertecnico letto come una bibbia dagli addetti ai lavori, liquidò il proprio “visual style” come “poco interessante”.

RITA CELI
La Repubblica

Ha conciliato impegno e incassi, ha conquistato la statuetta con "La mia Africa".
Oltre a Robert Redford ha diretto Dustin Hoffman, Harrison Ford, Tom Cruise.
HOLLYWOOD perde uno dei suoi rappresentanti più innovativi. Sydney Pollack è morto nella sua casa di Los Angeles. Lo ha annunciato il suo agente e amico Leslee Dart, riferendo che il regista, 73 anni, da qualche mese era malato di tumore. Gli ultimi giorni li ha passati nella sua abitazione di Pacific Palisades, circondato dalla moglie Claire Griswold, le due figlie Rebecca e Rachel e il fratello Bernie.
Nato il 1 luglio 1934 a Lafayette, nell'Indiana, Sydney Pollack è stato regista, attore e produttore tra i più inventivi appartenenti alla schiera della Nuova Hollywood. Così come alcuni colleghi, come Barry Levinson e Mike Nichols, Pollack non ha mai rinunciato alle ambizioni artistiche dirigendo grandi interpreti e ottenendo successi di critica e soprattutto di pubblico.

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

Sydney Pollack, scomparso ieri a Los Angeles all'età di 73 anni, è stato un regista che ha accompagnato, commentato, rispecchiato quasi mezzo secolo di storia americana. Un regista "liberal", nel senso pieno della parola, capace di riprendere i temi e gli umori degli anni della contestazione prima, del cosiddetto "riflusso" poi, senza mai dimenticare le ferree leggi dello spettacolo.
Il primo film che lo fece davvero conoscere al pubblico internazionale ( dopo i già notevoli La vita corre sul filo, Questa ragazza è di tutti e Joe Bass l'implacabile, diretti fra il '65 e il '68) fu una pellicola di guerra altamente spettacolare,

ROBERTO SILVESTRI
Il Manifesto

Il «miglior regista di attori» di Hollywood è morto ieri di cancro a 73 anni, nella sua casa di Los Angeles. Sydney Pollack, due Oscar nel 1985 per La mia Africa, 46 candidature, produttore, attore che veniva da off Broadway e dalla televisione, e andava spesso a trovare Fidel Castro guidando il suo jet privato, era il classico filmaker «con qualcosa da dire», come l'amico per la pelle Robert Redford (che diresse 7 volte). Ma Hollywood lo adorava. Perché i suoi melodrammi incassavano. E per la sua capacità seduttiva nei confronti delle star, di vecchia e nuova scuola da Newman a Streep a Harrison Ford, che coinvolgeva sempre e portava al rendimento massimo, in progetti redditizi, drammi e melò, commedie e thriller accurati e meticolosi nella sceneggiatura. Sempre sofferte e lavoratissime, a costo di sostituire continuamente gli scrittori, Rayfiel con Taradash, Anhalt con Milius, Schrader con Towne, James Poe con Robert Thompson. Copioni trasformati sul set in forme briose, moderne e demodé, «calde» e misurate, realiste e a lampi fantasy, non sempre unitarie nell'atmosfera, passando dallo squarcio documentaristico alla pausa allegorica (cosa che gli costò qualche incomprensione critica) anche quando affrontava argomenti spinosi e scabrosi con tonalità liberal/radical. Contenuti che, almeno fino alla fine degli anni 70, erano garanzia di profitto: irridere alla «società dello spettacolo», dalla depressione (Questa ragazza è di tutti e Non si uccidono così anche i cavalli, che è già una satira dei nostri reality show) all'epoca delle big corporation (Il cavaliere elettrico); spezzare lance a favore dei nativi (l'omaggio al western spaghetti Joe Bass l'impacabile o l'inno beat a Henry David ThoreauCorvo rosso non avrai il mio scalpo), maledire la Cia assassina (I tre giorni del Condor); indignarsi per le purghe anticomuniste (Come eravamo). E che divennero via via negli anni 80 gli orrori del giornalismo scandalistico e cinico (Assenza di malizia), la lotta contro il sessismo (Tootsie), l'auspicio, perfino, di qualche rivoluzione latino-americana che, come davanti al tavolo da gioco, è desiderio da gioco d'azzardo (Havana) o lo scodellar nostalgie per il capitalismo romantico alla Theodore Roosevelt in La mia Africa, film che capovolse, perché il consumo ormai lo imponeva, il rapporto tra conflitto politico (sullo sfondo) e passione d'amore (in primo piano), dentro un'estetica da National Geographic. Fino a The interpreter, con Sean Penn e Nicole Kidman e all'omaggio a Gehry, indicazione preziosa ai giovani cineasti: ricominciare dal documentario. «I suoi film avevano una qualità lirica, come la grande musica, e un ritmo impeccabile - ha detto Owen Roizman, direttore della fotografia di Tootsie e Havana - non era mai soddisfatto, la sua passione era contagiosa e portava tutti a scavare più a fondo». E George Clooney, che lo ebbe accanto in Michael Clayton: «Sydney ha migliorato un po' il mondo, un po' il cinema e un po' anche le cene». Già, «fare film politici non è dare un po' di speranza?», dice Redford in Havana? I nostri due film politico-poetici di successo, Il divo e Gomorra, un'allegoria grottesca e un dramma necrorealista, non la pensano così. Pollack mescola sempre (adora bastardizzare le cose) mafia e potere politico, stato e malavita, polizia e gangsterismo. Sul piano dell'espressione questo vuol dire maneggiare gli opposti, realismo e fantastico, «documentarismo» e allegoria, analisi e urlo appassionato, creando un flusso visuale a sbalzi stilistici molto originale. L'estetica «paranoica» del thriller politico Usa, fissata nei romanzi di Richard Condon (Manchurian Candidate, Winter's Kill, Prizzi's Honor, The Parallax View e appunto il suo I tre giorni del Condor) ha chiarito: «gola profonda» è nelle corporation, nella polizia, nella Cia. La nostra speranza è trovarla. Non fare come se non ci fosse problema. In Italia si isola, invece, da una parte il grottesco, il «fantastico», regno inaccessibile del Potere (e si gode un mondo per la cattiveria del burattino principe, «divinamente mostruoso»). Dall'altra, ci si bea di panni sporchi, «da non lavare assolutamente», e della Camorra, mondo a sé, aspro, brutale poeticamente conturbante, come se fosse anti stato, non una sua prediletta fenomenologia.

GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Il Manifesto

«Un gran signore», «un esempio di alta classe», un uomo capace «di rendere un po' migliore il mondo, il cinema e persino una cena» (nelle parole di George Clooney), un amico «privo di pretenziosità e supponenza, che condivideva con me l'amore per la famiglia, le storie, gli aerei, il cibo e una buona bottiglia di vino» (Tom Cruise). «Il nostro è rapporto di 40 anni. La sua scomparsa un fatto troppo personale per poterlo esprimere in un soundbite» (è una mail di Robert Redford al New York Times)... Hollywood piange Sydney Pollack, regista/produttore/attore ma soprattutto una presenza che, con gli anni, era diventata amatissima per quella sua capacità di incarnare il meglio dell'industria del cinema (di cui era considerate uno statista riluttante) e, allo stesso tempo, una sana, elegante, diffidenza nei suoi confronti - diffidenza che aveva formato nei Sixties e che lo seguì per tutta la sua carriera.

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

Era un grande regista e un uomo adorabile, due cose che non sempre vanno di pari passo. Quando non dirigeva, recitava. Quando non recitava, produceva i film degli altri. Quando si era perfezionato in un genere passava a un altro, dal melodramma al western, dal film di guerra alla commedia, dalla spy story al cinema di denuncia, portando in ogni genere qualcosa di nuovo. Come hanno sempre fatto i migliori talenti della vecchia e della nuova Hollywood, ma con una duttilità, una semplicità, una disponibilità artistica e umana, che ne fecero il prototipo del grande cineasta americano. Con venti film al suo attivo, Sydney Pollack fu infatti tutto fuorché un "Autore" all'europea. Non un artista chiuso nel suo mondo, dunque, ma un professionista aperto alle suggestioni più disparate. Capace, forse più di chiunque altro nella sua generazione, di conciliare originalità artistica e richiamo spettacolare. Restando fedele non tanto a uno stile quanto a una "famiglia" di ossessioni e soprattutto di attori, in testa l'amico di gioventù Robert Redford, cui avrebbe offerto ruoli memorabili.

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

Curiosamente la prima immagine a ritornare in mente è quella del lascivo magnate che in «Eyes Wide Shut» chiama, nel corso della sontuosa festa natalizia, il medico Tom Cruise affinché salvi la vita alla ragazza andata in overdose mentre era in sua compagnia. In effetti Sydney Pollack, morto domenica a 73 anni nella sua casa di Los Angeles per gli esiti di un tumore allo stomaco, è stato uno dei registi di punta della Nuova Hollywood «esplosa» alla fine degli anni Sessanta e uno di quelli più eterogenei e convenzionali a partire dagli Ottanta; ma questo non vuol dire che le sue presenze da attore siano state occasionali o trascurabili. Il fatto è che la sua granitica personalità è in grado d'ergersi sempre e comunque sulla media nel corso di circa quarant'anni cruciali per la trasformazione del cinema americano da classico a postmoderno. E proprio le disarmonie che caratterizzano la sua filmografia - via via attirata dal romanticismo nostalgico e dalla polemica sociale, dal thrilling politico e dalla commedia di costume - finiscono per certificarne l'importanza e in qualche modo l'esemplarità. Nato nel luglio del 1934 a Lafayette, Indiana, da una famiglia ebrea di ceppo russo, Pollack si trasferisce nel '52 a New York, dove studia alla Neighborhood Playhouse School di Sanford Meisner, del quale diventa assistente dopo la parentesi del servizio militare. Rivestendo volentieri anche ruoli d'attore, viene notato da John Frankenheimer, che prima lo dirige più volte in teatro, poi lo chiama a Hollywood per affidargli la regia di alcuni episodi di serie televisive di successo - da «The Defenders» a «Dr. Kildare» - e infine lo assume come assistente ai dialoghi del suo secondo film «Il giardino della violenza» (1961). Con «La vita corre sul filo», quattro anni più tardi, esordisce dietro la macchina da presa senza eccessivo entusiasmo, riuscendo però ad abbozzare le direttrici sulle quali si baserà la carriera: il trasporto liberal, la tendenza alla suspense sentimentale e l'accuratezza dello scavo psicologico ottenuta grazie alla direzione degli interpreti. Quest'ultimo dato discende ovviamente dall'apprendistato vissuto in gran parte sui palcoscenici, che lo pone culturalmente e pragmaticamente su un prezioso piano di parità con gli attori: come confermano la confidenza e la complicità sperimentate nel corso degli anni con star del calibro di Burt Lancaster, Robert Redford, Jane Fonda e Dustin Hoffman. Il suo primo periodo, solido quanto eclettico («Questa ragazza è di tutti», «Joe Bass l'implacabile», «Ardenne '44, un inferno»), sfocia così in un gruppo di titoli che, tra il '69 e il '75, esaltano il senso del suo innato umanesimo, teso a investigare senza remore - ma anche senza dimenticare il piacere e il dovere dello spettacolo - i concetti di cultura, nazione, società con tutto ciò che essi comportano nel rapporto con la politica, la sessualità o le istituzioni. In «Non si uccidono così anche i cavalli?» (sei nomination e un Oscar) prevale l'amarissima metafora dell'America della Depressione; in «Corvo rosso non avrai il mio scalpo», il suo capolavoro assoluto, pellerossa e trappers si danno aspra battaglia pur rispettando le arcane regole di un'impietosa natura; in «Come eravamo» lo struggimento degli amori perduti si fonde meravigliosamente con l'impeto giovanile della ribellione; in «Yakuza» sotto la cruda patina dell'azione pulsano gli stessi e struggenti temi della fatale labilità dei sentimenti; mentre in «I tre giorni del condor» la denuncia delle storture della Cia è sostenuta da una scrittura registica di hitchcokiani vigore e rigore. Ormai stimato e celebrato, Pollack può svincolarsi dai ricatti degli studios e cominciare a produrre in proprio numerosi titoli, tra cui spiccheranno «Le mille luci di New York», «I favolosi Baker», «Presunto innocente», «Sliding Doors», «Ritorno a Cold Mountain» e il recentissimo «Michael Clayton». Nello stesso tempo le sue potenzialità commerciali vengono centuplicate dal clamoroso successo della commediola en travesti «Tootsie» e dal trionfo (anche agli Oscar, con sette statuette su undici nomination) del kolossal romantico-turistico «La mia Africa». Da questo momento in poi il suo dominio dei ritmi narrativi e recitativi tende a bastare a se stesso e non ha più interesse a mettersi alla prova nelle visioni stravolte o nei risvolti ambigui dei copioni prescelti («Havana», «Il socio», «The Interpreter»). È sempre un maestro, cioé, nell'identificare un personaggio nel contesto dell'inquadratura o nel trattare con eguale dinamismo prospettico un dialogo d'amore o un confronto d'idee (come ribadisce il documentario «Frank Gehry - Creatore di sogni», che è l'ultimo prezioso regalo fatto agli spettatori); ma la ragion d'essere delle sue storie non appare più autentica, necessaria e urgente come ai vecchi tempi.

ROBERTA RONCONI
Liberazione

Attore, regista, produttore. Con Sydney Pollack, morto lunedì sera nella sua casa a Los Angeles per un tumore diagnosticatogli nove mesi fa, se ne va una delle facce più espressive e uno dei nomi più presenti del miglior cinema americano degli anni settanta-ottanta. Nella sua filmografia ognuno può trovare pane per i suoi denti: dal romanticissimo e indimenticabile Come eravamo , al crudo Non si uccidono così anche i cavalli (nomination) , all'epico La mia Africa (7 Oscar, tra cui film e regia), all'irriverente e irresistibile Tootsie (nomination) alla sorprendente, per i tempi, revisione western Corvo rosso non avrai il mio scalpo . Generi diversi per film tutti a loro modo memorabili. Quella faccia poco americana Sidney Pollack l'aveva presa dalla famiglia del padre, ebreo russo immigrato ad inizio secolo. Un destino comune a molti della sua generazione, ma abbastanza duro da dargli la determinazione necessaria a scegliere una carriera, quella artistica, da giovanissimo e perseguirla fino alla fine. Sale sul palco prima dell'università, diventa presto attore e assistente alla regia, conosce John Frankenheimer che lo introduce nei primi studi televisivi. E' lì che Pollack inizia a farsi le ossa, regista di serie tv e telefilm western. Nel 1965, la Paramount gli affida la sua prima regia cinematografica La vita corre sul filo .

PRESSBOOK

Pollack ha diretto venti film, che hanno ricevuto un totale di 46 candidature agli Oscar. Lui stesso è stato nominato per tre volte, vincendo il premio per la miglior regia grazie a La mia Africa (Out of Africa), pellicola che si è aggiudicata sette Oscar, tra cui quello per il miglior film. Pollack nel 1982 ha ricevuto il New York Film Critics Award per Tootsie. Inoltre, ha vinto per due volte il Golden Globe come miglior regista e il National Society of Film Critics Award, il premio di miglior regista dell’anno della NATO, e diversi riconoscimenti ai Festival di Bruxelles, Belgrado, San Sebastian, Mosca e Taormina. Recentemente, ha ottenuto il John Huston Award da parte dell’Artists Rights’ Foundation della Directors Guild of America.

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