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Rassegna stampa di François Truffaut

François Truffaut è un attore francese, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 6 febbraio 1932 a Parigi (Francia) ed è morto il 21 ottobre 1984 all'età di 52 anni a Neully-sur-Seine (Francia).

IRENE BIGNARDI
La Repubblica

Bisogna incoraggiare i coraggiosi, anche se, secondo logica, essendo già coraggiosi, non avrebbero bisogno di incoraggiamenti. Ma, nel paesaggio non sempre brillante di un'editoria che cerca troppo spesso il successo facile, sapere che esiste una casa editrice come Le Mani dà il piacere di comunicarlo a chi condivide le stesse passioni.
Dal 1993, Le Mani (di cui non conosco i responsabili ma solo i libri) ha messo insieme una ragguardevole biblioteca di titoli dedicati al cinema: da John Ford a Orson Welles, da Ermanno Olmi a David Lynch, da Hollywood a Cinecittà, dal musical alla commedia italiana, spesso con tagli sofisticati, personali e avventurosi - come il recente libro, di cui ho già parlato, dedicato a 2001: Odissea nello spazio e affidato alla sapiente «follia con metodo» di Giuseppe Lippi. Ora, a seguire i recenti Quentin Tarantino di Simona Brancati e Il buio elettrico. Il cinema e la sfida del Novecento firmato da Liborio Termine (ma ci vorrà un po' di tempo per leggerlo, è sulle trecento pagine e ha due grandi protagonisti, D'Annunzio e Pirandello), è arrivato un piccolo libro stravagante e divertente (a patto che a leggerlo sia un'anima cinefila), Le grand noir Mancamenti e corpi addolorati nel cinema di François Truffaut, di Mauro Marchesini.

TERRENCE RAFFERTY
The New York Times

A Troublemaker Who Led a Revolution
FRANÇOIS TRUFFAUT’S “400 Blows” is now an official classic of French cinema, but when it had its premiere, at the 1959 Cannes Film Festival, it didn’t much look like one. And that was the point. Mr. Truffaut, then just 27, had spent his youth as an extremely combative critic for the journal Cahiers du Cinéma, in whose pages he regularly savaged the older, established French filmmakers who represented what was called the “tradition of quality.” (When he used the term, it didn’t sound like a compliment.)
So when, thanks to a prosperous father-in-law, he got the chance to direct a feature film, he undoubtedly felt some pressure to put his money where his big critical mouth had been: to show that a thoroughly French movie could be made without beautiful sets and costumes, exquisitely refined Comédie Française-style acting or a high-literary tone. “The 400 Blows” proved it, and in the best possible way. The film was so fluid, so graceful, so apparently natural, that it seemed not to have any agenda at all. It didn’t feel willful; it felt (as revolutions too rarely do) inevitable.

ANTONIO GNOLI
La Repubblica

Fra tutti i registi francesi, egli è stato non il più bravo (è sempre difficile stabilire delle graduatorie), ma certamente il più acuto nel descrivere e rappresentare la difficoltà di diventare adulti. Di crescere sapendo che ogni cambiamento spinge in una zona che ci rifiutiamo di conoscere e controllare. Il cinema di Truffaut è stato, al tempo stesso, una resistenza antropologica alla trasformazione e una spinta al cambiamento. Un problema di identità mossa e sfuggente. Dunque, che egli ha cercato di analizzare ossessivamente soprattutto attraverso le storie di Antoine Doinel interpretate da quel magnifico nevrotico e alter ego di Jean-Pierre Léaud. Quasi ogni suo film in modo di rappresentare la vita dentro e fuori il cerchio invisibile dell’infanzia. Ma anche un modo di confessarsi davanti al pubblico. Del resto, che quegli anni iniziali fossero per lui un modo di sentirsi ostaggio del passato non ne ha mai fatto un mistero.

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

È noto come Truffaut abbia tentato di organizzare il proprio immaginario secondo la forma e il pathos della cultura conosciuta e preferita, ma sappiamo percepire benissimo le crepe e le ferite che la realtà ha finito per imprimere in filigrana a questa missione in qualche modo pazzesca. Il peso specifico dell'opera è, ovviamente, importante: ma come anteporlo a un percorso umano, purtroppo stroncato in piena maturità, tra i più avvincenti e commoventi, balzacchiani che sia dato conoscere nell'arte dei nostri tempi? Da un'infanzia tormentata all'adolescenza che sfiora la delinquenza, passando per il fuoco cinéfilo da autodidatta; pupillo dell'intellettuale André Bazin e poi discepolo di giganti della cinepresa come Renoir, Cocteau, Hitchcock o Welles, François ha via via incarnato un individualismo feroce, l'accanita volontà di pensare con la propria testa, l'odio per le mode e le idee socialmente e politicamente corrette, il sostegno militante agli autori (di libri o film) prediletti, un bisogno momentaneo di far gruppo (il cartello degli ex critici dei Cahiers), poi nuovamente l'avventura solitaria della messa in scena e infine la nascita dell'équipe dei Films du Carrosse, con lo spirito familiare che vi regnò dal 1957 sino alla fine. Per cogliere il perfetto equilibrio che nei suoi film (da Jules et Jim a L’ultimo metrò, da Effetto notte a La signora della porta accanto) esiste tra l'anima d'autore e la vocazione popolare - incarnato in questo parlare di cinema per alludere alle proprie emozioni - serve dunque un'angolazione critica che recuperi i punti caldi dell'incrocio tra la finzione e la biografia. Il cinema stesso, che non può limitarsi alla facile verosimiglianza, perché la sua essenza non è riprodurre bensì rivelare. I corpi, come elementi primari, irriducibili del desiderio e specchi di trasformazione nell'implacabile trascorrere del tempo. Le donne, collegate agli elementi primordiali (acqua, luce, terra, fuoco) che ne sottolineano la superiorità sentimentale ed erotica. Lo sfondo e la scena, infine, che nonostante la precisione delle ricostruzioni finiscono col risultare sempre simbolici, perché proprio nel loro ambito si attiva il processo che fonde il vissuto con il raccontato, l'intellettuale con il sentimentale, l'ordinario con l'eccezionale.

FRANCESCO BOLZONI
Avvenire

Per fortuna non ci sono ancora in giro robot. Stanno costruendoli in Giappone, soprattutto giocattoli per bambini. E, all'anteprima della 20th Century Fox del film Io, robot, hanno mostrato un prototipo di una serie di domestici meccanici che fra cinquant'anni dovrebbero essere in tutte le case (occidentali, si presuppone). Per adesso solo nella fantascienza, letteraria e cinematografica, impazzano i robot. Isaac Asimov, bravo narratore (ma meno di Ray Bradbury che resta il numero uno della science-fiction), li ha studiati per bene dettando le famose leggi della robotica. Secondo lui un robot di onesta fabbricazione non dovrebbe mai nuocere all'uomo o consentire che il suo padrone subisca danni. E, invece, talvolta capita. Per esempio in Io, robot, film di Axel Proyas ispirato a un libro di Asimov appena ristampato. L'egiziano Proyas è il regista di The Crow - Il corvo e di Dark City che, al loro primo apparire, vennero collocati in una categoria che si allunga sempre più: i film di culto. Proyas è, dunque, specializzato in racconti ambientati in un mondo parallelo al nostro, sempre piuttosto inquietante. Perturbanti, del resto, dovrebbero essere le città del futuro - come la Chicago del 2035 da lui ricostruita con vistosi effetti scenografici - con folle ammassate nelle strade e, ovviamente, tantissimi robot. I robot di Proyas mi hanno ricordato i manichini metafisici di De Chirico. Unica variante: i visi da bambini con occhi stupefatti che ci fissano e promettono poco di buono. Privo di ogni tenerezza nei loro riguardi, a causa di un trauma, è il poliziotto Sponner (Will Smith) che, a dispetto dei consigli di una esperta in robotica che non accetta neppure l'idea che un robot possa essere pericoloso, si fa tentare da una lotta a oltranza ai robot. E loro si difendono. Vediamo lo schermo riempirsi di robot: in marcia, in fuga, in attacco, da un grattacielo all'altro. E l'impavido Sponner dietro… Gli effetti speciali messi a punto dalla squadra coordinata da Proyas sono notevoli. Il gioco un poco diverte e un poco annoia. E poco meraviglia: sono finiti i tempi in cui ci si incantava in Il pianeta proibito all'entrata in scena del divertente robot Robby. Il quale non voleva insegnare niente agli umani. Si limitava a fare il suo lavoro di bravo domestico. I robot di Proyas, al contrario, salgono in cattedra. Gli umani sono strampalati e impulsivi? Possono diventare temibili e, di sospetto in sospetto, di errore in errore, combinare dei guai, chissà forse anche distruggere il mondo? Allora meglio tenerli sotto controllo. E assumere il comando. Così nell'ultima sequenza del film vediamo il capogruppo del popolo di acciaio salire su un poggio e arringare una folla di suoi simili. Pronti alla rivolta, a fin di bene naturalmente. Dove sono andate a finire, ci si chiede, le famose leggi di Asimov sull'obbedienza dei robot?

ENRICO MAGRELLI
Film TV

Nasce nel febbraio del 1932, è figlio unico e non desiderato, e i suoi primi anni, lontani dalla madre che imparerà a detestare, li trascorre tra le balie e la nonna Stagioni scandite dalle letture, dalle passeggiate, dalle prime esperienze scolastiche, dalle vacanze in Bretagna. Alla morte della nonna si ritrova in casa della madre e del patrigno, abbandonato a se stesso in un mondo indifferente. Il piccolo François è ciclotimico, irritabile, sensibile, vivace, permaloso, malaticcio. La “famiglia” lo fa sentire un disturbo, un ingombro e a salvarlo saranno l’amicizia con Robert Lachenay, le furiose e avide letture (Balzac e Proust insieme agli autori di sterminate collane editoriali) e una precoce e feconda cinefilia: “I miei primi duecento film li ho visti marinando la scuola, o intrufolandomi a sbafo nei cinema. Quindi pagavo questo grande piacere con forti mal di pancia, lo stomaco annodato, la paura persistente, devastato da un senso di colpa che non poteva che aggiungersi alle emozioni procurate dallo spettacolo”. Il libro, con un lunghissimo e dettagliato flashback e qualche dissolvenza, ci accoglie, senza lo spiare o lo sbirciare degli ospiti non invitati, nei giorni fitti e tumultuosi di una giovinezza da cui, nel secondo dopoguerra, bisogna congedarsi rapidamente. Il primo amore fallimentare, i cineclub, i debiti, l’incontro con André Bazin, il centro di osservazione minorile in cui viene rinchiuso, l’esperienza di cronista mondano, le prime prove di critico cinematografico, il sodalizio con i futuri giovani turchi, la genesi di una vocazione o meglio la realizzazione di una necessità e, infine, il cinema che sembra sostituirsi a tutto. La maturità e l’ultimo viaggio di un uomo-cinema sempre consapevole di quello che fa: “Non sono un innovatore, dato che faccio parte dell’ultimo drappello che crede alle nozioni di personaggio, di situazione, di progressione, di peripezia, di falsa pista, in una parola della rappresentazione”. Se una vita non basta, un’infimzia, come quella di Truffaut, è più del dovuto.

ADELIO FERRERO
Cinema Nuovo

Parlare oggi di "Nouvelle Vague" potrebbe apparire agli occhi di qualcuno, attentissimo al variare delle mode e delle parole d'ordine che le accompagnano, anacronistico almeno quanto il non parlarne ieri, quando tutti, o quasi, lo facevano. L'esperienza, infatti, è unanimemente archiviata. Sono rimasti, dunque, non più di due o tre nomi, i soli del resto sui quali era giusto puntare sin dall'inizio: Truffaut, Godard, Resnais. Anche questo è abbastanza scontato. Ma non altrettanto, forse, la constatazione di quanto la sopravvivenza artistica e culturale di questi autori sia legata alla necessità di fare i conti con alcune ragioni ignorate o duramente respinte dagli interessati in anni non lontani.

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Il 21 ottobre 1984, morì a Neuilly Francois Truffaut: era malato da tempo, aveva diretto l’ultimo film nel 1982, subito dopo si era sposato con la sua star, Fanny Ardant, bruna, ardente segretaria dalle gambe lunghissime in Finalmente domenica!, e con lei aveva avuto una bambina. Il 21 ottobre 1984, il cinema perse un innamorato, un poeta, un cantore un pòtriste e un pòironico della vita "normale", che però sapeva tingere cupamente di nero (La sposa in nero, 1967, La mia droga si chiama Julie, 1969), marcare con il tempo jazz spezzato di un gangster film (Tirate sul pianista, 1960), colorare di follia amorosa e di melodramma (tanti, da Adele H., 1975, a La signora della porta accanto, 1981). Sembra retorica: ma davvero la morte di Truffaut (a 52 anni e con chissà quanti film ancora negli occhi) ha colpito il popolo degli appassionati di cinema con un’intensità riservata, forse, solo a un altro regista, Orson Welles. Con Welles tutti abbiamo perso un padre geniale, imprevedibile, un pòtruffaldino; con Truffaut tutti abbiamo perso un fidanzato, un corteggiatore, un ideale fratello maggiore, che forse sapeva comunicare con altri mondi e che certamente ci aveva trasmesso parte della sua passione per il cinema.

GLORIA SATTA
Ciak

Se Truffaut fosse vivo, andrebbe a vedere tutte le opere prime in circolazione: «François è stato uno spettatore curiosissimo e dal film d’esordio riusciva sempre a capire se un regista facesse cinema per necessità o per opportunismo», sorride Madeleine Morgenstern, che del maestro francese fu sposa, collaboratrice, amica amatissima fino alla fine. Fino a quel 21 ottobre dell’84, quando l’autore di I quattrocento colpi , sopraffatto dal cancro e ormai legato a Fanny Ardant, decise di morire nell’elegante ex casa coniugale in cui aveva girato La calda amante e nella quale la prima moglie ancora abita. Se Truffaut non se ne fosse andato prematuramente, a soli 52 anni e dopo aver diretto 21 film, sarebbe rimasto «sorpreso» da pellicole americane recenti come Elephant e Lost in translation «che non hanno niente a che fare con il gigantismo hollywoodiano, quel cinéma-robinet che va per la maggiore». Se Truffaut lavorasse ancora, e regalasse le sue emozioni a questo mondo schiantato dalla violenza e travolto dalla volgarità, potrebbe verificare l’attualità della sua ”lezione”: «Sono sempre tanti gli autori che, come François, girano film spinti da una necessità non solo estetica ma morale», dice l’antica compagna del regista. Nel ventennale della morte di Truffaut, Madame Morgenstern (che dal marito ebbe due figlie, Laura e Ewa) sarà la protagonista delle numerose celebrazioni previste ai festival, nelle sale, alla tv, sulla stampa. Il primo evento è la retrospettiva completa organizzata a Napoli dal 24 al 3 aprile da Françoise Pieri di France Cinéma con la collaborazione di CinEuropa. Insieme con la rassegna dei 21 film (attesa in altre città italiane), ad accompagnare gli omaggi a Truffaut sarà il libro di interviste inedite di Aldo Tassone: François Truffaut, professione cinema , ritratto totale, inaspettato e appassionante del regista di Effetto notte attraverso le sue stesse parole (scaturite da 17 ore di conversazione) e quelle di Madeleine, delle figlie, dei collaboratori. «Se penso a François», racconta la signora Morgenstern, «rivedo innanzitutto il nostro primo incontro avvenuto nel ’56 alla Mostra di Venezia dove mi aveva mandato mio padre Ignace, produttore». Non è amore a prima vista, fra i due si stabilisce piuttosto un’amicizia cementata dal comune interesse per il cinema. Dodici mesi più tardi, Truffaut chiede però la mano di Madeleine, che gli confida di aver ricevuto la proposta di matrimonio da un altro corteggiatore. Il futuro regista si dichiara proprio come avrebbe fatto il personaggio di un suo film: «Mi disse: non può sposare quello là, perché lo tradirebbe con me. Se sposa me, invece, non mi tradirà con lui», racconta lei. Segnato da un’infanzia “dickensiana” costellata di drammi familiari, adottato dal leggendario critico André Bazin, François esordisce come recensore dei Cahiers du Cinéma nei primi anni Cinquanta. Con gli amici Godard, Rivette, Chabrol, Rohmer fonda poi la ”Nouvelle Vague”, il movimento che sfida la tradizione del ”cinéma de papa”. Ma resterà sempre contrario ad ogni settarismo: «I film devono essere destinati a tutti, non a un’ élite », dichiara a Tassone. Truffaut regista esplode nel ’59 con l’opera prima I quattrocento colpi . I suoi miti sono Chaplin, Rossellini, Hitchcock. Considera Kubrick «un ingegnere uscito dal Politecnico, dotato ma pur sempre un fotografo» e adora Fellini perché, a differenza di Bergman, «ama la vita». In politica si definisce «un irriducibile individualista, o meglio quello che i gauchistes più detestano al mondo: un socialista riformista». E rivela di aver rifiutato la proposta Rai di girare un film su Gesù: «Sarebbe stato disonesto da parte mia perché non sono credente. La mia religione è il cinema e Charlie Chaplin il mio Messia». Dopo Effetto notte , che nel ’73 vince l’Oscar, si consuma la rottura con Godard che spedisce a Truffaut una lettera provocatoria e violentissima alla quale il destinatario risponde con altrettanta durezza. In gioco è la diversa concezione del cinema (e della vita) che separa ormai i due amici, destinati a non parlarsi mai più. «Quello scontro fu una falsa polemica. E di natura squisitamente privata», dice Madeleine. «E’ stato Jean-Luc a divulgare le lettere, nel ’90. I contatti tra loro si chiusero quando Godard si politicizzò...». I due “partiti”, secondo Madame Morgenstern, esistono ancora? «Sì, anche oggi il cinema si divide in godardiani e seguaci di Truffaut: i primi hanno un’impostazione più filosofica, estetica; gli altri puntano sui sentimenti». Qual è la prima emozione che la coglie quando pensa al suo compagno? «La voglia di ridere. Il senso dell’umorismo di François era grande e paradossale: emergeva anche nei momenti più tragici, nella vita come nei film». La migliore descrizione del regista? Madeleine non ha dubbi: «Un uomo che ha dedicato al cinema tutta la sua volontà, il suo coraggio, la sua energia, la salute». Una consacrazione mistica... «Non direi, Truffaut non era un tipo religioso. Semplicemente, il cinema era la sua scelta, la sua ragione di vita».

EMILIANO MORREALE
Film TV

François Truffaut è morto vent’anni fa. questo significa, tra l’altro, che tutti gli spettatori e gli appassionati sotto i 35 anni hanno in pratica recuperato i suoi film dopo la morte del regista. In vita, Truffaut era solo uno dei registi della nouvelle vague, e non il più in vista: negli anni 60 le proposte più radicali venivano piuttosto da Godard, e i film degli anni 70, Effetto notte (1973 o Adele H. (1975), lo avevano rilanciato come un regista neoclassico, una specie di bandiera della “qualità europea”, mentre nel frattempo le platee di tutto il mondo lo vedevano recitare in Incontri ravvicinati del terzo tipo. In Francia, L’ultimo metrò (1980) lo avrebbe incoronato con una valanga di César, facendolo anche rappacificare con i “Cahiers du Cinéma” che lo avevano abbandonato negli ultimi tempi.
Ma oggi non è tanto il suo lato solare e mainstream ad appassionare, e i motivi per cui egli è amato non sono sempre simpatici e condivisibili, e potrebbero rischiare anni di renderlo indigesto alle generazioni a lui successive. L’Italia ha con il tempo sorpassato la Francia, nel culto tributato al regista. Cicli televisivi e ristampe in video hanno sancito una fedeltà alla sua opera perfino sospetta, perché in Italia sono in tanti a sentirsi figlioletti cisalpini del suo cinema, declinato in varianti particolarmente consolatorie e microdrammatiche.

ENRICO NATTA
Famiglia Cristiana

A una famiglia sgangherata e a una madre che lo trascurava, l’adolescente François Truffaut aveva rimediato cercando il calore di un mondo immaginario, capace di sostituire la carenza dell’affetto familiare con i sogni dei grande schermo. Fu questo grande amore per il cinema a far sì che le porte dei riformatorio si chiudessero alle sue spalle. Il maldestro tentativo di dar vita a un cineclub si concluse con una serie di denunce per insolvenze burocratiche e debiti non pagati. Ma la notizia di un ragazzino finito dietro le sbarre per passione cinefila commosse André Bazin. André Bazin dirigeva i Cahiers du cinéma, che conduceva un’aspra battaglia contro il “cinema di papa”, termine con cui si liquidava un cinema vecchio, sclerotico, mummificato. Al “cinema di papà” i giovani dei Cahiers intendevano sostituire un cinema d’autore, personale, libero da condizionamenti produttivi, con un linguaggio svincolato da regole accademiche e ingessate convenzioni. In questo clima di fermento culturale, Truffaut condivise le esperienze di Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, che dalla militanza teorica dei Cahiers passarono ben presto alla prassi dei set. Per Truffaut l’occasione arrivò quando investì la dote della moglie in I quattrocento colpi (1959), in cui l’esperienza di un’adolescenza disagiata si traduceva in un tenero e lucido spunto poetico. Un buon investimento, se si considera che in meno di 24 anni seguirono altri 21 film, fra cui Jules e Jim, Fahrenheit 451, Il ragazzo selvaggio, Adele H, una storia d’amore, Gli anni in tasca. Anche i film successivi come La calda amante (1964), Baci rubati (1968) e L’amore fugge (1979) fino all’ultimo, Finalmente domenica (1984) rivelano il costante riferimento alla quotidianità, senza mai trascurare le influenze dei cinema di un tempo, assorbito e trasformato in uno stile personale e inimitabile. Sempre impregnato di malinconica amarezza e di quell’ironia che Truffaut chiamava “il nutrimento della vita”.

FRANCO TASSONE

Cinquantadue anni, ventuno film, François Truffaut si spegneva vent’anni fa per un tumore al cervello. La lucidità, l’umorismo (un aspetto finora poco rilevato) lo assistettero fino all’ultimo. Ad un amico che, facendogli visita in ospedale pochi giorni prima della morte, gli chiese con comprensibile imbarazzo «posso fare qualcosa per te?», François rispose, ironicamente: «prestami una pistola, te la rendo lunedì!».
Come ricordare l’autore di Jules e Jim nel ventennale della prematura scomparsa? Ridargli la parola ci è parso il modo più eloquente e diretto. Su iniziativa di CinEuropa, organizzato dalla Provincia di Napoli e dall’Agenzia metropolitana napoletana per la cultura, esce in questi giorni un prezioso libro - prefazione di Paola Malanga - di interviste inedite con e su François Truffaut, a cura del sottoscritto: François Truffaut, professione cinema (260 pagine) accompagna la retrospettiva Truffàut, curata da Françoise Pien per CinEuropa (Napoli, fino a oggi), in collaborazione con FArci Movie e France Cinéma Firenze; da ottobre, la retrospettiva visiterà altre sei città italiane (tra cui Firenze, dal 2 all’8 novembre).

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Romantico, come uno dei suoi maestri (Jean-Renoir), segnato da un'infanzia e da una adolescenza infelici (genitori distratti, scuole repressive), cinefilo per ribellione, in un periodo (gli anni '50) in cui nasce la cinefilia, critico fine e appassionato (come tutta la nouvelle vague lotta contro il «cinéma de papa»), vince a sorpresa il premio della messinscena al festival di Cannes 1959 con il tenero e straziante I quattrocento colpi, autobiografia quasi allo stato puro, per interposto attore (colui che lo accompagnerà per lungo tratto, Jean-Pierre Léaud). È nato un regista autentico. Divaga al modo dei generi hollywoodiani (Tirate sul pianista, 1960), si china sulle pene d'amor perduto, delicatamente (Jules e Jim, 1961), e presto si aggrappa a un altro maestro suo, l'Hitchcock che nel 1962 intervisterà a lungo e a fondo: il giallo entra nella sua testa, affiancando senza stridere il gusto romantico, e produce La calda amante (1964), La sposa in nero (1967), La mia droga si chiama Julie (1969).

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