Charles Laughton è un attore inglese, regista, è nato il 1 luglio 1899 a Scarborough (Gran Bretagna) ed è morto il 15 dicembre 1962 all'età di 63 anni a Los Angeles, California (USA).
Nato il primo luglio 1899 a Scarborough nello Yorkshire, in Gran Bretagna, colto e raffinato, Charles Laughton aveva desiderato recitare sin da bambino, tanto che convinse la sua famiglia a inviarlo a studiare alla RADA (Royal Academy of Dramatic Art). In quegli anni si affermò in una serie di cortometraggi in cui il ruolo di protagonista era sostenuto da una giovane attrice, Elsa Lanchester, che sarebbe divenuta sua moglie nel 1929. Esordì ufficialmente sulle scene nel 1926 nell'Ispettore generale di Gogol e si era già affermato come protagonista di commedie di consumo quando nel 1933 fu chiamato all'Old Vic per interpretare, fra l'altro, i personaggi principali in sette produzioni, tra cui Il giardino dei ciliegi, Misura per misura, La tempesta e Macbeth. A Shakespeare sarebbe tornato nel 1959 a Stratford-on-Avon nelle parti di Bottom (in Sogno di una notte di mezza estate, diretto da Peter Hall) e di re Lear. Fu inoltre, negli Usa, protagonista di Vita di Galileo (1947) di Brecht (che aveva conosciuto traducendo insieme proprio il Galileo), nonché di due testi di Shaw, Il maggiore Barbara e Don Giovanni all'inferno. Durante una tournée negli Stati Uniti venne notato dai produttori di Hollywood che gli fecero firmare un contratto con la Paramount e interpretò così il ruolo di un comandante di un sottomarino in un film basato sul classico triangolo borghese, The Devil and the Deep (Il diavolo nell'abisso, 1932). Per Laughton fu l'avvio di una fortunatissima carriera cinematografica, durante la quale partecipò a una cinquantina di film firmati dai più grandi registi, come De Mille, Korda, Lubitsch, Hitchcock e Wilder. La sua corporatura imponente, il suo sguardo penetrante, malizioso e sarcastico, la sua straordinaria incisività e la sua grandissima personalità, lo portarono a interpretare personaggi di rilievo, a volte cinici e crudeli, a volte comici o grotteschi, spesso tormentati da un'intima inquietudine. Nelle sue interpretazioni traspare una compiaciuta propensione a sublimare i lati oscuri della personalità umana in una trasfigurazione universale del male e del dramma del genere umano. Il ritratto di Enrico VIII in The Private Life of Henry VIII (Le sei mogli di Enrico VIII, 1933), per il quale ottenne il premio Oscar, ha fatto storia, ma non sono da meno le raffigurazioni del capitano Bligh in Mutiny on the Bounty (La tragedia del Bounty o Gli ammutinati del Bounty, 1935), del volgare e burbero taccagno di Hobson's Choice (Hobson il tiranno, 1954), del giudice-carnefice dell'hitchcockiano The Paradine Case (Il caso Paradine, 1947) o di Witness for the Prosecution (Testimone d'accusa, 1957), o del senatore Gracco in Spartacus (Spartacus, 1960). La sua carriera oscillerà sempre tra cinema e teatro: Shakespeare e Shaw, ma anche Billy Wilder, Stanley Kubrick, Alfred Hitchcock: sebbene le loro carriere procedessero di pari passo e il definitivo trasferimento a Hollywood avvenne per entrambi nello stesso periodo, Laughton e Hitchcock lavorarono insieme solo in due occasioni, per due delle pellicole hitchcockiane che ebbero minor fortuna: La taverna della Jamaica (1939) e Il caso Paradine (1947). Sul piano personale i due si intendevano bene, ma professionalmente Hitchcock considerava Laughton, per lo meno dopo il primo incontro, "infantile, indulgente con se stesso e indisciplinato" (così scrive John Taylor in Hitch). E quest'opinione, seppur confermata da molti colleghi di Laughton, non minò mai l'immutabile intensità della sua recitazione in una gamma di ruoli diversi sorprendente, considerato il suo aspetto singolare e sgraziato. Attore di razza, a volte forse poco controllato e debordante, Charles Laughton è stato anche regista cinematografico in una sola ma splendida occasione: Night of the Hunter (La morte corre sul fiume, 1955) bizzarro omaggio a Griffith in stile espressionista, un "nero" grottesco e inquietante che sarà un insuccesso di pubblico. Ormai malato, continuava a lavorare alla sceneggiatura tratta da Il nudo e il morto di Norman Mailer e a recitare sul palcoscenico sino alla fine. Laughton è morto il 15 dicembre 1962 a Hollywood.
Esiste un frammento, un minuto e mezzo all’interno di un film a episodi supervisionato da Luibitsch, che esprime la omniessenza del genio di Charles Laughton: un oscuro travet riceve un assegno da un milione di dollari da un milionario che, per non lasciare nulla ai parenti, sta beneficiando degli sconosciuti scelti a caso sull’elenco del telefono. L’impiegatino, senza scomporsi, si alza dalla sua scrivania, attraversa corridoi e uffici, bussa deferente alla porta del direttore, la apre e gli span in faccia una sonora pernacchia. Il tutto senza pronunciare parola, con andatura tranquilla e un viso impenetrabile, illuminato da quel lampo negli occhi che non si poteva censurare
(come disse Laughton a chi gli rimproverava gli sguardi incestuosi che rivolgeva alla figlia in La famiglia Barrett). II film era Se avessi un milione, l’anno il 1932, la pernacchia passò alla storia e Laughton divenne una star. In realtà, la parte che l’aveva lanciato a Hollywood, lo stesso anno, era quella di un imbronciato, capriccioso Nerone in Il segno della croce (sontuosa follia dei De Mille degli anni d’oro, cui si rifaranno, senza eguagliarla, i kolossal anni Cinquanta, come a Laughton si rifarà Peter Iistinov). Mentre la parte che lo lanciò come attore cinematografico nel suo paese d’origine arrivò nel 1933: un altro tiranno debordante, bulimico e donnaiolo, ma questa volta di acuminata intelligenza politica e persino simpatico, nonostante l’eliminazione di molte mogli. E Enrico VIII, il primo re dei Tudor, che proclamò la separazione tra Stato e Chiesa (e non solo per poter divorziare in pace), nel film di Alexander Korda che lancerà la moda inglese delle “vite private” dei personaggi celebri (e Laughton darà volto e voce a un altro, in L’arte e gli amori di Rembrandt). Da questo momento Charles Laughton, nato nel 1899 nello Yorkshire e destinato, come il padre, a una florida carriera di albergatore. (buttata alle ortiche a vent’anni contro il parere famigliare per iscriversi alla Royal Academy of Dramatic Art), già famoso e rispettatissimo sui palcoscenici inglesi e americani, diverrà, lui nato con il fisico e la faccia da caratterista, protagonista< anche nel cinema, corpulento, sornione e gongolante, Laughotn ha fato di tutto: ometti opachi (Quinto: non ammazzare) e gigioni roboanti(Capitan Kidd), artisti spiantati(I marciapiedi della metropoli) e infidi avventurieri(La taverna della Giamaica), Javier nei Miserabili, Maigret in L’uomo della torre Eiffel e Quasimodo in Notre Dame, Claudio in un leggendario film incompiuto di Sternberg e il più famoso Galileo di Brecht, diretto in teatro da Losey nel 1947. E fu, soprattutto, il sadico capitan Blight nellaTragedia del Bounty (un successo enorme che lo esasperava), il sublime Hobson il tiranno (forse la parte più bella della sua carriera, sintesi e ironica nemesi di tutte le altre), lo stizzoso avvocato di Testimone d’accusa (impagabile nei duetti con l’infermiera Elsa Lanchester che strizzavano l’occhio al loro matrimonio inossidabile), il senatore destrorso e insinuante di Tempesta su Washington (il suo ultimo film, del 1962, anno della sua morte). Laughton si impossessava delle parti, le metabolizzava, se le ricuciva addosso come un guanto. Come disse Korda: “Per lui recitare era come partorire. Quello di cui aveva bisogno non era tanto un regista quanto una levatrice”. Eppure, chissà perché, anche i registi più difficili lo lasciavano fare; persino Hitchcock si rassegnò (“Non potete dirigere un film di Laughton. Tutt’al più, potete sperare che vi faccia rapporto ogni giorno”). E quando li1 lui regista, per un’unica volta con La morte corre sul fiume, tirò fuori tutte le caratteristiche sotterranee che arricchivano i suoi “mostri” cinematografici: la timidezza e la grande cultura, la sensibilità lancinante dell’infanzia e la necessità morale, il gusto della bellezza e forse persino l’omosessualità con cui si destreggiò con discrezione e dolorosa ironia per tutta la vita.
Da FilmTv, 7 dicembre 2003
«Caro Longanesi, tutto sta a vedere se è grasso o magro: se è grasso, va male, è senza dubbio un gigione: se è magro, invece... ». Queste parole di colore oscuro dicevo a Longanesi scendendo per Via Veneto immersa nel crepuscolo d'una giornata di scirocco.
Eccoci al Gran Hotel.
«Stampa. Il ricevimento a Charles Laughton?».
«In fondo, la sala a destra, prego».
In fondo, sala a destra: ori e arazzi e specchi e «personalità» e aperitivi e sandwiches: tutto svanito e corretto e sommesso. Timorosi di entrare in quella che sembra un'avviata e ordinata conversazione, sostiamo sulla soglia: rispettosamente ammiriamo, osserviamo. Seduto, anzi arrotolato, su un basso divano è un uomo vestito di flanella grigia, dall'amplissima chioma biondo-rossiccia, che gli scende a ricci e boccoloni fino alla spalla. Ci volge le spalle, e per ora non vediamo altro di lui.
«Ma guarda che gente si portano dietro questi artisti! » dice Longanesi.
«Sarà qualche poeta inglese residente a Roma» suggerisco io «un estremo epigono di Shelley e Keats». Ma dalla piccola folla qualcuno ci ha visti, ci ha indicati ad altri, ne ha ricevuto assensi e consensi, si è distaccato dal gruppo, ci è venuto incontro, ci ha aiutati ad entrare, ad unirci... Accettiamo confusi; ma quando giungiamo nel cerchio magico del canapè, delle poltrone, degli ori, degli arazzi, degli specchi e delle persone, ci accorgiamo che l'avviata e ordinata «conversazione» non esiste: tutti parlano egualmente sommessi, confusi e timidi, a piccoli crocchi di due, amico con amico, dignitario con dignitario, uomo d'affari con uomo d'affari: pochi in francese, meno ancora in inglese. E quell'uomo dalla chioma fluente e inanellata, quell'epigono shelleyano sul canapè, è lui, nient'altro che lui, il possente artista inglese che dobbiamo intervistare, è l'interprete di Se avessi un milione!, dell'Enrico VIII, della Famiglia Barrett, dell'Inferno verde, di Cleopatra; è quello di cui i nostri concittadini, le famigliole domenicali in massa, le coppie dei più tenaci fidanzati, le dattilografe dei più impervi affaristi dicono, uscendo dallo spettacolo: «Ma quello grasso, come lavora bene!»; è Charles Laughton in persona.
Sì, è lui. Ma non è grasso. Tutt'altro. È alto, largo di spalle; ma le braccia e le gambe sono lunghe e sottili, le mani piccole, delicate, nervose. Ripeto: sta accoccolato, arrotolato sul canapè. Forse per umiltà, forse per difesa, o forse perché si trova sperduto: un uomo dell'Ottocento tra una piccola folla di novecentisti. Abito di taglio ampio, giacca lievemente più scura dei pantaloni, grosse scarpe marron, calze blu scuro. Perfetta toeletta Oxford. Con una delle mani piccoline regge il piccolo bicchiere del Martini, nell'altra tiene una piccola tortina di caviale. Il viso è pallido, flaccido; le gote cascanti come la flanella dell'abito; ma le labbra, benché piccole, sono autoritarie, dispettose, arroganti, carnose, sporgenti e mobilissime. L'occhio di colore e di forma indefiniti, ora sfugge e ora gira, inquietissimo sempre. L'occhio di Caino, l'occhio protestante. Un signore, in complesso, a vederlo così più da vicino, seduto su quel canapè, un signore non più shelleyano, ma nettamente dei tempi e del giro di Whistler e Wilde, Beardsley, Harris, James: una figura non indegna (come figura) di quei nomi.
Per anni ho adorato i grandi attori. Aspettavo Zacconi all'angolo del Teatro Balbo, a Torino, e mentre lui camminava pesante ed assorto, avvolto in un peloso cappotto blu dal bavero di velluto, gli correvo accanto, avanti e indietro, e mi cavavo ogni volta il cappello, finché lui s'avvedesse di me e mi restituisse il saluto. Per anni ho adorato i grandi attori. Ora ne diffido sempre, forse troppo. Comunque, nello sguardo inquieto del Laughton mi pareva di poter supporre -senza per questo tornare ai miei entusiasmi ginnasiali - un uomo sensibile al tremore del famoso inizio: He did not wear his scarlet coat.
Con una protervia scusata soltanto dal desiderio di scoprire se Laughton «resistesse» anche a parlargli, se una figura così raffinata e travagliata racchiudesse davvero un'anima religiosa, mi avvicinai e cominciai senz'al-tro la mia intervista.
Non ricordo più come attaccai. Ma, dalle primissi-me frasi, notai il suo inconfondibile accento di Oxford. Parlava con una voce quasi bianca, si fermava a tratti, e strascicava e gonfiava certi dittonghi. Più di rado, ma improvvisamente e stupendamente, passava come in un glissando di Battistini, a pieni vocalizzi baritonali. La sua voce dei film, insomma: ma quasi sempre nei registri sommessi, flautati, bianchi, ironici; rarissimamente in quelli oratori, declamatori, imperiosi, virili.
Era venuto a Roma per preparare più accuratamente il suo prossimo film: I, Claudius, che comincerà a girare con Korda, a Londra, nel prossimo novembre. Mi dice il suo entusiasmo per la sceneggiatura. Vedendomi non troppo convinto (sono scettico, in genere, sui film storici) insiste: «A marvellous script, believe me. (Un copione mirabile, credetemi)». E con un cambiamento fulmineo, con una specie quasi di felinità morale, fissandomi negli occhi: «Vedo che non siete cinematografista, voi. Siete letterato».
«Forse avete ragione. Ma come ve ne siete accorto?».
«Eh, io sono come voi. Non sono un Hollywood-man». (Con quanto disprezzo si rovesciano le sue labbra alla parola Hollywood: non diversamente l'avrebbero pronunziata Whistler e Wilde!). «E se vi dico che quel copione è stupendo, mi dovete credere: non vi parlo così per ragioni commerciali, di pubblicità». Il bello poi si è che forse lo diceva proprio per réclame. Ma ciò non toglie nulla alla sua serietà: ch'era almeno di trovare motivi seri per un fine meno serio. Sapere dove sta di casa la serietà è già un modo di essere seri. (Con questo non vorrei concludere che Hollywood manchi di serietà).
«Figuratevi» continuava «chela sceneggiatura ha tenuto esattamente conto della topografia della Casa di Livia. Oggi, al Palatino, ogni passo che facevamo, io potevo prevederlo. "Qui si sale", dicevo ai miei accompagnatori, e infatti a quel punto si doveva salire; "qui si scende", e infatti si scendeva».
E mi spiega per sommi capi la trama del film. La vita di Claudio è presa più dal punto di vista politico che da quello privato. Claudio è un democratico che, per amore del popolo, per il bene stesso del popolo, diventa un autocrate. Laughton, spiegando, s'infiamma: interessato, mi narra di aver letto Svetonio, e Tacito, e Giovenale. Nella prima parte del film, Claudio non è ancora imperatore e vive sotto la continua minaccia di essere assassinato. E tanta è la sua paura ch'egli ride, scherza continuamente: un uomo di cui il terrore fa un pagliaccio. Nella seconda parte, invece, egli è serio, autoritario, terribile.
«Claudio, come sapete, è balbuziente».
E Laughton si alza, rovescia la testa, chiude gli occhi, sorride dolorosamente, balbetta, balbetta. Osservo che per la prima parte del film, agli effetti comici; questa balbuzie va benone. Ma, e nella seconda?
«Nella seconda? Quando Claudio deve parlare in pubblico, da imperatore, sapete come fa? Ebbene, si raccoglie in se stesso, pensa, pensa».
E qui Laughton si ferma anche lui, allarga le braccia e le incurva come per afferrare un'invisibile botte, sbarra gli occhi nel vuoto e fa una lunga, lunghissima pausa.
Lo guardo, attento. Sono davanti a Claudio che medita sulle sorti dell'Impero Romano. Finalmente il volto di Laughton si illumina, i suoi occhi brillano, le sue labbra si aprono: egli parla, parla: parla senza balbettare, parla fluente, persuasivo, preciso: stabilisce, comanda. Claudio imperatore.
«E la truccatura?».
«Ho molto guardato il busto di Claudio al British Museum. Dalle labbra in su, fine. Il mento, delicato. Cercherò di imitarlo. Neanche con Enrico Vili non avevo somiglianza».
E difatti i tratti del viso di Laughton non hanno nulla dell'Enrico di Holbein. Né il suo corpo è così pingue. Eppure...
Questo trasfigurarsi, questo compiacimento nel trasformarsi e nel deformarsi è dunque una antipatica necessità in tutti i grandi attori? Tutti i grandi attori sono dunque dei gigioni? E non sono attori migliori i semplici, e candidi, ed uguali a se stessi, Gary Cooper, Clarke Cable, John Westwood, e perfino il nostro Ludovico Placci?
Davo la mano, ringraziavo Laughton, mi congedavo: e il dubbio antico, il dubbio della prima volta che non
avevo più salutato Zacconi, incontrandolo all'angolo del teatro, mi riprendeva, intero. Lo sguardo di Laughton ricordava Beardsley, in bene. Ma forse anche lo sguardo di Zacconi ricordava Pietro Cossa.
10 ottobre 1936
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006