Ugo Tognazzi è un attore italiano, regista, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, è nato il 23 marzo 1922 a Cremona (Italia) ed è morto il 27 ottobre 1990 all'età di 68 anni a Roma (Italia).
L’ultima volta che ho diretto il festival di Taormina prima di andare a Venezia a presiedere la Biennale, avevo organizzato un talk-show, in seguito ripreso dalla televisione con il titolo «I quattro colonnelli della commedia all’italiana». Lo avevo intitolato, appunto, «La commedia all’italiana» e vi avevo fatto partecipare Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi. Un vero spasso per il pubblico che assisteva, ma uno spasso anche per quei quattro che, sul palcoscenico del Palazzo dei Congressi, si scambiavano ricordi, battute, ora polemizzando tra loro, ora, invece, come spesso avevano fatto nei loro film più celebrati, facendosi reciprocamente da «spalla». Curiosamente, proprio verso la fine (era già sera tardi), Tognazzi si addormentò e, svegliato bruscamente da Gassman, riconobbe: «Forse abbiamo già fatto ridere abbastanza, adesso, ammettiamolo, stiamo diventando soporiferi». Naturalmente nessuno di noi prese per buona la spiegazione e la moglie Franca Bettoja, che assisteva all’esibizione in platea, mi sembrò piuttosto turbata. Mi disse a bassa voce: «Ugo da qualche tempo non sta bene, lo nasconde così, buttando tutto in burletta, ma io ho già sentito dei medici e non è proprio uno scherzo». Me ne preoccupai anch’io e infatti qualche tempo dopo non fu una sorpresa la notizia che l’avevamo perduto. Ai funerali, esattamente quindici anni fa, mi recai con molta malinconia. Che però, onestamente, sentii, se non alleviata, quasi mutata di natura dal ricordo amabile dell’allegria così calda che Tognazzi mi aveva elargito in tutti gli anni della nostra lunga amicizia, sia nel privato, sia da quegli schermi dove io, da critico, annotavo puntualmente i suoi tanti, indiscutibili successi. Divertito di vederlo scherzare in ogni occasione, persino al battesimo di suo figlio, nato dal suo matrimonio con Franca Bettoja. Ero andato spesso a Velletri, dove avevano una villa, nel periodo in cui Franca era in stato interessante e Ugo, per festeggiare la circostanza, offriva a tutti noi quei pranzi pantagruelici per i quali era giustamente famoso e che cucinava di persona sostenendo di essere molto più bravo come cuoco che non come attore. In occasione di uno di quei pranzi, Franca, cui mi legavano e mi legano tuttora anni di affettuosa amicizia, precedenti anche al suo rapporto con Ugo, mi propose di tenere a battesimo il figlio che stava aspettando. Accettai naturalmente con gioia e quando arrivò il momento mi trovai serio e computo al luogo dell’appuntamento che era la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, nella zona di piazza dell’Oro dove allora Ugo, quando era a Roma, abitava. All’improvviso, di fronte a me, si parò Marco Ferreri, con il quale in seguito avrei avuto ottimi rapporti mentre a quell’epoca i suoi film, di gusto spesso solo aggressivo, non mi convincevano fino in fondo. Cercai così di tenermi un po’ sulle mie, pur dimostrando quella cordialità che è comunque educato avere in chiesa nei confronti della gente che ci è vicina. Restai però di sasso quando, dal celebrante, sentii battezzare il bambino Gianmarco, ascoltando poco dopo Ugo che, con un riso addirittura sulfureo, mi disse: «Hai visto? Adesso, grazie a mio figlio, sono riuscito a mettere insieme te e Ferreri, Gian Luigi e Marco. Guai, d’ora in poi, se non restate uniti: sarebbe il piccolo Gianmarco ad andarci di mezzo». Una piccola beffa, che non cancellava però quella bonarietà settentrionale che era stata alla base, molti anni prima, dei nostri rapporti via via sempre più amichevoli. L’avevo seguito dagli esordi nel cinema, dopo i successi nel varietà e poi anche in teatro. L’avevo visto assumere a poco a poco una faccia che, intenzionalmente, non corrispondeva mai ad un tipo, perché poteva essere varia, multiforme, mutevole a seconda degli autori con cui si cimentava e a seconda delle cronache che gli si svolgevano attorno. Ora seguendo le mode, specie quelle della commedia, ora contrastandole con furbizia e intelligenza, ponendosi (specie quando sarebbe diventato anche regista) su posizioni spesso controcorrente. Con una baldanza che era in realtà soprattutto voglia di sarcasmo, con graffi e pepe. Agli inizi, dai «Cadetti di Guascogna» con Walter Chiari fino a tutti gli anni Cinquanta, era stato soprattutto protagonista di farse, con quella sua mimica che, anche nei guizzi più ironici, grondava bonomia. Nel panorama del nostro cinema in cui Sordi primeggiava ridendo alle spalle degli italiani, quei suoi modi non impegnati, quel suo gusto di far solo ridere (dopo le risate ottenute nella rivista e in televisione con Raimondo Vianello), riuscivano a catturare consensi immediati. L’aria, però, era nuova, non romanesca, e lo distingueva in mezzo agli altri, anche se ancora senza voli. Che arrivarono negli anni Sessanta, con l’imporsi addirittura prepotente di una personalità che doveva dar subito nell’occhio, in modo forse meno esuberante di prima, ma certo più caldo e anche più convinto. Molte e varie tappe felici, fino all’incontro con Ferreri che, con sei film di seguito, tra i Sessanta e i Settanta, doveva diventare il suo più autentico demiurgo, dando occasione, a quella sua maschera non di rado solo in apparenza cordiale, di aggiungere molto veleno, ai suoi lati indubbiamente positivi, con accenti in qualche caso luciferini. Ripenso a Ugo nell’Ape regina, nella Donna scimmia, in Marcia nuziale, nell’Udienza, in quel terribile grottesco che fu La grande abbuffata e poi in Non toccare la donna bianca. Era lui a diventare quasi torvo, con note sempre ambigue e difficili da decifrare, o era Ferreri a sibilargli all’orecchio quei toni e quei modi che stavano quasi radicalmente trasformando? Quei film a me non piacevano del tutto, ma una cosa era certa: l’incontro non poteva essere più creativo. Senza Ugo quelle imprese non sarebbero mai arrivate in porto e senza Ferreri quel nuovo personaggio che accendeva gli schermi di luci scure non si sarebbe mai aggiunto alla galleria - già ricca ma non ancora così complessa - delle caratterizzazioni di Ugo. Tant’è vero che subito dopo, anche senza la guida di Ferreri, dovetti accorgermi che lui rimaneva in quelle cifre: lo zolfo sembrava che gli fosse rimasto appiccicato sulla pelle e i giochi, ogni volta che li affrontava, avevano ormai toni asprigni, nell’ambito di un «grottesco» che sembrava segnalarlo in modo sempre più deciso. Da qui la sua creazione quasi terribile nei Mostri. Da qui, pur nella cordialità dei personaggi che avrebbe continuato a interpretare per altri due decenni, quella vena sottile di malizia che riusciva a trasformare ogni carattere, anche il più borghese, in un coacervo di astuzie sempre in grado di suscitare, con il riso, sussulti d’ansia. Come nella serie Amici miei, ad esempio, dove Ugo, nonostante quella sua aria quieta, si era forse proposto come la figura più tinta in nero. Lontanissimo ormai dalla farsa, attento a disegnare caratteri cui solo pochi gesti e con qualche minimo mutamento di espressione riusciva a dare i toni colorati e sopra le righe della beffa; senza rinunciare mai, perfino nei lazzi, alla misura. Senza quella misura, del resto, non avrebbe mai potuto essere un grande interprete di drammi, come mi aveva detto una volta in cui ci eravamo ritrovati a parlare delle sue interpretazioni «serie», nella Terrazza di Scola, ad esempio, nella Tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci, in Ultimo minuto di Avati. «Io non sono un attore comico - aveva tenuto a precisarmi - sono un attore e basta. Il resto viene dopo».
Da Il Tempo, 27 ottobre 2005
Poteva essere l’invenzione letteraria di Gianni Brera, il “tipo padano”, il provinciale del Nord per antonomasia, con la sua ostentata ruvidezza. Invece è esistito davvero: Ugo Tognazzi. Non una maschera, un attore. Aveva il fisico per recitare la macchietta “delle valli”, a volte dalle scarpe grosse e dal cervello fine, altre invece dal cervello stolido e dagli occhi storti. Quando la comicità era come il “cantagiro”, e prendeva di mira i mille campanili, lui contrastava l’aplomb di un altro settentrionale, però “urbano”, come Raimondo Vianello. Se c’è una parte della carriera di Tognazzi non ancora valorizzata, è quella divisa con il partner del programma Rai Un, due, tre. Furono la coppia della transizione: dietro di loro la rivista, davanti il cabaret moderno di Cochi e Renato, che ancora oggi è l’ossatura di cose tipo Zelig. E furono anche irriverenti prima di Dario Fo: una parodia del presidente Gronchi costò loro la trasmissione. Nonostante la popolarità e l’affiatamento della coppia, Ugo morde il freno. Non è un caratterista, anche se gli Steno e i Mattoli, con i quali tanto lavora negli anni ‘50, lo vedono soprattutto così. Anzi, già nel 1961 Tognazzi dirige Il mantenuto, e dice alcune cose chiare. Il suo campo d’azione è la commedia all’italiana, le tematiche sono le stesse che stanno facendo grandi colleghi come Sordi e Manfredi, alla berlina c’è l’italiano piccoloborghese. Però nel suo film nessuno si redime. Si respira una cattiveria strana. Solo una scintilla, per carità. Ma che segna una distinzione rispetto alla poetica degli altri “mattatori”, che non infieriscono mai sui propri personaggi e alla fine ne sono le incarnazioni quasi benevole. Tognazzi fa altro. Quando pensi che stia interpretando un verme, come il conte Mascetti di Amici miei, uno che ha mandato in vacca la famiglia per cazzeggiare con gli amici, scopri poi che nella surrealtà del carattere c’è qualcosa di tenero, se non di misericordioso. Viceversa, quando ti sembra di essere di fronte a un debole travolto da eventi più grandi di lui, come lo Spaggiari di La tragedia di un uomo ridicolo, poi lo scopri drammaticamente meschino, appunto irredimibile. Tognazzi è l’unico dei quattro moschettieri (oltre ai già citati Sordi e Manfredi, Vittorio Gassman) a non essere mai per forza e ad ogni costo “brava gente”. Beninteso, non stiamo facendo classifiche di merito, ma per gli altri tre il senso del tragico, che pure non manca, è sempre stemperato dal grottesco o dal commovente (vedi il Sordi di Un borghese piccolo piccolo). Tognazzi sa essere senza pietà. Sa infierire: su se stesso e su di noi. Uno dei suoi personaggi più memorabili, l’Emerenziano Paronzini di Venga a prendere il caffè da noi, entra in scena vestendosi in maniera impeccabile. Lo sappiamo galante, incorruttibile, magari un po’ opportunista ma si sa che nessuno è perfetto... Appena si mette a camminare, ecco che Tognazzi interviene, facendolo lievemente zoppicare, come ad anticipare uno scarto tra l’imperturbabilità dell’apparenza e la claudicazione dell’essenza. Un colpo di genio. Così come è sorprendente la sua ultima grande interpretazione, quella dell’avvocato Ferroni di Ultimo minuto di Pupi Avati, che avvocato in verità non è (non è neppure ragioniere...) e la cosa gli si ritorce contro. Siccome però è un mediano del lavoro in un mondo di finti giganti quale quello dello sport, alla fine si prenderà le sue rivincite. L’amarezza di Tognazzi non è mai una tonalità a comando. È sempre credibile. Come se nel profondo Ugo, così vorace nei confronti della vita, anche letteralmente, sfruttasse quel velo di tristezza permanente per cesellare i propri personaggi. Tognazzi, scomparso quindici anni fa, ha lasciato un vuoto. Degli attori italiani è stato il più completo. Più di Marcello Mastroianni, al quale è mancato il còté comico. E pian piano ci si accorge che ogni sua interpretazione è un lavoro di fino sui colori dell’anima, senza timore di svelare i più sgradevoli.
Da Film Tv, n. 43, 25 ottobre 2005
«La vecchiaia io la rifiuto assolutamente, il solo pensiero mi fa incazzare», soleva ripetere da un po' di anni Ugo Tognazzi. È stato di parola, togliendo il disturbo prima che fosse davvero troppo tardi. Fino all'ultimo si è sforzato di restar fedele alla sua filosofia, alla sua carriera di vorace libertino. Il mestiere d'attore era la cosa che gli piaceva più di tutte, ma anche le donne e, col procedere dell'età, l'arte culinaria sono state passioni coltivate con curiosità e con gusto. In esse era insaziabile, goloso, ma anche generoso. Autore di singolari libri di gastronomia, stava volentieri tra i fornelli, per sé ma soprattutto per gli amici. E tutti gli amici si sono radunati attorno a lui e lo hanno accompagnato all'ultimo viaggio.
Tognazzi era assai popolare, godeva di vastissima simpatia, dalla vita aveva avuto tutto, eppure era un uomo vulnerabile: sembrava solido, scettico, e pativa crisi di depressione. In una recente intervista televisiva, nel camerino del teatro dove rappresentava L'avaro di Molière, lui, il meno avaro dei nostri comici, vuotava amaramente il sacco della propria insoddisfazione. Avvicinandosi ai settant'anni, sentiva la sua vitalità sfuggirgli. E a ciò non poteva rassegnarsi. Assolutamente.
È morto come certamente avrebbe voluto, cioè mentre stava lavorando a un ennesimo film. Non era un film per il cinema ma per la televisione. Indifferente. È una serie intitolata La famiglia in giallo, e probabilmente aveva già girato abbastanza perché la sua ultima parte possa essere goduta dal pubblico. Il cinema gli aveva voltato le spalle, come dimostrava nel 1988 il suo ultimo film italiano I giorni del commissario Ambrosio: una prestazione di routine, stanca e senza la verve consueta.
D'altronde la televisione gli aveva dato la notorietà prima che il cinema. Risale agli anni Cinquanta il suo mitico programma comico Un, due, tre con Raimondo Vianello. La coppia faceva sbellicare gli italiani proprio perché, in quell'epoca di nerissimo conformismo, disturbava il manovratore, vale a dire il potere democristiano. Irritata per le irriverenze di attualità politica, la censura intervenne allontanando i due soci e bloccando la minaccia satirica che veniva dal piccolo schermo domestico. Magari fingendo di essere lo scemo del villaggio, Tognazzi era un pericolo pubblico: si dimostrava un buffone così indipendente, da prefigurare a modo suo un'opposizione al regime.
Certo in tutto quel decennio, e proprio a partire dal 1950 con I cadetti di Guascogna in compagnia di Walter Chiari, l'attore aveva fatto anche del cinema, addirittura troppo se si pensa che furono ben quarantatre i film cui partecipò prima del 1961, quando si fece definitivamente conoscere e rispettare con Il federale. Tognazzi arrivava al cinema (e alla televisione) dopo un quinquennio di apprendistato nel varietà, nella rivista e in genere nel teatro leggero: scuola eccellente, come si sa, da lui praticata nell'immediato dopoguerra. Come molti altri di quella provenienza, giunse allo schermo senza ambizioni, accontentandosi di tutte le partacce che gli offrivano, quasi sempre in coppia con un altro comico, in mezzo a soubrettes procaci, oppure quale «spalla» di Tina Pica e perfino di Totò, che avevano i loro nomi nel titolo dei film (Totò nella Luna, La Pica sul Pacifico). Ma a differenza di Walter Chiari, che avrebbe sprecato il proprio talento rimanendo un grande attore irrealizzato, a differenza di Vianello che si sarebbe rifugiato nella televisione, Ugo Tognazzi seppe attingere, perseguendolo con tenace concretezza tutta padana, un traguardo ben più corposo. La farsa, insomma, gli stava stretta ed egli lo sapeva.
Fu Luciano Salce a offrirgli l'occasione buona, all'inizio del decennio successivo, con Il federale (e poco dopo con La voglia matta e Le ore dell'amore). Ed ecco la macchietta del fascista tramutarsi nel corso della vicenda in personaggio grottesco e drammatico. Incaricato di scovare in campagna e portare in ceppi a Roma un anziano professore antifascista, la nostra zelante camicia nera, che spera con quest'impresa di guadagnarsi la nomina a federale, diventa tra le mani di Tognazzi (che da adolescente aveva conosciuto a Cremona le gesta brutali del ras Farinacci) un brillante ma impietoso ritratto di ottuso mascalzone fottuto dalla storia. A Roma sono già entrati gli alleati e, appena veste la divisa di federale, il disgraziato si vede piombare addosso i partigiani, e finirebbe male se non fosse il suo civile prigioniero a intercedere per lui. Nasceva con quel modesto film in bianco e nero un tipo nuovo d'interprete, capace di alzare il tono della commedia all'italiana, di gettare un fascio di luce chiaroscurata sull'indegnità morale, di voltare per così dire la medaglia della parodia ed esaminarne lo squallido rovescio umano.
Al tempo del Federale, Tognazzi si avviava ai quarant'anni. Non era più un giovanotto e cominciava a essere un attore maturo. Di tale raggiunta maturità ci darà con molta frequenza memorabili prove attraverso il centinaio di film che interpreterà d'ora
innanzi e per il corso di tre decenni. I dati della sua carriera sono infatti cospicui come quelli della sua vita privata (tre famiglie, quattro figli) e registrano complessivamente quasi centocinquanta film, di cui cinque da lui anche diretti a partire da Il mantenuto realizzato (e il fatto è di per sé eloquente) a ridosso del Federale in quello stesso anno 1961.
Con Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi, Ugo Tognazzi ha costituito il quartetto dei «moschettieri», più tardi dei «colonnelli» della commedia all'italiana. Al pari di essi ha raffigurato l'italiano quarantenne, poi cinquantenne e infine sessantenne, di fronte all'evoluzione-involuzione della società nazionale. Come in un'orchestrazione a quattro strumenti, questa pattuglia di irriducibili «mostri sacri» (cui in un secondo tempo si aggiungerà Marcello Mastroianni, partito dalla posizione di prim'attore giovane e «amoroso», sostanzialmente estranea agli altri quattro) ha recato un grosso contributo alla definizione psicologica e sociale di una categoria emergente, la categoria piccolo-borghese che tanta parte è stata della contemporanea storia d'Italia. Di tale condizione, stato d'animo, essenza caratteriale, Tognazzi è stato forse l'interprete più preciso, certamente il più naturale. E può anche darsi (perché no?) che questo limite piccolo-borghese, dal quale tuttavia ha tratto per forza d'istinto tutto il fondo malinconico o sinistro, abbia pesato come un macigno in quelle sue crisi di sconforto.
In fin dei conti, il titolo del film di Bertolucci che all'inizio degli anni Ottanta ha coronato la sua carriera con la pur tardiva palma d'oro di Cannes, può anche suonare emblematico: La tragedia di un uomo ridicolo. Cioè la tragedia di un piccolo-borghese arrivato, un industriale del formaggio, per il quale tutto viene messo in discussione, anzi tutto crolla con il misterioso rapimento del figlio, forse a opera dei terroristi e forse no. Il film non era pienamente riuscito, ma probabilmente l'autore aveva toccato un punto sensibile della psiche del suo protagonista, costringendolo a guardarsi allo specchio e in certo senso a rifuggire dalla propria immagine, che pure lo aveva portato al successo e gli aveva regalato ogni sorta di soddisfazioni.
Nella comitiva dei suoi compagnoni d'avventura, Tognazzi era l'unico «nordista». Anche Gassman era nato a Genova, con origini triestine e addirittura tedesche, ma per catturare il successo con I soliti ignoti si era prontamente romanizzato. Gli altri sono tutti laziali, e romanesco è il loro linguaggio. Tognazzi no:
nato a Cremona, è rimasto padano o genericamente lombardo. Pur nelle sue capacità mimetiche, pur nell'estrema varietà dei caratteri e dei tipi cui ha dato vita col suo ampio registro d'interprete, quella voce nasale, quella dizione settentrionale galleggiano intatte. Anche quando, unico italiano alla Comédie Française, ha recitato in francese il padre nei Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello, meritandosi la legion d'onore, le sue inflessioni rivelavano la sua ascendenza: il che comunque non gli impediva, come ha notato Aggeo Savioli, di conferire «lucida evidenza al lato guitto, istrionesco, viscido del personaggio (aspetto di solito poco esplorato o non approfondito)».
Se la commedia italiana in cinema è stata prevalentemente «alla romana», Tognazzi l'ha rinfrescata con un apporto anomalo, anarchico, ostile a quanto di «prefabbricato» poteva presentarsi. Se Salce ha avuto il merito di lanciarlo, e Dino Risi di far fruttare al meglio le sue doti comiche (basti pensare a quel gioiello di film a episodi che fu I mostri), non c'è dubbio che il regista a lui più congeniale sia stato Marco Ferreri, milanese come Risi. A partire dall'Ape regina, che è del 1963 per giungere dieci anni dopo a La grande abbuffata, Ferreri ha sempre messo in rilievo la fragilità del personaggio di fronte alle sue passioni dominanti: la donna e la cucina (che nell'ultimo film si trovano inestricabilmente e mortalmente congiunte). Grande amatore, Tognazzi è ridotto a una larva dall'ape regina Marina Vlady presa per moglie, la quale lo conduce alla tomba con un rito matrimoniale perfettamente cattolico. Nella Donna scimmia, è la moglie che muore, e l'uomo si accorge con profonda disperazione di ciò che perde, dopo averla cinicamente sfruttata come fenomeno di baraccone.
L'ape regina ebbe un esito felice nonostante l'intervento della censura o forse grazie a esso, e sbarcò perfino in America dove Bosley Crowther, pontifex maximus della critica sul «New York Times», capi benissimo «il notevole, asciutto stile della comicità» del protagonista, esemplificando: «Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce riflessioni ad ogni sua azione». La donna scimmia, invece, era un film troppo «sgradevole» per ottenere la stessa rispondenza di pubblico, anche se Tognazzi toccava punte più alte di realismo ed esprimeva un dolore più acuto. Ma in ogni caso fu proprio l'attore a dare atto al suo regista, ringraziandolo, di avergli aperto un orizzonte nuovo, di averlo portato cioè ad «amare il cinema non in se stesso ma in quanto possibilità di raccontare storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi», e quindi di affrontarli e analizzarli. «Conoscere, per mezzo del cinema, la vita» potrebbe proprio essere il motto di questo attore intelligente e onesto, da lui stesso formulato per una rivista cinematografica francese.
Da vero professionista della recitazione, Tognazzi accettava anche ruoli brevi, e ci pensava poi lui a inciderli in modo che non si dimenticano più: il professore morboso in Controsesso di Ferreri, il sarto mutolo in Straziami ma di baci saziami di Risi, il feroce cardinale in Nell'anno del Signore di Luigi Magni, e molte altre parti di fianco. Spicca su tutte la geniale comparsata in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, giustamente premiata col «Nastro d'argento» della critica: Tognazzi è l'attore deriso, il guitto da avanspettacolo che si esibisce, per cupidigia di servilismo e voluttà di perdente, in un mortificante tip-tap sulla tavola del ricco e spregevole padrone di casa.
Viceversa in Questa specie d'amore dello scrittore Alberto Bevilacqua egli impersona i due protagonisti, il figlio e il padre, immettendo in quest'ultimo, sereno antifascista parmigiano, un pathos controllato quanto esemplare. Le caratterizzazioni di Tognazzi sono particolarmente razionali e robuste, ogni qualvolta il suo personaggio ha a che fare con la legge: o quale vittima. come nell'ultimo episodio dei Fuorilegge del matrimonio di Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini,1963, o quale suo rappresentante, come nel Commissario Pepe di Ettore Scola, o come il giudice di In nome del popolo italiano di Risi, alle prese con il canagliesco industriale di Gassman. «Due film pessimisti - ha osservato Michele Anselmi - uniti, curiosamente, da uno stesso dilemma finale: bruciare o no delle prove? (perché la giustizia spesso salva dalla punizione i veri colpevoli)».
Non soltanto nello straordinario sketch di Io la conoscevo bene, ma in parecchie altre occasioni l'attore sceglie di rappresentare il perdente, e lo è ironicamente e infallibilmente nelle faccende di donne, in una sorta di inesorabile variante di quella «storia moderna» che fu L'aperegina. Cosi nei film di Franco Giraldi La bambolona e Cuori solitari, così nel Magnifico cornuto di Pietrangeli, nella Califfa di Bevilacqua, in Venga a prendere il caffé da noi di Alberto Lattuada, in Romanzo popolare di Mario Monicelli. Il nome di Monicelli ci porta ad Amici miei, che nel 1975 segnò il massimo della popolarità di Tognazzi, come più tardi Il vizietto in Francia. In quelle circostanze egli dovette con-cedere il bis e anche il tris; e da vecchio e randagio lupo dei palcoscenici minori, non poteva esserci per lui riconoscimento cinematografico più confortante. Ma non gli bastava, forse non ha mai cessato di mirare a una qualità più elevata. «Io sono un goloso. Goloso, ma non ingordo. Lì sta il segreto», diceva della sua cucina, con bertoldiana saggezza. Una ricetta che vale anche per il suo cinema.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006