Steve McQueen (Terence Steven McQueen) è un attore statunitense, è nato il 24 marzo 1930 a Beech Grove, Indiana (USA) ed è morto il 7 novembre 1980 all'età di 50 anni a Juárez (Messico).
Tre, uno, otto, otto: era questo il suo numero di matricola al riformatorio di chino, un sobborgo orientale di Los Angeles, dove Steve McQueen trascorse 14 mesi all’età di 15 anni, ed era questo numero che (racconta il suo biografo Christopher Sandford) l’attore sussurrava ossessivamente trentacinque anni dopo, il 7 novembre 1980, nella clinica di Juarez dove era appena stato operato di tumore e dove sarebbe morto di li a poche ore. Era nato a Indianapolis il 24 marzo del 1930, il padre era sparito immediatamente e la madre aveva continuato a fare la spola tra Indianapolis e Slater, una zona agricola e integralista del Missouri dove viveva la sua famiglia d’origine. Aveva anche fatto la spola tra molti uomini, nessuno gentile con Steve. Furono la madre e uno dei suoi mariti a rinchiuderlo in riformatorio nel 1945. Un’America, un’infanzia, un’adolescenza, legami familiari che ricordano le storie di J. T Leroy; ma, a differenza del protagonista di Ingannevole è il cuore e Sarah. McQueen, appena potè, scappò a gambe levate dalla madre, come da tutte le donne che incontrò più o meno fuggevolmente nella sua vita. Sempre secondo Sandford, il suo motto con le incalcolabili conquiste, amanti, fidanzate e persino mogli (tre) era «Fuck and run». D’altronde, la fuga, con il desiderio di rivalsa e la passione per la velocità, è stata una delle costanti della sua vita: tentò di scappare 5 volte in 14 mesi dal riformatorio; quando nel ‘46 accettò l’invito della madre, vedova, di trasferirsi da lei a New York, vide la stamberga che gli aveva destinato, girò le spalle e se andò per sempre; si arruolò nella marina mercantile e mollò la nave due settimane dopo a Santo Domingo (andò meglio con i marines, dove resiste per tre anni, dal ‘47 al ‘50). La grande fuga (il film di Sturges del ‘63 che lo trasformò in un idolo internazionale) sembra quasi un’autobiografia: Virgil Hilts, il capitano americano che detiene il record di fughe dai campi di prigionia tedeschi, e che continua a riprovarci, viene sempre ripreso e sbattuto in isolamento, dove si mantiene sveglio facendo ossessivamente rimbalzare contro la parete la pallina da baseball, è un solitario, ostinato, acrobatico, ironico loser. Maglietta sempre più consunta, mezzo sorriso, sguardo interrogativo, andatura piena di energia trattenuta, McQueen materializza la versione moderna dell’eroe americano per eccellenza, quello che nei western se ne va via da solo nell’ultima inquadratura, quello a cui piacciono le sfide, lo scommettitore ostinato fino alla sconfitta. McQueen riempì un vuoto, fu l’anello mancante tra la generazione dell’Actors Studio (Clift, Brando, Newman soprattutto, che era il suo modello e del quale aveva giurato sarebbe diventato più famoso) e quella più vecchia del Rat Pack di Sinatra-Davis-Martin, dai quali aveva ereditato l’aplomb da dandy e un certo cinismo ironico. Facesse il ladro straricco e internazionale (Il caso Thomas Crown), il poliziotto anti-conformista e testardo (Bullitt, film “di culto” ed esemplare memorabile degli anni ‘6o), il giovane outsider che sfida il re del poker (Cincinnati Kid), il cowboy (dall’impassibile “secondo” di Yul Brynner nel film che lo lanciò, I magnifici sette, al malinconico perdente di L’ultimo buscadero), il rapinatore (Getaway!), il campione automobilistico (Le 24 ore di Le Mans), persino il pompiere o il marinaio (L’inferno di cristallo e Quelli della “San Pablo”, la sua unica candidatura all’Oscar), Steve McQueen pareva avesse sempre un codice sotterraneo, un filo diretto di complicità “personale” con il pubblico. Un farabutto irresistibile che, prima o poi, sarebbe saltato sulla moto o sull’auto e ci avrebbe stupiti.
Da Film Tv, n.. 45, 8 novembre 2005
Sullo schermo parlava poco, ma bene: «Lo vedi quel cavallo? E con me da molti anni, eppure non gli ho mai dato un nome». Così rispondeva Steve McQueen nel film Tom Horn alla bella, apprensiva e incauta femmina (Linda Evans, la bionda di Dallas) che gli chiedeva di dirle una buona volta se la amasse. Era così anche nella vita e quando se ne andò, venticinque anni fa, fino all’ultimo cercò di non far sapere che aveva un male incurabile e che si era affidato a un curatore messicano. Morì in quella terra di nessuno che è il confine fra il Texas e il Messico, bagnato dalle acque limacciose del Rio Grande e dal sudore dei lavoratori a giornata. Così nel 1980 McQueen (uno dei primi divi a essere chiamato solo col cognome, secco e sonoro come una pallottola, invece che col nome di battesimo, come piace tanto ai paternalisti di Hollywood), grande amante di auto e moto, perse la sua ultima corsa. Era nato nel 1930 e avrebbe potuto far suo lo sberleffo finale del grande comico Ettore Petrolini: «Che vergogna morire a cinquant’anni». McQueen era quel raro e carismatico tipo di attore che sullo schermo sembrava sempre recitare se stesso e le sue esperienze anziché annullarsi nel personaggio. «Una vita come quelle dei film, una vita come Steve McQueen», come sintetizzò mirabilmente il poeta maledetto Vasco Rossi nella canzone Vita spericolata<7i>, inno di tutti gli scavezzacolli del mondo alla ricerca di un’esistenza «esagerata» e «maleducata», «che se ne frega di tutto» ed è «piena di guai». L’Italia ha sorprendentemente fatto molto per il mito di McQueen. Vent’anni prima c’era stato un film dolente che in tutto il mondo aveva mantenuto il titolo originale, cioè Junior Bonner (salvo aggiungerci in quelli di lingua spagnola il sottotitolo El rey del rodeo), ma che nella versione italiana era diventato stentoreo come un’epigrafe: L’ultimo buscadero. E fece nascere perfino un giornale. E che dire di Blob, cioè Fluido mortale, un filmetto di serie B (il primo di McQueen da protagonista) assurto non solo a titolo di una trasmissione ma anche a simbolo di una tecnica di rilettura televisiva? E se proprio vogliamo esagerare, c’è la pubblicità delle scarpe Tod’s di Diego Della Valle che da anni lo ha trasformato nel suo impareggiabile testimonial.
Perfino le cifre fanno fatica a riassumere la sua caotica esistenza: 3 mogli, 2 figli, 210 motociclette, 55 macchine, 5 aerei e 26 film, più i 3 in cui c’è ma non appare nei crediti. L’epopea di McQueen non può essere raccontata che nella maniera veloce in cui l’ha bruciata. E stato tutto una contraddizione: è ricordato come un “action hero” (studiò le arti marziali e fu tra i prescelti per trasportare la bara di Brace Lee; è finito sulla Copertina di Sports Illustrated) e alla maniera di Errol Flynn o Douglas Fairbanks non ne voleva sapere di usare gli stuntmen, pur avendo il marchio di garanzia dell’Actors Studio (ci entrò nel 1955, anno di una selezione feroce: su 2000 candidati, solo cinque promossi; un altro fu Martin Landau).
A differenza di James Dean, uno dei suoi eroi, era un attore minimalista che recitava spesso solo con l’espressione degli occhi. Divenne attore per caso, non per vocazione, dopo una vita dickensiana ambientata nelle praterie americane (era nato in Indiana). Non conobbe mai il padre e una volta confessò che gli sarebbe piaciuto incontrano «per poterlo uccidere». Quando finalmente riuscì a localizzarlo in un piccolo paese californiano, era tardi: era morto da appena tre mesi. Anche con la mamma ebbe un rapporto difficile, fatto di lunghi periodi di separazione, e peggio gli andò coi padri putativi. Mollò la scuola prima di finire le elementari, fu arrestato per il furto di borchie d’auto e finì in un riformatorio per giovani delinquenti e disadattati. Poi fece i mille lavoretti che di solito vengono inventati per rimpinguare le biografie: ma da marinaio a giocatore di poker professionista, da meccanico a scaricatore, passando per Marine, nel suo caso fu tutto vero. Contemporaneamente a Blob il primo ruolo di protagonista fu nel serial tv Wanted Dead or Alive, tre anni di repliche. Grazie a quel western gli arrivò la prima scrittura importante: Vin, uno dei Magnifici sette di John Sturges (1960). Ed è paradossale che sia stato un altro film di gruppo (La grande fuga, ancora di Sturges, 1963) a farne una stella: fu sua l’idea di fuggire da un campo di concentramento in moto invece che in treno e aiutò a camuffare una modernissima Triumph inglese del 1961 in una Bmw tedesca dei tempi della guerra.
Da Ciak , n. 11, novembre 2005
In realtà raramente c’è stato attore più solitario e individualista di McQueen, come dimostrò poi in Cincinnati Kid (1965) di Norman Jewison, Nevada Smith (1966), di Henry Hathaway e Bullitt (1968) di Peter Yates. Fra la metà dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, fu la star più popolare e pagata d’America, e la storia d’amore scoppiata con Ali McGraw sul set di Getaway! ne fece anche un protagonista delle copertine dei tabloid. Si sposarono e divorziarono 5 anni dopo. Disse lei: «E ombroso, poco socievole, con sbalzi d’umore continui Tutto d’un pezzo, non farebbe mai cose come cedere ai compromessi o accettare una sconfitta. È sincero fino alla brutalità, insomma è l’incarnazione di un selvaggio che ha imparato le buone maniere ma che è sempre pronto a ridiventare un uomo dei boschi, se qualcosa gli va storto». Nella lista delle celebrità da uccidere della banda di Charles Manson era al primo posto: la notte in cui fu massacrata Sharon Tate, moglie di Polanski, si salvò solo perché all’ultimo minuto rinunciò all’invito per un incontro galante con una ragazza appena conosciuta. Da allora girò sempre armato. Dopo Papillon e L’inferno di cristallo, abbandonò il cinema per quattro anni, facendosi crescere i capelli e la barba e ingrassando di venti chili. E quando tornò fece un formidabile flop producendosi da solo Il nemico del popolo, da Ibsen. Il suo caratteraccio fece impazzire registi e produttori (famosa la reazione di Sam Peckinpah, quando vide la versione finale di L’ultimo buscadero, tagliato e rimontato da McQueen: fece pipì contro lo schermo). Chiedeva compensi enormi e un giorno comunicò che per fargli leggere un copione bisognava versargli una tassa di un milione e mezzo di dollari; se avesse accettato avrebbe dovuto ricevere poi un altro milione e mezzo.
Erano un divertimento, e non un lavoro, solo i film sulle corse: dal kolossal Le 24 ore di Le Mans al documentario sul motocross On Any Sunday. Durante il suo periodo da eremita, poi, si presentò di nascosto sul set del B movie Dixie Dinamite e Patsy Tritolo (1976) e accettò la paga degli stuntmen: 120 dollari. Oltre che per i film fatti McQueen è famoso anche per quelli rifiutati: Butch Cassidy and The Sundance Kid (sostituito da Robert Redford) e Apocalypse Now (da Martin Sheen).
Definito il re del cool, è stato il primo uomo ad apparire sulla copertina del sofisticato Harper’s Bazaar e ha lanciato molte mode: il girocollo di Bullit, poi adottato dalla polizia di San Francisco, e il completo principe di Galles di L’affare Thomas Crown (la costumista raccontò di quella signora che a Boston con la scusa di sentire il tessuto gli toccò il sedere). Anche due dei suoi orologi sono ancora di moda: lo Heuer Monaco e il Rolex Explorer II. Hollywood sta ancora cercando il suo erede: l’ultimo pretendente è, almeno fisicamente, Paul Wilson (Fast and Furious). Finora nei remake di due dei suoi film erano stati scelti Mec Baldwin (Getaway) e Pierce Brosnan (Il caso Thomas Crown). E per The Bodyguard, una sceneggiatura che cercò inutilmente di realizzare nel 1976, Kevin Costner. Pur essendo un’icona della cosiddetta “Beatles generation”, è stato ricordato nelle canzoni di Sheryl Crow, Tori Amos, Beastie Boys e Rem. L’omaggio più curioso rimane quello dei Rolling Stones in una canzone del 1973, Starf*cker poi ribattezzata Star Star. L’editore, Atlantic Records, non se la sentiva di pubblicarla, allora Mick Jagger la mandò a McQueen che accettò. Il verso incriminato era l’ultimo in cui si parlava di una groupie che aveva scatenato l’ira di Ali MacGraw per aver fatto una fellatio all’attore («Yeah, Ali MacGraw got mad with you/ for givin’ h **d to Steve McQueen»).
Ha avuto una sola nomination all’Oscar per Quelli della San Pablo. La mattonella con le sue impronte al Chinese Theatre di Hollywood Boulevard è l’unica montata al contrario.
Da Ciak , n. 11, novembre 2005