Nino Manfredi (Saturnino Manfredi) è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, è nato il 22 marzo 1921 a Castro del Volsci (Italia) ed è morto il 4 giugno 2004 all'età di 83 anni a Roma (Italia).
Laureato in Giurisprudenza, allievo dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica, esordì come attore teatrale al Piccolo di Roma, incontrando anche Eduardo De Filippo. Di non minore interesse, le sue esperienze presso il Piccolo di Milano, dove recitò con attori come Vittorio Gassman ed Evi Maltagliati. Nello stesso tempo, come doppiatore, prestò la sua voce all'attore francese Gérard Philipe, ma anche a colleghi italiani come Renato Salvatori e Marcello Mastroianni. Dopo avere formato un trio con Paolo Ferrari e Gianni Bonagura, ottenne un vivissimo successo di pubblico e di critica, lavorando nel teatro di rivista, come creatore di macchiette comiche, tratteggiate con bravura e fine efficacia scenica. Nel 1956 comparve in televisione in uno sceneggiato di Anton Giulio Majano, L'alfiere; da allora, la sua presenza sul piccolo schermo divenne sempre più significativa e costante, in molteplici campi, dagli spot pubblicitari per il caffè Lavazza, alla conduzione di Canzonissima (1959-1960), in cui diede vita all'indimenticabile macchietta del barista di Ceccano, reso noto dalla celebre battuta "Fusse che fusse la vorta bbona". Di ben altro impegno, la partecipazione al Pinocchio di Luigi Comencini, in cui interpretò il ruolo di Geppetto (1972). Comparve anche, come umano e misurato commissario di polizia, nel serial Un commissario a Roma, per riprendere poi, nel 1997, in età ormai matura, i panni di un tutore dell'ordine in pensione, nella fortunata serie Linda e il brigadiere, a fianco di Claudia Koll. Tuttavia, la maggiore notorietà derivò a Manfredi dal suo impegno nel cinema, in cui esordì nel 1949, interpretando Torna a Napoli (Mario Sequi) e apparendo in seguito, fino al 1960, in numerosi altri film, alcuni dei quali degni di attenzione, come Camping (1958, Franco Zeffirelli), e Audace colpo dei soliti ignoti (1959, Nanni Loy). In quello stesso anno poté anche dimostrarsi attore completo, multiforme, di molteplici possibilità drammatiche, interpretando il ruolo di protagonista ne L'impiegato (1959, Gianni Puccini), un film a cui aveva lavorato, in collaborazione, anche al soggetto e alla sceneggiatura. In esso, Manfredi delineò con maestria il modesto e grigio personaggio di un impiegato, che, solo con la sorella nubile e ormai non più giovane e con il gatto Romoletto, non trova altro conforto alla sua misera quotidianità che abbandonarsi, nella sua solitaria cameretta, all'accanita lettura di rotocalchi e racconti di avventure, sprofondando poi nel sonno e vivendo, in dimensione onirica, una vita alternativa, che lo vede protagonista di mirabolanti peripezie, accanto a donne bellissime e fatali. Dal 1960 in poi, Manfredi diede vita a personaggi sempre più interessanti e psicologicamente approfonditi, delineati con viva umanità, anche se talora non privi di un certo manierismo. Tra le sue più riuscite caratterizzazioni vanno ricordate quella del carabiniere ne Il carabiniere a cavallo (1965, Carlo Lizzani), quella del giovane Omero, scambiato per un gerarca fascista, in Anni ruggenti (1962, Luigi Zampa), quella di Stefano ne Il gaucho (1964, Dino Risi), quella del protagonista de Il padre di famiglia (1967, Nanni Loy), e parecchie altre, in film comico-brillanti o in episodi di film antologici. Non è possibile in questa sede citare tutta la sua ricchissima filmografia, che comprende numerosi capolavori, quali La ballata del boia, Made in Italy, Il padre di famiglia, Girolimoni, Pane e cioccolata, C'eravamo tanto amati, Cafè Express, Brutti, sporchi e cattivi. Di particolare rilievo, l'episodio L'avventura di un soldato, da lui interpretato e diretto nel film L'amore difficile (1962), in cui riuscì, con mezzi limitatissimi, senza dialogo ma con mimica eccezionale, a dar vita al personaggio del soldato, creatura letteraria di Italo Calvino, e il film Per grazia ricevuta, una delle più interessanti e problematiche opere di argomento religioso prodotte in Italia.
Se la generazione del dopoguerra ha voluto restare giovane per sempre, anche per recuperare gli anni perduti, Nino Manfredi questo dono lo ha ricevuto a piene mani, chissà come avrà fatto Luigi Comencini a vedere in lui il padre per eccellenza, Geppetto, in quel latin lover ironico, laureato, aperto e anche di idee avanzate. Il barista di Ceccano che diceva la battuta «Fusse che fusse la vorta bona» e faceva impallidire i funzionari Rai che tentarono anche di eliminarlo da Canzonissima `59 con motivi insulsi (non ci riuscirono) perché diceva la sua su tutto. Fu un momento alto di successo popolare, arrivato dopo almeno dieci anni di teatro.
Avanguardista a quindici anni, si ammalò di pleurite dopo una lunga escursione sulla sua pesantissima bici, ma in ospedale si costruì un banjo con la sedia e quello fu l'inizio della sua fortuna. Oltre a non essere preso dai tedeschi quando si nascose in montagna per un anno dopo l'8 settembre. Perché Manfredi le cose non le ha mai fatte a metà, o bene o niente, così come insegnava il padre maresciallo che voleva far laureare i figli e ci riuscì. Il suo debutto sul palco della chiesa della Natività di via Gallia fu con l'orchestrina dei chitarristi dell'ospedale, lo vide Carlo Campanini che lo voleva subito con sé, ma lui non accettò perché doveva studiare. Frequentava la facoltà di legge e contemporaneamente all'Università, faceva l'assicuratore, il bookmaker, lavorava alle poste per pagarsi gli studi. Solo dopo la laurea in legge entrò in compagnia, Maltagliati-Gassman, poi Strehler e Eduardo che vedeva in lui un successore: ma ancora una volta disse di no, onoratissimo. Il regalo che gli fece Eduardo fu proprio quello di tirargli fuori quel modo inedito di parlare, il dialetto ciociaro, lui che era nato a Castro dei Volsci in provincia di Frosinone nel 1921, da famiglia di emigranti.
Il cinema o meglio il teatro italiano poteva accettare il napoletano, al limite il veneto (e lui era un perfetto Arlecchino, lo si vedrà con Sordi in Venezia la luna e tu), il ciociaro era fuori target. Ma non era ancora arrivato il tempo del cinema, prima c'è stata per Manfredi tanta rivista con le sorelle Nava, Billi e Riva ed anche Wanda Osiris, la radio, il doppiaggio (doppia Gérard Philippe, perfino Mastroianni per dargli un tono più brillante, qualche volta si inserisce nei dialoghi di Sordi). Il cinema allora non era Il posto delle fragole, raccontava ed eccolo gondoliere, campeggiatore, guardia e ladro, spesso in compagnia della nostra diva più emancipata, Marisa Allasio. Oppure c'era Germi che lo avrebbe voluto per Alfredo Alfredo, poi gli misero l'aut aut dell'attore americano e prese Al Pacino, o anche Billy Wilder che proprio non capiva perché si ostinava a non voler recitare in inglese (gli sarebbe venuto da ridere, diceva) lo considerava l'attore italiano più internazionale.
Il miracolo economico, chi lo ricorda più, ce ne sono stati almeno altri quattro. Eppure basterà rivedere i suoi film per riviverli e ci ritroveremo nell'epoca del grande cambiamento economico e dei costumi, meglio se con la colonna sonora di Armando Trovajoli. Nino Manfredi è stato il volto nuovo di quell'epoca, non uno sfaccendato, ma un impiegato, o più spesso ingegnere, architetto, pubblicitario (Io la conoscevo bene di Pietrangeli) con del tempo da dedicare ai suoi problemi personali, per lo più erotici. Nell'Italia puritana e cattolica propone l'adulterio che avviene per gioco (Adulterio all'italiana di Pasquale Festa Campanile `66) così come in Straziami ma di baci saziami (Dino Risi, `68) avrà perfino la benedizione dell'ex marito diventato frate.
Certo un pizzico di tendenze truffaldine lo rende più italiano, ma può interpretare con lo stesso divertimento il Carabiniere a Cavallo e compiere L'audace colpo dei soliti ignoti nella parte di Ugo piede amaro, meccanico (in ogni caso l'unico che nel gruppo abbia un mestiere), film che nel nostro cinema segna simbolicamente la fine dell'epoca dei giochi per passare a cambiare volto al paese e in seguito Il tenente dei carabinieri e I Picari.
La differenza lo fa quel suo sorriso ironico che sarà come un filo diretto tra lui e il suo pubblico per sempre, anche attraverso la pubblicità che lo ha monopolizzato per anni (Penna Bic, Ignis, Locatelli con la Ralli, e tanto Caffè Lavazza) e che gli ha fatto scegliere i soggetti sulla base di quello che la gente si aspettava da lui. Una scelta tanto oculata che lo ha mantenuto per anni in cima alle classifiche dei più amati dal pubblico ed eccolo nei grandi successi di Dino Risi: Operazione San Gennaro, Straziami ma di baci saziami, e i sette personaggi di Vedo nudo, poi è Pasquino nel 1969 (Nell'anno del signore, di Luigi Magni), e negli anni `70 fa meno cinema ma con titoli che restano come Pane e cioccolata di Franco Brusati, C'eravamo tanto amati di Scola (1974) film che farà scuola sull'importanza per gli italiani di ascoltare le belle ricapitolazioni storiche («Volevamo cambiare il mondo, ma è stato il mondo a cambiare noi») e di guardarsi bene in faccia (Sporchi, brutti e cattivi, del 1976).
Da Il Manifesto, 4 Giugno 2004
Avevamo conosciuto Manfredi ad un festival di Mosca, dove sia lui che Sordi partecipavano come registi (lui per Nudo di donna, Albertone per Io so che tu sai che io so); qualche tempo dopo l’avevamo ritrovato, e lungamente intervistato, durante una straordinaria Festa nazionale dell’Unità in quel di Roma, all’Eur, dove ci aveva confessato un sincero trasporto per quello che allora nell’84 si poteva ancora chiamare «il popolo comunista». In entrambe le occasioni non era stato facile parlare di cinema. Aveva altri valori: prima di tutto, un fortissimo senso della famiglia, che lo portava ad elogiare la moglie Erminia per qualunque cosa buona avesse fatto nella vita. Quando doveva parlare della propria formazione, citava sempre due uomini. Il primo era il nonno, un ciociaro che era emigrato in America senza mai vederla perché di giorno lavorava in miniera e di notte dormiva: il nonno che aveva inculcato nel giovane Saturnino (era il suo nome completo) il senso del risparmio, dell’appartenenza alla terra, delle radici («In casa non c’era il bagno raccontava sempre Nino e il nonno ci diceva: oggi fatela sotto il pero, domani sotto il melo, così li concimate. Quando mi trasferii a Roma per studiare all’Accademia gli spiegai cos’era il water: nonno, gli dissi, in città la gente la fa in una tazza, poi tira l’acqua e finisce nelle fogne. Ammazza che tempi, rispose lui, se butta via tutto!»). Il secondo era Orazio Costa, che fu suo maestro di recitazione all’Accademia d’arte drammatica e un giorno gli diede l’imprimatur, dopo una recita di una tragedia shakespeariana (Amleto, se la memoria non ci inganna) che il giovane Nino aveva interpretato con grande serietà, ma di fronte alla quale i compagni di corso avevano riso. «Tu hai un grande dono disse Costa all’alunno umiliato e offeso sai far ridere. Di far piangere son capaci tutti, ma far ridere riesce a pochi».
Chissà se Nino si consolò davvero, a quelle parole: sta di fatto che i suoi inizi nel cinema furono laboriosi, e scorrere la sua filmografia nei primi anni ’50 è, a posteriori, sconcertante. Manfredi lavora in decine di film, quasi tutti dimenticati. Qualche titolo? Monastero di Santa Chiara, La prigioniera della torre di fuoco, La domenica della buona gente, Canzoni canzoni canzoni, Susanna tutta panna, Pezzo capopezzo e capitano, Guardia ladro e cameriera, una particina in Totò Peppino e la malafemmina: tutta roba che va dal ’49 al ’58, un periodo in cui Manfredi non è quasi mai protagonista e in cui le uniche imprese di spicco sembrano essere Lo scapolo di Pietrangeli (1955), in cui per altro il protagonista è Sordi, e il doppiaggio di Franco Fabrizi (ascoltate bene, la voce è sua) nei Vitelloni di Fellini, altro film in cui è il collega e futuro amico-rivale Sordi a ritagliarsi un ruolo ben più importante.
Finalmente protagonista
La svolta arriva nel ’59: L’impiegato di Gianni Puccini è un ottimo film, e per Nino è finalmente un bel ruolo da protagonista; il Piede Amaro (esperto di motori) di Audace colpo dei soliti ignoti è un personaggio di grande comicità e, al tempo stesso, di dolente umanità (è separato, vive con la suocera, osserva da lontano il figlioletto che la moglie gli sottrae). Per di più, il film è un seguito di grande spessore, degno del capostipite I soliti ignoti, in cui Manfredi affianca Gassman, Salvatori e i mitici Capannelle e Ferribotte prendendo il posto che nel primo film era del maritino (anch’egli con pupo a carico) Mastroianni. «So’ cretino e so’ felice più cretino ancora chi me lo dice» è una delle sue battute che entrano nel regno dei tormentoni, un po’ come il «fusse che fusse ‘a vorta bbona» che lo rende popolarissimo, in quello stesso 1959, grazie a una storica Canzonissima condotta a fianco di Delia Scala e del compagno d’Accademia e di bisbocce Paolo Panelli. Al cinema e alla tv si accosta, amatissimo e glorioso, il teatro: Garinei & Giovannini lo vogliono come primigenio Rugantino nella prima e meravigliosa versione del più grande musical italiano di sempre.
Da poco lo avevamo rivisto in tv nel ruolo di anziano omosessuale a fianco di Lino Banfi nel film televisivo Un difetto di famiglia. Magro, elegante, vestito di bianco, con un cagnolino in braccio, disegnava il ritratto di quella che rischiava di essere una macchietta con una assoluta naturalezza di gesti, priva di tic e mossette . Lui e Banfi, che nella finzione erano fratelli rivali, si sfidavano in un gioco d'attori che li avvicinava sempre più, fino a diventare quasi un'unica persona con due scenari di vita opposti. Manfredi, però, alla fine ne usciva vincitore, sia per essere riuscito a farsi amare dal fratello, sia, soprattutto, per essere riuscito a farsi preferire dal pubblico. Tanto da far desiderare a qualunque spettatore di avere un fratello così «diverso» e uguale a lui.
Del resto, da tempo ormai eravamo abituati a considerare Manfredi, per le sue partecipazioni televisive, come un consanguineo, uno zio o un nonno. Con i suoi bellissimi maglioni di Missoni, con l'aria furba e bonaria di chi ha voglia di raccontarsi, prima che gli altri raccontino lui. Lo rivediamo seduto in poltrona nei talk show, nelle occasioni in cui aveva ricordato colleghi scomparsi o aveva partecipato in compagnia della sua intera famiglia. Aveva cominciato a mettere i puntini sulle i. Parlava della morte con apparente tranquillità, come se fosse anche più vecchio di quel che era. Si compiaceva ancora, ogni tanto, di qualche citazione dal personaggio che aveva fatto di lui, consumato attore di teatro e di cinema, regista raffinato, una popolarissima maschera televisiva. Con quel 'fusse che fusse la vorta bbona' che risaliva alla Canzonissima del 59-60, edizione di grande successo affidata al trio Panelli-Scala-Manfredi, più che attraverso i tanti film interpretati, Manfredi era diventato un volto della commedia all'italiana: il burino, il cafone, il contadino dal cervello fino e dalla parlata irresistibile. Quel ruolo è rimasto per sempre la sua identità televisiva anche quando, da anziano, giocava coi suoi ricordi, circondato dai nipotini veri e sotto gli occhi di quei milioni di nipotini che siamo stati tutti noi. Fin dagli anni 70, in tante apparizioni televisive, aveva ricalcato quel personaggio stralunato e insieme iperrealistico, roteando gli occhi e le parole con soddisfazione, come se gustasse il sapore della appartenenza a una memoria comune. Come quando recitò il grande ruolo di Geppetto nel Pinocchio di Comencini, cammeo recitato un anno dopo (1972) il suo grande debutto alla regia cinematografica con Per grazia ricevuta. Ma, per ritrovarlo in televisione in ruoli d'attore e non di ospite narrante, bisogna arrivare agli anni 90, che videro Manfredi protagonista di lunghe serie gialle come poliziotto (in Un commissario a Roma), e poliziotto pensionato (Linda e il brigadiere), ma sempre padre di famiglia. Non a caso a dirigerlo era spesso il figlio Luca, cosicché i personaggi, anzi il personaggio di Manfredi, risultava sempre improntato al calore della familiarità e alla testardaggine dell'età. Ed era talmente se stesso che nella prima puntata di Linda e il brigadiere si faceva un pessimo caffè, per prendere in giro quell'altro se stesso che aveva per anni fatto pubblicità a una famosa marca, concludendo tutti gli spot con il tormentone: «Il caffè è un piacere, se non è buono, che piacere è?».
Perché Manfredi, in tv, sia che facesse pubblicità, sia che fosse intrattenitore e ospite, sia che interpretasse ruoli diversi, era ormai talmente Manfredi e talmente bravo, che un po' oscurava e un po' trascinava gli altri interpreti. Faceva scuola ed era arrivato al punto, come i grandi, come i più grandi tra gli attori, che non aveva più bisogno di L’Unità, 45 Giugno 2004
Albe', lasciami un posto in Paradiso, così continuiamo a scherza', sennò m'annoio...". Così Nino Manfredi aveva salutato Alberto Sordi nel giorno della sua scomparsa. "Ora sono rimasto solo io", aveva detto, quando se n'era andato l'ultimo compagno con il quale aveva condiviso, seppure lungo strade diverse, il viaggio che aveva reso grande il cinema italiano. Una strada lunga, per Manfredi, percorsa fino a La luz prodigiosa, il film di Miguel Hermoso che gli ha fatto raccogliere l'ultimo, appassionato abbraccio dal pubblico della Mostra del cinema di Venezia, a settembre del 2003. Che lo ha consacrato anche, e ancora una volta, con il Premio Bianchi consegnato nella mani della moglie Erminia.
Il cinema per tutta la vita. Ma non l'unico banco di prova per quella vena comica e genuina, alimentata dalle origini "burine" mai dimenticate, anzi, valorizzate, quelle radici ciociare delle quali aveva conservato la schiettezza rustica, l'approccio disincantato con le persone e le cose, la testardaggine. Un attore squisitamente italiano, premiato dalla stima del cinema internazionale: nell'estate 2003, al Festival di Mosca, La fine di un mistero, in cui Manfredi interpreta il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca, era stato premiato come miglior film.
Saturnino Manfredi nasce il 22 marzo del 1921 a Castro dei Volsci, in provincia di Frosinone. Dopo una laurea in giurisprudenza (presa, diceva, "solo per fare contenti mamma e papà") passa direttamente all'Accademia d'arte drammatica di Roma. Poi, alla metà degli anni Quaranta, tenta la fortuna sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Milano con Shakespeare e Pirandello. Ma anche nei teatri romani, e con Eduardo, ed Orazio Costa. Poi, l'incontro con il teatro di rivista. E il cinema.
La popolarità arriva alla fine degli anni Cinquanta, grazie ad una serie di film in cui interpreta malizie e ingenuità dell'"italiano del boom": Tempo di villeggiatura (1956), Susanna tutta panna (1957), Guardia, ladro e cameriera (1958). Intanto, nel 1955, incontra la donna che gli resterà accanto per tutta la vita: Erminia Ferrari, bellissima indossatrice. Nascono tre figli, Roberta, Luca e Giovanna.
Risale allo stesso periodo l'approdo in televisione, prima con lo sceneggiato L'alfiere (1956), diretto da Anton Giulio Majano, poi con Un trapezio per Lisistrata (1958), al fianco di Delia Scala con la quale conduce, e insieme anche a Paolo Panelli, l'edizione del 1960 di Canzonissima, dove conquista il pubblico con la celebre macchietta del "barista di Ceccano" e il tormentone "Fusse che fusse la vorta bbona...". Pochi anni dopo, è il 1963, il trionfo in teatro, con Rugantino di Garinei e Giovannini.
I riconoscimenti arrivano però con il cinema, come il Nastro d'argento ottenuto per Questa volta parliamo di uomini (1956), di Lina Wertmuller, in cui Manfredi interpreta quattro diversi ruoli. Restano memorabili alcuni suoi personaggi, dall'innocente perseguitato in Girolimoni, il mostro di Roma (1972) all'emigrante italiano in Svizzera di Pane e cioccolata (1974), dal "piede amaro" di L'audace colpo dei soliti ignoti (1959), al barbiere innamorato Marino Balestrini di Straziami, ma di baci saziami (1966) a Titino, l'editore borghese che sceglie la libertà e diventa capo di una tribù in Angola, in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa?
Un successo anche quando tenta con la regia, com'è il caso di Per grazia ricevuta (1970), premiato a Cannes, del quale è anche protagonista. Seguono, ancora, C'eravamo tanto amati (1974), di Ettore Scola, e Café Express (1980), di Nanni Loy, altro Nastro d'argento. E un altro ancora, nel 1977, con In nome del Papa Re, diretto da Luigi Magni, regista, amico e parte di un fortunato sodalizio come dimostrano anche Secondo Ponzio Pilato (1988) e In nome del popolo sovrano (1990).
La televisione però resta in cima ai suoi pensieri. Lì che dà vita ad uno dei suoi personaggi più robusti e commoventi, il Geppetto del Pinocchio di Luigi Comencini. Ma c'è anche Barabba in La vita di Gesù (1975). Ed è proprio al piccolo schermo che regala le energie degli anni recenti, dalle miniserie Un commissario a Roma e Linda e il brigadiere, alle fiction Una storia qualunque e Un posto tranquillo. L'ultima volta, lo avevamo visto, accanto a Fiorenzo Fiorentini, nel film per la tv La notte di Pasquino, diretto, ancora una volta, da Luigi Magni, andato in onda nel gennaio 2003 su Canale 5. Ma era stato anche a lungo testimonial per una nota marca di caffè.
Infne, Venezia 2003. Anche lì, in qualche modo, c'era. Presente fra gli altri protagonisti della storia della Mostra, passati in rassegna dal cortometraggio Venezia 60. Lui era protagonista di un vecchio filmato girato proprio a Venezia. Poi, gli applausi e la commozione quando Erminia ha ritirato il Premio Bianchi. E l'ultima immagine dell'attore, in La luz prodigiosa, in cui presta il volto a Federico Garcia Lorca, il poeta spagnolo fucilato dalla Guardia Civil franchista nel 1936, e del quale non fu mai ritrovato il corpo: "Una storia bellissima, un personaggio che ho molto amato - aveva detto l'attore prima della malattia -, sono felicissimo che alla Mostra di Venezia sia questo mio ultimo lavoro a rappresentarmi".
Da La Repubblica, 4 giugno 2004
Prima della morte, i momenti peggiori di Nino Manfredi erano stati due. Uno nel 1959, dopo il successo straordinario d'una sua macchietta televisiva: «Ancora oggi», ricordava, «appena mi vede la gente attacca subito: Nino Manfredi, Ninetto Manfredini, il barista di Ceccano, quello della tv... Allora i produttori mi offrivano cifre pazzesche per interpretare film intitolati “Fusse che fusse la vorta bona”, “Ninetto ciociaro col carretto”, “Pecore, amore e Ciociaria”, “Nino ciociaro sopraffino”...Maledetto ciociaro, voleva la mia rovina: ma io non mi sono lasciato tentare, sono riuscito a sopravvivere». L'altro momento, recente, fu quando affondò in una crisi di depressione: e sua moglie Minia non dimentica come venissero a trovarlo gli amici malati di nervi, Vittorio Gassman soprattutto, a volte anche Paolo Villaggio, e come si scambiassero lugubri confidenze durante le cosidette «cene catastrofiche». Del resto anche la sua vocazione di comico era nata dal dramma, però sentimentale: era innamorato di una ragazza che un pomeriggio lo piantò; la sera, al Teatro delle Arti di Roma dove recitava diretto da Orazio Costa ne La dodicesima notte di Shakespeare, furono papere, battute saltate, gesti inconsulti, una pena, un macello; ma gli applausi rimasero gli stessi di tutte le altre sere. Di qui lo shock: pensò che finchè interpretava Shakespeare, Pirandello o Ibsen non avrebbe mai conosciuto il proprio valore; decise di affrontare senza la protezione di un testo importante quel pubblico che urla soltanto «'A coso, facce ride! ». Veniva Da tre anni d'Accademia d'Arte Drammatica e da tre anni di Piccolo Teatro di Milano, andò in rivista con le sorelle Nava (Tre per tre Nava), con Billi e Riva, con Wanda Osiris, fino alle commedie musicali di Giovannini e Garinei, Un trapezio per Lisistrata, Rugantino. Faccia da contadino o da soldato, occhi bruni ridenti, Nino Manfredi è stato un attore comico straordinario, di grande sapienza e ritmo, dotato di rara comunicativa, sempre recitante «in levare», spesso irresistibile. Eppure i suoi personaggi più memorabili non sono comici: l'italiano platinato emigrante in Svizzera di Pane e cioccolata di Franco Brusati; la bestia prepotente di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola; Geppetto nel Pinocchio di Luigi Comencini; il portantino d'ospedale di C'eravamo tanto amati, ancora di Scola; il maestro di Lo chiameremo Andrea di Vittorio De Sica; l'architetto di sinistra de Il padre di famiglia di Nanni Loy. E soprattutto il protagonista de L'avventura di un soldato tratto da un racconto di Italo Calvino, bellissima opera prima muta di Manfredi regista, e l'altrettanto ammirevole protagonista del primo lungometraggio da lui diretto, Per grazia ricevuta. Come comico era molto divertente, si capisce, uno dei più bravi: ma Nino Manfredi è sempre stato un uomo serio. Erano serie le sue manie, secondo la moglie che lo vedeva sussultare perchè un portacenere non era stato vuotato, impallidire davanti a un armadio in disordine, angosciarsi per una lampadina fulminata non sostituita, per una bolletta pagata in ritardo. Era serio il suo modo di guidare l'automobile: mai seperati i centoventi l'ora, ogni macchina tenuta con una cura tale che una volta gli valutarono due milioni una Porsche pagata tre milioni cinque anni prima. Erano seri il suo rispetto per il danaro, per la proprietà, «la roba»; e la sua prudenza nel pensare all'avvenire, nel non sprecare nè buttare mai via nulla, nel non fare mai il passo più lungo della gamba. Poteva sembrare poco seria la sua maniera di esprimersi sempre fittamente intessuta di parolacce, doppi sensi, grossolanità, intemperanze dialettali: ma era serio il suo senso della moralità. Quando venne accusato di oscenità per uno sketch interpretato nel film Le bambole, quasi scoppiò a piangere nell'aula del tribunale di Viterbo davanti al giudice esterrefatto: «Ma come? Io, che sono un padre di famiglia esemplare? Cosa racconterò adesso ai miei figli, come giustificherò ai loro occhi questa vergogna? ». Più che la tristezza metafisica del comico, aveva addosso il malumore fisico dell'epatico: dall'infanzia soffriva di una disfunzione biliare e per questo quasi non mangiava, beveva soltanto acqua minerale, caffè d'orzo o the leggero, era di carattere nervoso e un poco tendente all'ipocondria. Non si conosceva poi, nel cinema italiano, un perfezionista come lui. La prima cosa che sentivi dire dalla gente di spettacolo era: «Manfredi? Bravo, simpatico. Ma che rompiscatole, che scocciatore, maniaco, pignolo, puntiglioso, cavafiato...». Esasperava gli sceneggiatori con infinite proposte di revisioni, riscritture, sostituzioni di battute. Tormentava i registi: mai contento, avrebbe ripetuto cento volte la stessa scena, voleva sempre ricominciare da capo. Del cinema sapeva tutto: come si adopera la macchina da presa, come si usa la moviola, come si applica la tecnica di doppiaggio (aveva doppiato molti attori americani, Gèrard Philipe e una volta anche Marcello Mastroianni). Pure di musica si intendeva, essendo stato da ragazzo brillante suonatore di mandolino e poi di banjo, con irritazione del padre sottufficiale di polizia che il banjo glielo ruppe anche in testa. Un perfezionismo da timore, spiegava Nino Manfredi: «Far ridere per me non è un istinto, è una grossa fatica. Perciò sono pavido almeno quanto sono presuntuoso. Cerco di prevedere tutto perché ho paura. Una paura tremenda».
Da La Stampa, 5 giugno 2004
C’eravamo tanto amati. Per cinquant’anni, e forse più. Non c’eravamo mai lasciati con Saturnino Manfredi. Ognuno di noi conserva nella memoria e nel cuore un “pezzetto” di mesto grande attore: le sue battute in ciociaro, l’aria sorniona (ma sempre intelligente, vispa, viva: gli occhi non mettevano mai di luccicare, avevano visto troppo per essere ingannati), i mie personaggi interpretati a teatro, alla radio, al cinema, in tv.
Ha raggiunto Marcello, Vittorio, Ugo, Alberto: voci, e soprattutto volti dell’Italia lungo mezzo secolo. Commedia, soprattutto, il ramo dello spettacolo in cui da sempre siamo maestri. Ma non sono state solo risate: dietro ai frizzi e ai lazzi e ai fescennini si è quasi sempre mostrata la volontà precisa di rappresentare in modo critico, ebbene bonario, i vizi del nostro Paese.
Anni ruggenti, per riprendere il titolo di mo dei film più significativi, quelli della commedia all’italiana. Nella pellicola diretta da Luigi Zampa nei 1962 Manfredi è un semplice agente delle assicurazioni che, ei suo viaggio in una città di provincia, viene scambiato (proprio come in Gogol: le buone letture degli sceneggiatori di allora!) per un ispettore inviato dalla Capitale. Ma gIi “anni ruggenti” del titolo, come ognuno ben ricorda, sono quelli del Ventennio, e i maggiorenti in camicia nera fanno a gara per ingraziarsi il presunto potente personaggio.
Eccola, la nostra piccola Italia messa alla berlina: eccoli i tronfi signorotti con tutta la loro infantile prosopopea, il desiderio di mettersi in bella mostra, la gara meschina per ottenere una raccomandazione.
Sarebbe una bella sfida, mettersi a ricordare tutti i film interpretati da Nino Manfredi. Sono stati più di cento, e in più vanno aggiunti i lavori per la tv, per la radio, per il teatro. E vanno aggiunte anche le buone riuscite dietro la macchina da presa, a partire da un piccolo, fantastico episodio del film L’amore difficile (ancora del 1962). Si intitola L’avventura di un soldato, ed è - incredibilmente! - senza parole. Un breve siparietto in uno scompartimento di un treno di seconda classe, la fantastica pantomima di un giovane militare che tenta un goffo approccio con una splendida giovinetta. Quanti imbarazzi, che gioco di sguardi, che partecipazione emotiva: Manfredi dirige e interpreta, senza sbavature, traendo ispirazione (ancora un’ottima lettura...) da un racconto di Italo Calvino.
O ancora, diversi anni dopo, lo ricordiamo con infinito affetto - nello splendido Pinocchio televisivo di Luigi Comencini: un Mastro Geppetto pieno di umanità, sempre pronto a comprendere quel monellaccio del burattino, a dargli ancora una possibilità. Perché la vita è dura, no?, e allora si può perdonare sempre, dopo tutto.
Ricordiamo qualche altro titolo, pellicole che ci hanno accompagnato nel corso dei decenni: il corale Audace colpo dei soliti ignoti, il malinconico Padre di famiglia, gli storici ambientati nella Roma papalina, come In nome del Papa Re, la rivisitazione della storia recente (primo fra tutti il già citato C’eravamo tanto amati), il grottesco che sfiora il tragico (il durissimo Pane e cioccolata, il sordido Brutti, sporchi e cattivi). E Manfredi si straluna, sempre un po’ alieno, un po’ a parte, colto in un vorticoso giro di avvenimenti più grossi di lui. Proprio come accade a noi, tutti noi. Un pezzetto del nostro cuore, delle nostre virtù e delle nostre cadute ce l’ha preso Nino; altri scampoli sono andati a Sordi, a Mastroianni, a Gassman, a Tognazzi.
Abbiamo studiato tutti, sui banchi di scuola, la commedia dell’arte: mai ci saremmo aspettati di rivederne le maschere in modo così diretto, oltre che agli angoli delle strade di città e strapaesi, anche sul grande e sul piccolo schermo. - Il settentrionale saccente e il meridionale furbo, l’astuzia e i mezzucci, la fame e la sazietà, e fuori la grande storia che incombe, che chiama, che ricorda la tragedia del vivere. Nino, e con lui Vittorio, Ugo, Marcello e Alberto, nei loro momenti migliori (e sono stati davvero tanti!) hanno avuto la forza di uscire dal luogo comune, hanno illuminato le piccolezze dei quotidiano con la virtù della vera arte drammatica. Li abbiamo, semplicemente, tanto amati.
Da Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2004
Nel poker d’assi della commedia all’italiana Nino Manfredi occupava una casella tutta sua che per certi versi potremmo dire la casella del debole, se non addirittura della “vittima”, con tutte le virgolette del caso. Vittima inconsapevole, vittima di se stesso e della propria mitezza, vittima della Storia o delle circostanze, talvolta capace di riscattarsi con pazienza certosina e grande adattabilità. Non era una scelta deliberata, anche se l’uomo gestiva con molta attenzione il proprio talento. Era il frutto dell’incrocio fra l’inclinazione personale alle mezze tinte e al patetico, doti rare tra i nostri attori comici, con gli spazi lasciati liberi dagli altri “colonnelli” della risata.
Così, se Sordi reinventava le patologie quotidiane degli italiani, se Gassman incarnava il lato atletico, rodomontesco, dei vizi nazionali, se la sensualità padana e pre-moderna di Tognazzi sembrava assorbire con ingordigia le mutazioni subite dal corpo sociale, Manfredi finì per ritagliarsi il ruolo apparentemente più defilato dell’uomo in lotta contro condizioni avverse. Del personaggio che gioca di sponda, che approfitta di un’occasione unica nella vita, che reagisce a una situazione insostenibile, paradossale o addirittura assurda con le armi della buona fede, dell’onestà, di un’integrità di altri tempi. Non il nuovo che avanza, insomma, incarnato con tracotanza dai Sordi e dai Gassman, quanto piuttosto il vecchio che arranca. Restando non di rado travolto.
Sono, a ben vedere, le qualità di Geppetto, grande Padre di tutte le vittime immeritevoli della cultura nazionale. E Manfredi fu un magnifico Geppetto nell’insuperato Pinocchio di Comencini. Ma sono anche le chiavi di tanti suoi personaggi, dai filmetti degli esordi fino ai grandi personaggi di Pane e cioccolata o di Girolimoni il mostro di Roma e basta ricordare quel concentrato di sapienza interpretativa che furono gli spot del caffè Lavazza («Più lo mandi giù, più ti tira su») per cogliere il tratto dominante di tante creazioni di Manfredi, la vulnerabilità e in sottordine lo stupore. Condizioni esplorate in ogni piega nella sua lunga filmografia, e qui gli esempi non mancano davvero.
Ne L’impiegato di Gianni Puccini, esplicito omaggio al Danny Kaye di Sogni proibiti , Manfredi è infatti un sognatore che compensa le frustrazioni quotidiane con una ricca attività onirica. Nel film a episodi I cuori infranti , sempre di Puccini, è l’inappuntabile marito-tuttofare (massaio, domestico, bambinaio) di un’indaffaratissima squillo. In Crimen di Mario Camerini, uno strillone del Messaggero mal maritato alla petulante Franca Valeri e accusato come Sordi e Gassman di delitti che non ha commesso. In Adulterio all’italiana è il fedifrago che impazzisce di gelosia quando la moglie giura di rendergli la pariglia. In Alta infedeltà un marito ingiustamente preoccupato perché lo straniero che sembra corteggiare sua moglie in realtà punta a lui. Mentre Scola ne fa un uomo convinto che l’amante voglia ucciderlo ( Thrilling ); e Comencini un’ex spia così pigra e vigliacca da subappaltare a terzi una pericolosa missione omicida (Italian secret service ).
Naturalmente Manfredi aveva molte altre corde al suo arco, basti pensare ai film fatti con Luigi Magni (il Pasquino de L’anno del Signore , il ruolo del titolo in Secondo Ponzio Pilato ) o al truce borgataro di Brutti, sporchi e cattivi . Ma in ognuno di questi titoli, anche nei meno significativi o nei tanti film a episodi, brillava un’arte straordinaria, frutto di innato talento e insieme di maniacale perfezionismo. Il perfezionismo dell’attore che veniva dalla grande scuola di Strehler e di Eduardo (che tentò perfino di farne il suo erede ufficiale). Il perfezionismo che lo portava a imparare non solo la sua parte ma tutto il copione a memoria, a tempestare di domande i registi, a dire sempre la sua. E magari a rifiutare offerte lucrose ma corrive pur di affinare il mestiere.
Accadde all’epoca di Canzonissima , nel 1959, quando la macchietta ciociara col suo tormentone “Fusse che fusse la vorta bbona” diventò così popolare da spingere i soliti produttori frettolosi a offrirgli di replicarla al cinema (mentre la Rai, preoccupata per quel personaggio senza peli sulla lingua, provvedeva a dichiararlo “malato” e allontanarlo dal programma). E Manfredi, lungimirante, disse no per non restare prigioniero di quella macchietta, preferendo spendersi in filmetti e filmastri («almeno faccio personaggi diversi») in attesa di occasioni migliori. Occasioni che dopo L’audace colpo dei soliti ignoti si sarebbero moltiplicate. Portandolo in pochi anni addirittura a debuttare alla regia con L’avventura di un soldato , solo un episodio ma tratto da una novella di Calvino e così insolito e perfetto (basti dire che contro il parere di tutti Manfredi volle girarlo muto) da provocare non poche invidie e diffidenze negli altri registi.
Mentre ancora una volta Manfredi, che pure da anni partecipava ogni volta che poteva alla sceneggiatura dei suoi film, contro ogni aspettativa riprese a fare l’attore. Per tornare alla regia una sola altra volta con quel film davvero unico che fu Per grazia ricevuta . Bizzarra e personalissima rievocazione dei guasti prodotti da un’educazione cattolica retriva che nessuno voleva fare, tanto che Manfredi fu costretto a coprodurlo rinunciando alla metà dei compensi (e per ringraziare il suo ammiratore di sempre Oreste Del Buono, unico a incoraggiarlo in quest’avvenura, battezzò Oreste il personaggio di Lionel Stander). Ma in cui l’Italia intera si riconobbe, se fu il massimo incasso della stagione. E non solo l’Italia se da Cannes tornò con un premio al miglior esordio.
Chiunque altro, dopo tanto successo, avrebbe ritentato il colpo. Manfredi no, se non molti anni più tardi con il tutto sommato trascurabile Nudo di donna . Ma dopo Per grazia ricevuta , fedele alla misura che improntava tutto il suo lavoro, disse che il regista voleva farlo quando aveva qualcosa da dire e quel film poteva girarlo solo lui. Quindi tornò a fare l’attore dandoci personaggi memorabili anche quando i film non lo erano. E anche questa fu una bella prova di stile.
Da Il Messaggero, 5 giugno 2004
È entrato nella storia dello spettacolo italiano e, se chiedete a un ragazzo chi sia, l’interrogato risponde: «Nino Manfredi? Un attore del cinema». In realtà, leggendo la sua biografia o parlando di qualcuno che era al Sistina nel 1963, anno della storica prima edizione di Rugantino , Manfredi vien fuori, prima di tutto, come interprete di teatro.
E’ in ogni caso vero che l’estroverso signore di Ceccano ha dedicato al palcoscenico solo i suoi inizi e, nel corpo di un importante epilogo televisivo, alcune fiammate finali. Debuttò, ventenne, con il Piccolo Teatro di Roma negli scespiriani Riccardo III e La tempesta , quindi sostenne alcuni ruoli nelle produzioni di Eduardo De Filippo. Studiò e lavorò anche con Orazio Costa, che ha poi sempre considerato il suo maestro di arte scenica. Non ha resistito, nel corso di una lunga carriera, piena di prestazioni diverse e sempre onorata da vastissima popolarità, alla tentazione di scrivere di proprio pugno per il teatro, primo amore. Sono degli anni Ottanta due performances nei panni di drammaturgo e interprete, Viva gli sposi del 1984 e Gente di facili costumi del 1988: commedie di ambiente, ritratti di gente fotografata nel vivere quotidiano, con temi e problemi spiccioli, comuni a tutti, nella mente e nel cuore: i “piccoli classici” sentimentali che l’attore amava identificare e rappresentare. Senza contare certe sue prove televisive, prima fra tutte il Geppetto del Pinocchio di Comencini, che possono senz’altro essere considerate testimonianze teatrali di gran rilievo.
Al pari di Alberto Sordi, Manfredi ha pescato la sua “maniera di palcoscenico” fra i tipi italici di marca centro meridionale. Ne ha studiato le abitudini, le caratteristiche, le comunanze, i tic, i modi di dire e di fare, costruendo su questi materiali una recitazione naturalistica, piana, conversativa e godibile dalla più larga platea. Gli piaceva, in altre parole, il metro amichevolmente divulgativo, che fosse finestra aperta sull’esistenza riconoscibile dei poveri cristiani.
Nei ricordi scritti e filmati che la sua scomparsa (purtroppo annunciata, data la grave malattia di cui soffriva da tempo) ha provocato, nessuno si è dimenticato del tratto cui più di ogni altro la recitazione di Manfredi deve eccellenza: l’ironia. Protagonista o antagonista, figura centrale o “di fianco”, questo attore nostrano che ha amato la commedia, il grottesco, persino la pochade, si è nobilitato sempre, in modo naturale, esprimendo una decisa vena ironica della quale dava merito all’educazione ricevuta dal nonno.
E davvero, accanto a Gassman, a Mastroianni, a Totò, a Tognazzi, gli altri giganti di certo irripetibile modo interpretativo, fatto, insieme, di radici, talento e mestiere, Manfredi ha dato il meglio di sé. Teatrale in ogni situazione, e forse più dei colleghi, perché riusciva a trasformare anche lo spazio cinematografico in una porzione non vasta, ma privatissima, di palcoscenico. Dove lavorava con la precisione e la cura di ogni dettaglio più proprie della scena che del set, bagaglio consegnatogli da Orazio Costa. Italianissimo, con questa somma di cose non avrebbe sfigurato in nessun teatro anglosassone o americano, luoghi deputati dell’artigianato-arte che è, in fondo, l’autentica professione dell’attore.
Da Il Messaggero, 5 giugno 2004
In 55 anni di carriera aveva recitato in oltre 110 film, diretto da fior di registi come Vittorio De Sica, Ettore Scola, Nanny Loy, Alessandro Blasetti, Antonio Pietrangeli, Luigi Zampa, Dino Risi e Luigi Magni. Nei suoi film Manfredi ha impersonato il ritratto di un italiano furbo ma non vile, allegro ma non spensierato. Nato il 22 marzo 1921 a Castro dei Volsci (Frosinone), Saturnino (detto Nino) Manfredi, dopo aver preso la laurea in Giurisprudenza per far contenti i genitori, inizia a frequentare a Roma l'Accademia d'Arte Drammatica.
I primi passi da attore li compie nel 1947 al Piccolo di Roma, passando in seguito alla compagnia Maltagliati-Gassman, quindi al Piccolo Teatro di Milano dove interpreta Shakespeare e Pirandello. Poi il ritorno al Piccolo di Roma, dove viene diretto da Orazio Costa, che Nino considererà per sempre il suo grande maestro. Al cinema debutta nel '49 con il film Torna a Napoli di Domenico Gambino. Nel '51 inizia anche a fare il doppiatore, attività che lo impegnerà per circa un decennio. Nello stesso periodo si dedica anche alla radio, che gli regalerà un inizio di popolarità. Ma è sui palcoscenici del teatro di rivista che il suo umorismo inizia a fare presa sul pubblico e sugli addetti ai lavori. Nel '53 infatti recita nella compagnia di Wanda Osiris. E nel '56 interpreta il suo primo scenaggiato televisivo, L'alfiere.
La vera popolarità la raggiunge alla fine degli anni Cinquanta grazie ad una serie di film in cui interpreta l'italiano furbo del boom economico come il dongiovanni di paese in Tempo di Villeggiatura (1956), il gangster dilettante in Susanna tutta panna (1957) o l'aspirante ladro che per conquistare le ragazze si finge paracadutista in Guardia, Ladro e cameriera (1958). Ma è con L'impiegato di Puccini (1959) che emergono le sue reali doti d'interpretazione e di sensibilità, esaltate poi nel corso degli anni Sessanta. Nello stesso periodo compì con successo il grande salto dietro la macchina da presa con L'avventura di un soldato, episodio di L'amore difficile, al quale fece seguito, nel '70, Per grazia ricevuta in cui dirige Mariangela Melato e con il quale vince a Cannes il premio per la migliore opera prima.
Parallelamente anche la Tv lo accoglie trasformandolo in uno dei volti più amati dagli italiani. Nel '58 esordisce infatti nella commedia musicale al fianco di Delia Scala e Paolo Panelli, con i quali ottiene un grandissimo successo televisivo nella conduzione di «Canzonissima 1960», lo show del sabato sera che catalizza l'attenzione di tutt'Italia. Il personaggio che lo porta al successo è l'indimenticabile barista di Ceccano, cui affida la celebre battuta «Fusse che fusse la vorta bona». La Tv gli regalerà poi una delle sua interpretazioni indimenticabili, quella di Geppetto nelle Avventure di Pinocchio di Luigi Comencini del 1972. Negli anni '90 torna sul piccolo schermo per recitare in alcune fiction di grande successo.
Da Il Tempo, 5 giugno 2004
Grandi del cinema italiano a poco a poco se ne vanno. Dopo Tognazzi, Mastroianni, Gassman e Sordi, adesso è la volta di Manfredi. Il contrario del mattatore. Perché aveva avuto la possibilità, vietandosi di dominare la scena (e poi lo schermo), di vincere con sottigliezze maggiori, imponendosi molto più con il garbo e addirittura i silenzi che non con la spavalderia.
Anche lui, come gli altri, l’avevo conosciuto agli esordi, quando ancora studiava e faceva teatro. Ponendosi però degli interrogativi su quella che poteva essere la sua strada. Optò decisamente per il cinema dopo la sua prima prova impegnativa, nel ’60, protagonista dell’«Impiegato» di Gianni Puccini, un film che sotto certi aspetti ricordava Sogni proibiti con Danny Kaye. Umile, modesto, evadendo solo nei sogni, Manfredi vi creò un personaggio che riusciva a tenersi perfettamente in bilico tra la malinconia e la caricatura: con una sapienza straordinaria.
Quelle stesse doti, in modo da molti inatteso, le rivelò presto anche come regista, in un film a episodi, L’amore difficile, dove interpretò e diresse un racconto di Italo Calvino, L’avventura di un soldato. Silenzi, atmosfere, un linguaggio cinematografico tutto accenti sospesi. Ripresi più tardi, di nuovo anche come regista, in «Per grazia ricevuta» dove svelava un tocco di lievità addirittura esemplare. Con una misura e un riserbo non certo consueti alle commedie italiane di quegli anni cui il film, come genere, apparteneva.
Ancora una regia, Nudo di donna, una commedia questa volta un po’ fantastica che, pur andata incontro a molto successo, indusse da quel momento Manfredi a dedicarsi soltanto alla recitazione, convinto che lì avrebbe finito per darci le sue prove migliori.
Come accadde, sotto la guida esperta di Franco Brusati, in Pane e cioccolata nei panni di un modesto emigrante italiano che in Svizzera si era illuso di trovare il paradiso dei suoi sogni. La sua interpretazione più grande, quella in cui, nelle cifre del dramma, erano più felicemente toccate tutte le corde della frustrazione e dell’umiliazione. Sottilmente alternate — con meditatissimo equilibrio — alla comicità, agli istinti ribelli, all’ansia della fuga, alla sete di rinnovarsi, e sfumate, infine, anche nei contorni più aspri, da un’aura, metà incantata metà irreale, che trapelava dalla mimica e dai gesti con una sobrietà e una incisività in cui si sublimava il "naïf".
Due anni dopo, pur avendo molto esitato all’inizio, perché riteneva il personaggio troppo sgradevole, Manfredi superò addirittura sé stesso in Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, riuscendo a ottenere, dal truce personaggio che vi era al centro — Giacinto, il capo di una orrenda famiglia — tutto quello che più lo avvicinava ai suoi schemi creativi. Anche con delle brutture, anche con dei particolari che potevano (e volevano) risultare fastidiosi.
Ma, pur sempre all’erta, pur sempre in grado di dare tutto quello che i registi gli chiedevano, anche lui, come Gassman a suo tempo, cedette a una depressione da cui sembrò non riuscire più a sollevarsi. Anche lui, però, proprio come Gassman, aveva vicino una moglie magnifica: la cara Erminia Ferrara che in gioventù era stata indossatrice e che gli aveva dato figli e figlie che, a loro volta, avevano dato loro dei nipoti. Erminia si impose, Erminia vinse e Manfredi guarì.
Ancora cinema, così, ma soprattutto molta televisione dove diventò, presto una delle figure più note e apprezzate. Non solo nei grandi sceneggiati e con i personaggi, anche i più modesti, però sempre incisivi, che gli affidavano, ma persino nella pubblicità. Quando, ad esempio, Manfredi tesseva le lodi di un caffè, risultava subito così fiero, così raccolto, così attento a sfumare che quasi sfuggiva l’idea di un pretesto pubblicitario. Era vita, era casa, era addirittura l’idea di salotto. Nessun altro, in teatro, al cinema, in Tv riuscì a suggerirne di idee come lui. E senza nessun grande autore alle spalle. Facendo tutto da solo.
Da Il Tempo, 5 giugno 2004
Tra i «mostri» della commedia all'italiana è stato il più minuzioso, il più, scientifico. Come ha scritto Dino Risi: «Lo chiamavo l'orologiaio. Attore con la lente incastrata nell'occhio, attento ai minimi particolari. Conoscitore come pochi dei meccanismi per far ridere. Un professore di scienza della risata. Tutto calcolato, ma in modo che sembrasse naturale». Forse non si tratta di un grande complimento, perché proprio sulle imprevedibili storture del gesto e dell'espressione nonché dei sentimenti e delle opinioni quel mega-genere vincente ha plasmato i suoi mattatori; ma grazie a questa dote Nino Manfredi, nel periodo migliore della sua sterminata carriera, riesce per esempio a conferire un surplus di surreale svagatezza ai suoi eroi, piccoli uomini costretti a ritirarsi di fronte alle ciclopiche sfide della vita.
Meno legato di Sordi, Gassman e Tognazzi alla fisicità prepotente e esuberante, si è, insomma, inventato con infinita pazienza e accanito perfezionismo una tecnica del tutto originale, fondata sulla scomposizione e ricomposizione del volto intorno alle emozioni: sconcerto e ansietà, diffidenza e dubbio, felicità e godimento, entusiasmo e convinzione. Bagliori d'immortalità schermica, colti con impagabile finezza dal superfan Oreste del Buono: «Gli occhi luccicano, si velano, scompaiono dietro le palpebre, riluccicano, ammiccano, riscompaiono dietro le palpebre come per non ferirci con il loro luccichio, le labbra si increspano, si arricciano, si assottigliano, si schiudono, si gonfiano, traboccano con o senza parole, continuano a parlare persino nel silenzio. I lineamenti cambiano per seguire ogni sfumatura d'umore sino in fondo e riportarne alla superficie la vera essenza. Per l'esattezza: il simbolo, la cifra, il segnale della vera essenza. La finzione come verità delle verità».
Nato a Castro dei Volsci (Frosinone) il 22 marzo del 1921, Saturnino Manfredi esordisce a vent'anni come presentatore e attore nel teatrino della parrocchia della Natività, in via Gallia a Roma. Laureato in giurisprudenza e diplomato all'Accademia d'arte drammatica, si fa valere in teatro (interpretando, tra l'altro, tre memorabili atti unici per Eduardo), alla radio, nel doppiaggio e nella rivista prima di sposarsi con l'indossatrice Erminia Ferrari (1955).
Gli inizi cinematografici non sono clamorosi, ma contribuiscono a fargli prendere confidenza con gli stereotipi cari alle platee popolari dell'epoca: da Monastero di Santa Chiara a Gli innamorati, da Lo scapolo a Tempo di villeggiatura, da Camping a Venezia, la luna e tu, i critici si accorgono a stento di come stia maturando la personalità di un fuoriclasse della risata amara.
Con L'impiegato di Gianni Puccini (1959), Manfredi si stacca definitivamente dal gruppo e si propone al nostro cinema come uomo di cinema totale: protagonista autorevole, beniamino del pubblico, collaboratore dei registi, revisore scrupoloso della propria e delle altrui parti. La sua particolarissima presenza, a un tempo farsesca e raffinata, realistica ed esistenzialistica, penetrante e indifferente, si fa sentire, eccome, in quei veri e propri gioielli che sono A cavallo della tigre di Comencini, Anni ruggenti di Zampa, La parmigiana e Io la conoscevo bene di Pietrangeli, Operazione San Gennaro e Straziami, ma di baci saziami di Risi, Il padre di famiglia e Made in Italy di Loy. Senza contare la formidabile galleria di personaggi cesellati nel «tempo breve» della formula a episodi.
La classe dell'osservatore malizioso del costume nazionale rifulge anche nel '71, con il primo lungometraggio girato da regista (dopo il boccaccesco episodio L'avventura di un soldato del '62): Per grazia ricevuta incassa una cifra enorme e viene ricoperto di premi prestigiosi, ma soprattutto impone il sapore autenticamente naif di una scapigliata scorribanda tra gli equivoci dell'italica (dis)educazione religiosa.
L'elisir della commedia «manfrediana» funziona quindi come uno straordinario mezzo d'indagine, sviluppa ormai la sua funzione critica con tutte le armi, la caricatura, il grottesco, la satira, che le offre il divertimento puro. Nel contempo, con la complicità del regista Gigi Magni, l'attore rientra nei ranghi della macchietta, dando vita alla serie in costume dei nipotini del Belli dai modi rustici e burberi e dalla greve parlata romanesca, il cui campione resta senz'altro il ciabattino anticlericale di Nell'anno del Signore ('69).
Difficile, a questo punto, isolare ulteriori icone: l'atipico emigrante nell'ariana Svizzera di Pane e cioccolata o il ripugnante capofamiglia di «Brutti, sporchi e cattivi», il fotografo accusato d'essere un omicida di bambine di Girolimoni il mostro di Roma o l'avvocaticchio napoletano de La mazzetta, il portantino comunista di C'eravamo tanto amati o il sublime Geppetto de Le avventure di Pinocchio sopravvivono tutti in e con Manfredi e partecipano tutti di quella che è diventata, negli anni, la strenua, meticolosa, mastodontica costruzione di un'unica, inimitabile commedia umana.
Da Il Mattino, 5 giugno 2004
Valerio CAprara
Sembrava che a Saturnino Manfredi (nato a Castro dei Volsci, Frosinone, il 22 marzo 1921) tutto dovesse capitare quando meno se lo aspettava. Come al protagonista di un film che lui, già attore di molto successo, aveva ideato, interpretato e diretto nel 1971: Per grazia ricevuta. Tale regia seguiva di ben otto anni uno short, Avventura di un soldato (un episodio di L'amore difficile), un piccolo, inatteso capolavoro di ritmo.
In larga parte autobiografico, Per grazia ricevuta confermava il talento registico e l'originalità dei materiali narrativi di Nino Manfredi che non nascondeva, anzi, il suo "patrimonio" culturale di origine contadina e, anche in questo, contrastava con l'entroterra di tanti nostri registi di derivazione borghese. I personaggi, le scene da Italia strapaesana, l'uso di un dialetto sodo di cui si stava perdendo l'abitudine erano tenuti insieme da un filo meditativo insolito nel cinema italiano. Benedetto, il protagonista del film, risultava essere un uomo "tentato" da Dio. Aveva cercato di sfuggirgli da ragazzo. Ma, per l'intensa esistenza, si vedeva costretto a rifare i conti con se stesso senza mai riuscire a calcolare la somma finale. Questa questione della scelta, un aut aut a cui il personaggio cercava di sfuggire, fu centrale nella vita stessa di Manfredi.
Qualche volta, come si vedrà, lui fece il salto davanti all'insolito, e gli andò benissimo: non aveva mai pensato di fare l'attore di professione e venne proiettato sui palcoscenici e ne i set e, in principio, durante le prove perdeva perfino la voce e Gassman, che lo aveva scritturato, diceva di non preoccuparsi e la voce tornava miracolosamente quando Nino si presentava alla ribalta. Qualche volta si tirò indietro. I due film che abbiamo ricordato sembravano preannunciare una fortunata e insolita attività di regista-creatore. Ma furono seguiti soltanto da Nudo di donna del 1981, film firmato da Manfredi in cui si sentiva, dissero in molti, la mano del regista Alberto Lattuada che si era ritirato dal set.
Manfredi aveva fama di impiccione. Era così legato al proprio lavoro da arrivare sul set con soluzioni già pronte: la macchina da presa doveva essere messa di qua o di là, la scena andava imposta in questo o quel modo. Qualche regista riusciva ad arginare l'irruente collaboratore. E fu il caso di Scola o di Franco Brusati in quell'opera felice che fu Pane e cioccolata (1973). Qualche altro cedeva le armi, come De Sica, già sfiatato, di Lo chiameremo Andrea (1972). Qualche altro, infine, se ne andava, come appunto successe a Lattuada.
Presso la critica è rimasta sempre insoluta una questione: perché Manfredi, pur così dotato, non ce la faceva a trasformarsi anche e stabilmente in regista? E, pur così dotato di talento registico, si è fatto "catturare" dal mestiere di attore. Nino disegnava, sì, figure sempre meglio delineate (qualche volta un unico personaggio gli consentiva di allestire una sorta di recital). Del resto, anche agli inizi - quando dopo il 1949 lavorò in film dozzinali -, le sue apparizioni non erano mai state banali. Poi, a poco a poco, si era delineata l'inconfondibile fisionomia dell'attore Manfredi con film entrati nella storia del nostro cinema: A cavallo della tigre (1961), Anni ruggenti (1962), La parmigiana e La ballata del boia (1963), i tanti film a episodi, Io la conoscevo bene (1965), Il padre di famiglia (1967) e poi le figure di popolani saggi o di borghesi irrequieti in Straziami, ma di baci saziami del 1968, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare il loro amico misteriosamente scomparso in Africa? sempre del '68, Nell'anno del Signore… (1969), Contestazione generale (1970), e ancora il mirabile Geppetto di Le avventure di Pinocchio, l'uomo che non rinuncia alle proprie convinzioni di C'eravamo tanto amati (1974) - quasi il diario di una generazione - e, infine, produzioni meno prestigiose, ma sempre professionalmente solide, qualche volta poco fortunate, comprese le fiction televisive (da ricordare almeno Linda e il brigadiere) e il film La luz prodigiosa, premiato al Festival di Mosca, dove Manfredi delinea un redivivo Garcia Lorca sfuggito alla fucilazione.
Dei "Quattro della risata", come furono chiamati i protagonisti della commedia all'italiana (gli altri erano Sordi, Tognazzi e Gassman), Nino Manfredi disponeva, oltre che di una tavolozza vastissima di colori, di un fondo che non a torto venne definito cecoviano, di una spesso intenerita ingenuità che certe impennate da contadino, da ciociaro inurbato, rendevano a volte maliziosa (ma neppure troppo) e sempre tutt'altro che stucchevole.
Queste alte qualità di affabulatore emergevano in certe occasioni: negli short pubblicitari della televisione, che anche chi non ama tale genere non riusciva a non guardare, e nelle conversazioni personali. Nelle chiacchierate con giornalisti che volevano sapere di lui, Manfredi non si tirava mai indietro. Venivi a sapere di quando suo padre, volendo far studiare i figli, dal paese era venuto a Roma lavorandovi come guardia municipale; di quando, dopo una sudata in bicicletta, si era ammalato fin quasi a morirne; di quando raccontava barzellette negli spettacoli nella parrocchietta. O degli studi universitari, che completò nonostante fosse stato cooptato, senza volerlo, nell'Accademia di arte drammatica di Roma dove conobbe Panelli e Tino Buazzelli che fu suo compagno in tante compagnie di giro. O, ancora, di Gassman, che lo scritturò; di Strehler che lo volle al Piccolo di Milano; di Orazio Costa che lo riportò a Roma. Infine, del grande Eduardo, che voleva farne il proprio erede in teatro, cedergli il proprio repertorio.
E poi non dimentichiamo la rivista e, in televisione, Canzonissima dove con il "Barista di Ceccano" (un altro ricordo delle origini contadine) fece ridere l'Italia intera. E in teatro Rugantino. Ma Manfredi era straordinario proprio negli show privati, dove non dimenticava mai di parlare della moglie Erminia, dei figli e dei nipoti. Non so se siano stati ripresi con una telecamera. Sarebbero degli esemplari esempi di film-verità, di film-testimonianza.
Da L'Avvenire, 5 giugno 2004
Nino Manfredi viveva in una grande villa affacciata su una silenziosa piazza dell’Aventino. Attorniato da tutta la famiglia, moglie , figlie , nipoti, generi, Manfredi ha trascorso in questo quartiere la maggior parte della sua vita. Da attore invece è più difficile identificano con una precisa zona di Roma, anche perché da La domenica della buona gente, 1953, di Anton Giulio Majano, storia corale di destini che si incrociano sullo sfondo del derby calcistico Roma-Napoli, fino al recente tv-movie La notte di Pasquino di Luigi Magni, Manfredi ha girato nella capitale una buona parte degli oltre cento film interpretati..
Un viaggio nei film di Manfredi scorre dalle estreme periferie borgatare di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, 1976, fino agli angoli più noti e conosciuti del centro storico. In molti casi i riferimenti romani sono annunciati fin dal titolo: I ragazzi dei I Parioli,1959,di Sergio Corbucci, dove l’attore interpreta per altro un ruolo di rincalzo, quello del ragionier Giuseppe Spallotta; Trastevere, 1971,di Fausto Tozzi film corale che prende spunto dalle avventure di un cagnolino smarrito, dove Manfredi è il primo nome del ricco cast; Roma bene, 1971 , di Carlo Lizzani dove Manfredi è il commissario Carmelo Mazzullo, chiamato ad indagare sulle grandi meschinità e i piccoli crimini di una classe borghese al tramonto.
In altri casi, Nino Manfredi ha interpretato personaggi storici romani come Gin o Girolimoni in Girolimoni il mostro dì Roma di Damiano Damiani, 1972 , ambientato nella Roma fascista o come Pasquino che, sempre sotto la regia di Luigi Magni, ha interpretato in versione giovanile ne L’anno del Signore, 1969, e in versione anziana nel già citato La notte di Pasquino. Ma sempre con Magni, Manfredi è stato anche Ciceruacchio ne In nome del popolo italiano, 1990, oltre che monsignor Colombo da Yriverno in un altro film romanesco di ambientazione risorgimentale In nome del papa re, 1977. In questi film in costume, girati un po’ dal vero, ma soprattutto in una Roma ricostruita in studio, gli scenari ricorrenti sono quelli di piazza del Popolo, Porta Flaminia , Castel Sant’ Angeno, piazza Farnese, l’isola Tiberina, via Giulia, piazza Mattei e Sant’Andrea della Valle.
Nei film di ambientazione contemporanea, nei quali Manfredi predilige i ruoli da uomo comune alle prese con un’infinitità di piccoli, prosaici problemi sullo sfondo c’è soprattutto una Roma popolare. La Roma dèlle trattorie della mezza porzione abbondante di C’eravamo tanto amati, 1974, in cui per la regia di Ettore Scola, Manfredi è Antonio, comunista convinto, compagno generoso, portantino al San Camillo. Ne Il carabiniere a cavallo di Carlo Liziani, 1961, da villa Borghese Manfredi si sposta nelle periferie della Roma del boom alla ricerca del quadrupe de’ ordinanza sottrattogli da una banda di zinggari. Nello stesso periodo è ambientato anche La parmigiana di Antonio Pietrangeli dove Manfredi interpreta Nino, fotografo mediocre e opportunista, che bazzica nel mondo del cinema.
Ma moltissima Roma appare anche ne Il padre dì famiglia di Nanni Loy, 1967, quasi il ritratto psicologico di una generazione che si accorge di aver tradito i propri ideali, . dove Manfredi è l’architetto di sinistra Marco Florio in contino movimento fra il Gianicolo e la Serpentara, la stazione Termini, il Pincio, l’Eur, la Cristoforo Colombo: immagini dì una città che sembra assistere impassibile alle sue crisi. E ugualmente romana è I’ambientazione di Straziami, ma di baci saziami di Dino Risi, 1968, dove, le tragicomiche avventure di Mario e Marisa, decisi ad eliminare il marito di lei, si svolgono fra piazza di Spagna e Trinità dei Monti, San Pietro e Borgo, Campo de’ Fiori e piazza Farnese, Cinecittà e la chiesa di San Giovanni Bosco.
Da La Repubblica, 5 giugno 2004
Manfredi non ha avuto abbastanza premi, non tanti quanti ne avrebbe meritati con la sua lunga e bella carriera, ed era uno di quei personaggi che ammetteva in tutta onestà di apprezzare e di desiderare i riconoscimenti, li considerava segni di stima e dì affetto, alimento essenziale per un attore.
E che attore. Tenace, caparbio, dotato di un’in-telligenza acuta e istintiva. Da sempre, da quando, ancora Saturnino, con il padre maresciallo di Pubblica Sicurezza e tutta la famiglia sì trasferì a Roma da Castro dei Volsci, il paese in provincia di Frosinone in cui era nato il 22 marzo 1921. Erano gli anni Trenta, i mezzi nella famiglia Manfredi, come in tante famiglie, erano scarsi. Ma non era la povertà il problema del ragazzo Manfredi, bensì una ribellione segreta, una voglia di eludere le regole della scuola e poi del collegio Santa Maria, da dove non a caso scappò più volte. Manfredi voleva altro, voleva uscire dal futuro d’impIegato di concetto o al massimo di avvocato, come sognava la famiglia.
Il primo scatto verso qualcosa d’artistico fu il banjo, che imparò a suonare durante una lunga degenza in sanatorio per una grave forma di pleurite. Entra nel complessino a plettro dell’ospedale, suona alla radio per i malati, si arrangia come presentatore in parrocchia, e tanto per non deludere la famiglia s’iscrive a Giurisprudenza. Finisce la guerra e Manfredi decide finalmente il suo destino entrando all’Accademia d arte drammatica e inventandosi mille mestieri per mantenersi, autista, assicuratore, postino, bookmaker.
Tenacia, volontà e talento lo portano ad affermarsi nel teatro drammatico prima, poi a vincere la sfida della rivista e del teatro leggero, sul palcoscenico come alla radio e poi in televisione. Ma il richiamo del cinema si fa sempre più forte all’inizio degli anni Cinquanta. Prima Io considera solo un’occasione per sperimentare qualcosa di nuovo, poi s’intestardisce, non capisce come tanti attori presi dalla strada come si diceva allora conquistassero il pubblico delle sale e lui no. «Vincevano proprio perché non sapevano recitare, perché non facevano niente. Dicevano le battute così, senza ricercare un’espressione e risultavano giusti. Io cercavo un significato, un’interpretazione. Mi resi conto che dovevo liberarmi di tutto quello che avevo imparato in Accademia e recuperare semplicità e spontaneità», disse in un intervista.
E così, cercando di dimenticare Shakespeare e di avvicinarsi di più al suo celebre slogan «fusse che fusse la vorta bbona», anche la carriera cinematografica di Nino Manfredi diventò possibile . M a non fu facile perché «non ero mai contento dei personaggi che mi affidavano . Presi l’abitudine d’interferire nelle sceneggiature, di sistemare le battute, di essere sempre presente sul set». Tanto che volle provare a fare tutto da solo, esordendo nella regia nel 1962 con l’episodio L’amore difficile, tratto da Italo Calvino, un piccolo film senza parole, un soldatino e una vedova che giocano di sguardi chiusi in un treno durante una calda estate siciliana. Un esordio sofisticato per i tempi così come nove anni dopo, quando tornò auto-re completo di Per grazia ricevuta, una riflessione satirica sull’educazione cattolica in un paesino di provincia, stupì la critica e il pubblico con il suo talento visionario e con le sue azzardate scelte visive.
Nell’ambiente del cinema intanto si era diffusa la sua fama di rompiscatole, poco accomodante, puntiglioso. Ma questo non impedì ai grandi maestri dell’epoca di esaltarne le doti d’attore totale, comico e drammatico, vigliacco ed eroico, terreno e surreale.
Da La Repubblica, 5 giugno 2004
L'Italia sapeva leggere l'italia: questo certamente è accaduto in un determinato periodo del dopoguerra. Poi, come se le pagine del libro della nostra storia fossero state strappate, non siamo più… I riusciti a comprendere il racconto dell' Italia in cui siamo. Oggi la politica usa una (…) terminologia che invita al coinvolgimento reciproco, che suggerisce il confronto: concertazione, squadra, fare sistemai.. Ma nonostante le buone intenzioni del lessico, non sappia-mo più guardarci in faccia e, credo, abbiamo finito per perdere contatto sia con la realtà, sia con noi stessi.
Nonostante le notizie così importanti di questi giorni, dalla visita del presidente americano agli attentati in Medio Oriente, ai poveri martiri massacrati nel nome dell'Islam, è ernozionante lo spazio che ha trovato la notizia della morte - peraltro una morte già da un anno tristemente annunciata - di Nino Manfredi. Un bravo attore, popolare, ma soprattutto un protagonista dì quella commedia all'italia-na che potrebbe ribattezzarsi così: quando gli italiani sapevano guardarsi in faccia.
Lo stesso sistema politico di quegli anni era capace di rappresentarsi per ciò che era: i comunisti facevano i comunisti, i democristiani non avevano timore di fare i democristiani, gli ex fascisti con prudenza facevano gli ex fascisti. Quella era una politica che si lasciava leggere per ciò che davvero era: capiva il mondo e poteva farsi capire per riuscire poi a intervenire nei processi sociali, orientandoli o modificandoli. E il cinema - arte straordinaria nell'interpretare il significato della realtà - rispecchiava quella commedia italiana con straordinaria vivacità, come uno specchio che rifletteva con passione e senza fraintendimenti tutto il bello e il marcio della vita di quel tempo.
C'erano solo gli intellettuali di sinistra, non per caso, a rovesciare valanghe di critiche sul genere «commedia all'italiana», rimanendo ovviamente un passo indietro rispetto alla realtà e alla gente che tanto apprezzava quei film. Ma restavano un passo indietro anche rispetto alla politica e al loro partito di riferimento, molto attento a non perdere contatti con i sentimenti, con i valori popolari degli italiani in quegli anni Sessanta e Settanta. In fondo, sul realismo dei partiti socialcomunisti, è prevalso il ciarpame ideologico degli intellettuali dì sinistra: i film dì Moretti o di Muccino rappresentano stereotipi ideologici, sono evanescenti, non hanno nessun autentico contatto con la realtà, mostrano una impressionante difficoltà a fare i conti con la storia, gli attori sembrano degli invitati ai dibattiti di Ballarò.
Oggi si è incapaci di leggere il nostro tempo con la sincerità di sentimenti, però, per fortuna, si prova tanta nostalgia guardando indietro, si prova affetto e commozione salutando un testimone di quegli anni, che ci ha lasciato. Sembra che ci sia un velo, sceso sul nostro tempo, che ci impedisca dì guardare le cose come sono: forse così riusciamo ad essere ciò che non siamo; forse così riusciamo a credere nel nostro futuro. Se abbiamo la possibilità di rivedere uno di quei vecchi film della commedia all'italiana, ciò che ancora incanta è la freschezza, la semplicità dei sentimenti che costruiscono la trama delle storie.
Sentimenti nobili, mediocri, vili, deplorevoli che venivano esibiti con grande franchezza, come per invitarci a riflettere sui problemi più importanti delle nostre vicende storiche e politiche senza però perdere di vista la nostra identità con la sua generosità o la sua miserabilità, senza dimenticare che la vita è innanzitutto figlia dei nostri sentimenti. Attori come Manfredi, o Sordi, o Tognazzi, o Gassman, o Mastroianni erano i piccoli eroi e i piccoli mostri della nostra quotidianità: noi li osservavamo per poterci guardare in faccia, per scoprire come sì intrecciavano i nostri sentimenti.
Oggi non c'è niente e nessuno che si preoccupa di questa elementare educazione dei sentimenti che ha un'importanza artistica straordinaria, che dà alla politica un senso di realtà, che restituisce alle persone fiducia in se stesse.
Da Il Giornale, 6 giugno 2004
Manfredi, ciociaro e orgoglioso delle sue origini, è stato attore, scrittore e regista sul grande schermo, in tv e sul palcoscenico. Sposato da 49 anni con l’ex indossatrice Erminia Ferrari, lascia quattro figli e una serie d’interpretazioni memorabili in circa 110 film. La sua ironia un po’ ruvida, velata di amarezza, lo ha accompagnato fino alla fine. Ricevendo un premio a Taormina, giusto un anno fa (e domenica prossima il festival gli dedicherà un omaggio), Nino Manfredi già stanco e malato si rivolse al pubblico del teatro Greco che tributava una standing ovation a Gregory Peck, scomparso da poche ore: «Ahò, quando toccherà a me, siate altrettanto calorosi...». Il pensiero della morte ha accompagnato la sua esistenza fin da quando, giovanissimo, era sopravvissuto alla tubercolosi. Maschera romanesca, alfiere di una recitazione asciutta che Dino Risi paragonava a quella di Eduardo, negli ultimi anni Manfredi esprimeva un’amarezza costante: contro il cinema ingrato che l’aveva relegato in un angolo; contro le istituzioni incapaci di promuovere scuole di sceneggiatura; contro i nuovi comici, portatori di incassi ma «limitati nel talento»; contro l’«involgarimento generale» che non risparmiava nemmeno il suo amatissimo mestiere. E proprio in onore di questo mestiere, l’attore ha continuato a lavorare senza tregua. Soprattutto in tv, interpretando personaggi di anziano fortemente connotati o coraggiosi, dall’ex poliziotto di Linda e il brigadiere all’omosessuale di Difetto di famiglia .
Quando il cinema degli anni Ottanta mise da parte i “moschettieri” a favore dei giovani comici, Nino si gettò nel teatro con un attivismo al limite della resistenza fisica. E con una buona dose di rabbia: «Recitare in palcoscenico è fare l’attore», diceva dopo aver ricevuto la consueta razione di applausi per le commedie scritte da lui, come Gente di facili costumi e Viva gli sposi . Anche il suo contributo ultradecennale alla pubblicità di un caffè («più lo mandi giù e più ti tira su») si trasformò in una forma di rivincita: «Se un attore fa durare uno spot 13 anni», ripeteva, «vuol dire che ha carisma da vendere».
Delle proprie origini ”burine”, Nino aveva fatto un marchio di fabbrica, una garanzia di autenticità. Era nato ciociaro e amava rievocare i suoi antenati contadini «con la vanga in mano», il suo cammino lungo e faticoso verso il successo, i sacrifici, la coerenza. Raccontava di quando «sull’onda del successo tv, mi proposero il film Fusse che fusse la vorta bbona e io rifiutai un assegno favoloso, con tutto che a casa non avevo nemmeno i mobili...».
Manfredi era nato a Castro dei Volsci, il 22 marzo 1921, da una famiglia di emigranti. Il padre, guardia municipale a Roma, per il giovane Nino vedeva un futuro di avvocato: e il ragazzo non l’avrebbe deluso laureandosi in Giurisprudenza mentre frequentava l’Accademia d’Arte drammatica. A quindici anni, Manfredi si ammala di tbc e finisce in sanatorio. E’ lì che nasce l’amore per il teatro, «un gioco che si faceva per prolungare la vita con la fantasia». Forse nasce anche quell’esigenza di risarcimento che lo accompagnerà tutta la vita, il suo ateismo dichiarato. E il gusto per le sfide. «Dovevo andarmene allora: si vede che la Comare Secca pensa di avermi già preso», diceva l’attore.
Manfredi ragazzo vince una borsa di studio all’Accademia d’Arte drammatica, comincia a recitare con Squarzina e Pandolfi. Approda al Piccolo di Milano, con Strehler. Ma la popolarità vera, come a Sordi, anche a lui arriva dalla radio: rivistine di largo ascolto gli apriranno la strada alla commedia musicale di Garinei e Giovannini. Nel 1958-59, l’attore porta in scena Un trapezio per Lisistrata , nel ’62-63 è il protagonista trionfale di Rugantino , che riprenderà anni più tardi. Con il successo tv di Canzonissima , lancia il tipo del ”burino” e comincia a girare un film dietro l’altro: Susanna tutta panna, Camping, L’audace colpo dei soliti ignoti .
Testardo com’è, al culmine del successo commerciale Manfredi vuole tentare la strada ”difficile” dell’autore. E a dispetto delle più fosche previsioni, dirige L’avventura di un soldato , da Calvino, due ore di interpretazione muta che gli procurano l’osanna della critica. Come la seconda regia, Per grazia ricevuta , che nel ’71 vinse a Cannes. Autore si sentì sempre, anche a costo di scontrarsi con i registi e farsi la fama di rompiscatole.
Con Impiegato, nel ’60, Manfredi inaugura la galleria dei personaggi sconfitti: dal bandito mancato di A cavallo della tigre al pubblicitario da strapazzo di La parmigiana e di Io la conoscevo bene , dal carnefice per forza di La ballata del boia all’emigrante senza fortuna di Il gaucho , al Padre di famiglia. Seguono Riusciranno i nostri eroi, Crimen, Straziami ma di baci saziami . Negli anni Settanta, è Pasquino in Nell’anno del Signore, poi gira La Betia, fa Geppetto nel Pinocchio tv, è il protagonista di Lo chiameremo Andrea , di Pane e cioccolata , di C’eravamo tanto amati . Fa Brutti sporchi e cattivi , In nome del papa re, Attenti al buffone!, Il giocattolo . Nell’81, torna a dirigersi in Nudo di donna : il regista doveva essere Monicelli, ma Manfredi crede talmente nelle proprie idee da costringerlo a lasciargli il campo. Poi tocca a In nome del popolo sovrano , nel quale l’attore è Ciceruacchio. Seguiranno, negli anni 90, Colpo di luna, La carbonara, Una milanese a Roma, Apri gli occhi e sogna.
Manfredi aveva costruito una solida famiglia. Dal matrimonio con Erminia sono nati Roberta, Giovanna e Luca, regista. Come molte mogli di uomini «bugiardi e infedeli» (e Manfredi ammetteva i suoi difetti, considerandoli «veniali»), la signora è stata la compagna paziente, l’ancora di salvezza, la colonna. Anche quando, l’anno scorso, rispuntò una figlia bulgara ”segreta” che chiese l’interdizione di Nino: Erminia era in prima fila a difendere il marito. «Non la cambierei con nessun’altra», diceva lui, e fino all’ultimo l’ha cercata con gli occhi.
Da Il Messaggero, 5 giugno 2004
Li chiamavano “I colonnelli della risata”: Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vitforio Gassman e lui, Nino Manfredi da Castro dei Volsci, Frosinone, in piena Ciociaria. nell’arco di una decina d’anni se ne sono andati tutti, lasciando la commedia all’italiana orfana, svuotata senza rimedio. Una stagione che con la morte di Nino Manfredi si è, definitivamente, chiusa. Colonnelli di una risata cinica e brutale, sorridente e divertita, che per lustri ha accompagnato l’Italia e gli italiani e qualche spicchio d’Europa (francesi soprattutto). Gli anni 50 del neorealismo rosa e, subito dopo, il boom. In un paese che si sopravvalutava, confidando essenzialmente nell’arte di arrangiarsi, nel sole e nei mandolini, nelle nuove utilitarie che, improvvisamente, occuparono larga parte dei territorio e nei sogni non di rado frustrati che spingevano verso impossibili conquiste. La commedia all’italiana, i suoi registi e i suoi autori ma prima di ogni altra cosa, i suoi attori, l’avevano presa di mira, questa Italia. E, con affetto ma anche con specchiata cattiveria, giustamente la maltrattavano. Nino Manfredi era uno di quei corpi, di quei volti, di quei tic, perfetto rappresentante di una medietà romana nata piccolo borghese e agognante ricchezza e prosperità. Non a caso uno dei primi ruoli importanti di Nino è stato L’impiegato, diretto da Gianni Puccini. A differenza di Sordi, Manfredi giocava di rimbalzo: stava morettianamente in disparte, nella speranza di farsi notare. Un commediante che assommava i suoi caratteri calcolando le sottrazioni, i silenzi, gli sguardi obliqui, gli occhi stralunati, gli accenti di una italianità affogata nei regionalismi e nelle strutturali divisioni geografiche e culturali.
La sua filmografia testimonia di una carriera lunga e assai brillante, ripiena come un uovo di oltre centodieci film, episodi, serie televisive. Non ci sono i lavori degli ultimi vent’anni, un’epoca dalla quale i Colonnelli si tennero alla larga, un po’ perché soppiantati dai loro presunti eredi, i Malincomici; un po’ perché nei frattempo non pochi registi e sceneggiatori si spensero o spensero la vena creativa. Quella che consentì a Nino Manfredi di vivere, tra la metà degli anni ‘6o e il 1980, il suo momento d’oro. Compresa la parentesi televisiva, tra Canzonissime e quel capolavoro di fiction Tv che si chiama Le avventure di Pinocchio. Al di là delle sue caratterizzazioni più riuscite (così, alla rinfusa, rincorrendo una memoria contenta di essere stata divertita con intelligenza e in assenza di volgarità, in un’ideale mostra abitata di straordinaria tragicomicità Straziami ma di baci saziami, Pane e cioccolata, A cavallo della tigre, gli episodi di Le bambole e I complessi, Vedo nudo, Operazione San Gennaro, Brutti, sporchi e cattivi, Adulterio all’italiana...), è con due registi che la verve di Manfredi ha potuto svelarsi e dispiegarsi come non mai: Luigi Magni e Namii Loy.
Col primo assumendo il (da lui) graditissimo compito di vestire i panni dei romani ante litteram, fossero negli anni del Signore o in nome di papi re. Col secondo allestendo una galleria di figure molto ben circoscritte che, a nostro parere, rendono - per dirla con uno dei titoli più fortunati e felici della carriera di Manfredi e ricevono grazia dal talento forse più nascosto e più vero, più potente e autentico di Nino. Pensiamo a Rosolino Paternò soldato, agrodolce prigioniero di guerra uscito dalle penne di Age e Scarpelli; a Café Express, che s’addentra nell’umanissima drammaticità esorcizzata dalla capacità di “svoltare“ ogni giorno di un uomo (realmente esistito) che - clandestinamente - prepara e prende caffé sui treni; e specialmente a Il padre di famiglia, probabilmente il tratto più intenso e la punta più alta dei Manfredi protagonista della commedia all’italiana: un architetto di sinistra che perde i pezzi dei suoi ideali, politici e sentimentali, sotto i colpi della dura realtà quotidiana, in un Belpaese drogato da un boom solo di facciata. Attore di cinema, dunque, ma anche di teatro ( classico e leggero, uno dei cavalli di razza della premiata ditta Garinei & Giovannini), televisione (nei classici varietà del sabato sera e, di recente, come popolare poliziotto), e radio e moltissimo doppiaggio nei primi anni del suo percorso che sognava ciò che, successivamente, gli riuscirà. Dimenticato troppo dai premi e dall’ultimo cinema del mondo ora dovrà essere quanto meno risarcito con una seppur tardiva distribuzione dei suo testamento attoriale, tristemente (per il nostro cinema) “scritto“ in Spagna, per il film La luz prodigiosa, in cui presta le sue grandi rughe di grande vecchio (83 anni) al poeta Federico Garcia Lorca. Un puntuale finale di partita
Da Film Tv, n. 24, 2004