Ingrid Thulin è un'attrice svedese, regista, è nata il 27 gennaio 1926 a Sollefteå (Svezia) ed è morta il 7 gennaio 2004 all'età di 77 anni a Stoccolma (Svezia).
Nel cinema svedese, intanto, specie nei film di Bergman, ma poi anche nel cinema internazionale, non ultimo quello italiano che la vide, ormai anziana, imporsi, sotto la guida di Marco Ferreri, in un film del ’90, La casa del sorriso, proprio sugli anziani, a fianco, curiosamente di Dado Ruspoli.
Il suo massimo fulgore, la profondità della sua recitazione, comunque, proprio con Bergman che disse una volta a me - e io li riferii qui su Il Tempo - che Ingrid Thulin sapeva sottoporsi come cera al tocco della sua creatività riuscendo sempre a modellarsi secondo i suoi dettami. Dettami unici, perfetti, come di rado un autore di cinema ha saputo impartire ai suoi interpreti. Nel Volto, per esempio, nel Silenzio, nel terribile e straziato Sussurri e grida, anche se, tra i primi incontri di Bergman con la sua cera, bisogna annoverare sia Il posto delle fragole, dove la parte, comunque, era di modesto spessore, sia Alle soglie della vita che, a metà degli anni Cinquanta, fece già vincere a Ingrid il premio per la migliore attrice quando ancora in Svezia non la si considerava tra le maggiori.
Dopo Bergman, però, e non più in Svezia, altri grandi autori, in altri paesi: Vincente Minnelli con i suoi Quattro cavalieri dell’Apocalisse, Alain Resnais, con La guerra è finita, Luchino Visconti con La caduta degli dei (nella foto), Giuliano Montaldo con L’Agnese va a morire, e persino Tinto Bras con uno dei suoi pochi film sinceramente drammatici Salon Kitty.
Gli occhi fondi, la mimica tesa a volte fino allo spasimo, il senso dello spettacolo radicato intimamente alla sua indole. Non solo, però, come attrice. L’attendeva anche la regia: nel ’78, insieme a due suoi complici di sempre, Erland Josephson e Svan Nykvist, in quel film tutto vibrazioni interiori che fu Noi due una coppia; più tardi, nell’81, da sola, in Cielo spezzato, una lirica rievocazione autobiografica pervasa anche da un soffio di umorismo. Per ritornare ancora una volta con Bergman in Dopo la ripetizione, ormai nelle vesti di una madre.
Adesso, però, al momento del commiato — per me anche doloroso data la lunga amicizia con cui mi ero legato a lei (mi diceva, pensando alla Bergman: Siamo le due Ingrid della tua vita) — per ricordarla meglio e pur citando tutte le sue interpretazioni straordinarie, mi soffermo sul finale di Luci d’inverno, quello in cui Bergman, violando genialmente la sua grammatica cinematografica, chiudeva il film sostando a lungo solo sul suo volto in primo piano. Un monumento alla recitazione, il monumento, tragico, di un’attrice eccelsa.
Da Il Tempo, 9 gennaio 2004
Il volto di Ingrid Thulin sarà sempre associato, non credo soltanto per me, ai film di Ingmar Bergman. Il fascino dei film di Bergman è un fenomeno che non ha riguardato soltanto l’Italia. Mi viene in mente, come primo esempio, Manhattan di Woody Allen, dove la trama è messa in moto proprio da un diverso giudizio sui film di Bergman, all’entusiasmo del personaggio interpretato da Woody Allen fanno da contrappeso le pesanti riserve, molto salotto camp, di quello interpretato da Diane Keaton. La cartina di tornasole è costituita proprio dalla coerenza morale. Quando si tende ad un eccesso d’indulgenza verso se stessi e la propria condizione sociale, quei film non possono piacere, come non piacerebbero qualora si confondesse il rigore con l’integralismo ideologico.
Nell’Italia della fine degli anni Cinquanta, alle soglie del boom e dell’autoconsumo umoristico della commedia all’italiana, i film di Bergman sembravano peraltro venire da un pianeta in cui si parlava un altro linguaggio e si viveva una vita diversa. Alla facile auto assoluzione cattolica, tra ceneri ed usignoli e tra Gramsci e Pasolini, si contrapponeva qualcosa che, venendo dal Nord, invitava all’introspezione, all’auto analisi, alla severità.
Non credo che Bergman avrebbe potuto girare quei film senza Ingrid Thulin. Non avrebbe potuto evocare il gelo e le fredde luci della Svezia, il chiarore uniforme senza splendori degli interni delle abitazioni e delle chiese protestanti, senza il luminoso sorriso, gli occhi profondi, ed i morbidi capelli della sua attrice. Il gelo non può essere compreso senza il calore dell’animo, soprattutto il senso di quel gelo, che non è presunzione di autosufficienza ed orgoglioso isolamento, ma lucida consapevolezza della solitudine umana nell’universo. È dal nostro intimo, dalle nostre personali riserve d’amore e d’umanità – non certo dalla speranza, che forse, interpretando meglio il mito di Pandora, si può rivelare come l’ultimo ed il più pericoloso dei mali che gli Dei hanno inviato sulla terra in odio agli uomini – che può venire la forza non soltanto di sopportare, ma addirittura amare la vita.
Vedo perciò la morte della Thulin, tenuta nascosta per un giorno quasi a sottrarla all’impero della società dei consumi, come un’altra, particolarmente dolorosa, prova della decimazione in atto della generazione che ha preceduto la mia, quella dei miei padri spirituali, alla quale ho sempre invidiato una capacità di serena comprensione di quella che a me sembrava piuttosto una storia, abbastanza insensata, di abbandono passivo alle passioni e di cieco esercizio della violenza e del potere.
Qualcuno ha definito il cinema come morte al lavoro. Credo che oggi possiamo capire in che senso guardando un DVD o una cassetta di uno dei film della Thulin per Bergman:Il posto delle fragole o Il Volto, Luci d’Inverno o Sussurri e grida, Il Silenzio o il più tardo, forse l’ultimo della loro collaborazione, Dopo la prova. La pellicola ce la mostra viva, vitale, capace di emozionarci e di commuoverci, di spingerci alla riflessione (qualcosa di sempre più difficile) o alle lacrime (anche queste si fanno sempre più rare). Ma, contemporaneamente, sappiamo che, dal momento in cui quelle immagini sono state fissate ad oggi, sono trascorsi più di quarant’anni. La morte non è separabile dalla vita, così come il lavoro della morte è visibile anche nella pienezza della vita.
Mi lascio andare a queste considerazioni anche perché mi sembra possano aiutare la comprensione, per la difficile strada dell’ analogia, delle ragioni del fascino straordinario di questa grande attrice moderna, così lontana dall’autoreferenzialità delle dive, ed invece così duttile, così capace di lasciarsi dirigere. Il cinema cui appartiene Ingrid Thulin è lontano dalla macchina hollywoodiana, ha l’ambizione e la capacità di proporsi come prova d’autore, come piena singolarità artistica.
La Thulin non è stata solo l’attrice di Ingmar Bergman, con il quale ha lavorato anche in teatro (Dopo la prova ne è anche una testimonianza). Nel 1969 ha lavorato per il film più melò e più controverso di Luchino Visconti, La caduta degli dei. Il gusto per il melò era forte in lei, non certo riducibile al cliché dell’impegno, al punto di spingerla a recitare I quattro cavalieri dell’ Apocalisse per il maestro incontestato del genere, il grande Vincente Minnelli.
Possiamo ricordare la sua partecipazione al film che forse inventa il genere della catastrofe, Cassandra Crossing e, sempre per testimoniare la sua sperimentalità, la sua disponibilità da grande professionista a misurarsi con tutti i generi cinematografici, la sua parte in Salon Kitty di Tinto Brass. Ma, dei suoi film senza Bergman, quello che ricordo con più piacere è la delicata storia, tra amore e vecchiaia, di resistenza al passare del tempo, raccontata da un autore straordinario, delicato e feroce come Marco Ferreri in La casa del sorriso. C’era in lei, accanto a quello per il cinema di Bergman, l’amore per il cinema italiano, come testimonia anche la sua partecipazione a L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo. Del resto, la Thulin in Italia era sicuramente molto amata, come se appartenesse alla parte migliore della nostra cultura, quella che sa guardare all’Europa oltre i polveroni nazionalisti. Vorrei tanto avere visto, e spero che qualcuno ce li riproponga, i due film diretti da Ingrid Thulin passata per l’occasione dietro la macchina da presa: Noi due, una coppia e Cielo spezzato. Addio, Ingrid Thulin, che lasci dietro di te, come dono all’umanità, la tua immagine allegra, ormai fuori del tempo
Da L’Unità. 8 Gennaio 2004
Era nata in Lapponia e da giovane, come spesso capita a chi nasce da quelle parti, era bellissima e fotogenica al punto che già a 9 anni era su un set, poco dopo, in teatro, dove la scoprì lngmar Bergman, del quale fu - come si dice in questi casi - musa (&) ispiratrice, nonché attrice feticcio in svariati capolavori, a cominciare dal meravigliosamente insostenibile Posto delle fragole. Una bellezza dura e dolce al contempo, tipica delle donne nordiche, che ben presto attirò l’attenzione anche dei nostri registi. Il nome di Ingrid Thulin è infatti legatissimo al cinema italiano, per il quale ha regalato personaggi densi e scavati in opere come il moraviano Agostino di Mauro Bolognini, il decadente La caduta degli dei di Luchino Visconti, il resistenziale L’agnese va a moriredi Giuliano Montaldo (che fa scelse dopo un ripensamento su Simone Signoret e col quale girò, anni dopo, anche Il giorno prima), il provocatorio Salon Kitty di Tinto Brass, l’autunnale La casa del sorriso di Marco Ferreri e persino un film di genere, quella Corta notte delle bambole di vetro di Aldo Lado, oggi considerato di culto. “Enigma Thulin” avevamo intitolato quel servizio, perché «indecifrabile e tormentata», nella carriera (piena di vuoti creativi” e attraversata, altresì, da tre regie finite nel dimenticatoio) e nella vita (due matrimoni e due divorzi). E bisognerebbe aggiungere forte e consapevole, donna moderna in un mondo che ancora non lo era e quindi funzionalissima icona del cinema bergmaniano, dove ha visto la sua sua stagione più alta e straordinaria, grazie ai personaggi interpretati - oltre che nel citato Posto delle fragole- in Alle soglie della vita, Il volto, Luci d’inverno, Il rito, L’ora del lupo, Sussurri e grida, Dopo la prova. Grande attrice lo è stata anche per Alain Resnais (in La guerra è finita, al fianco di Yves Montand), per Mai Zetterling (in Giochi di notte, uno scandalo dell’epoca: 1966), e addirittura per la Hollywood classica, nei Quattro cavalieri dell’Apocalisse di Vincente Minnelli e nel gettonatissimo (in televisione) Cassandra Crossing, accanto a divi più o meno della sua generazione quali Sophia Loren, Burt Lancaster e Richard Harris. A proposito d’attori: tre sono stati i compagni di viaggio ideali nell’ideale cammino esistenziale che, via Ingmar Bergman, ha cercato di approdare a qualche risposta, e cioè Erland Josephson, Max von Sydow e Liv Ullmann. Quattro cavalieri alteri quattro volti dell’anima, quattro sguardi inesorabili che la cinepresa, non dirado, . è stata capace di usare al meglio per noi per capire.
Da Film Tv, 3, 2004
Domanda brutale: a che serve un’attrice? E ancora più brutalmente, visto chi il regista: a cosa serve un’attrice come Ingrid Thulin a uno come Ingmar Bergman? La sfida del cinema moderno è stata quella di andare in cerca dell’interiorità. Welles, Renoir, Rossellini, Mizoguchi e Bergman, tanto per fare alcuni nomi, si pongono due problemi di non facile soluzione: 1 cosa ci sia dentro un personaggio; 2 come faccia il cinema, che può guardare solo la superficie esterna dei corpi, a mostrare quello che dentro a essi si nasconda, si agita, ribolle o giace inerte laggiù, sul fondo oscuro e stagnante. Le risposte alla questione n. 2 sono le più varie. Mizoguchi, per esempio, per cogliere l’interiorità, usa pochi piani sequenza e rari primi piani. Al contrario, Bergman crede, con fede ardente e devastante, che per mostrare il nascosto si debba, obbligatoriamente e ossessivamente, passare per la porta del volto. È sui volti dei suoi attori e soprattutto delle sue attrici che lui spia come in uno specchio e sfoglia come un libro aperto quella che una volta si chiamava anima. Così scrive il regista nel suo libro Immagini, a proposito del personaggio di Thea, interpretato dalla Thulin, in quello straordinario esercizio a porte chiuse che è del 1967: “Thea non ha volto, non conosce la sua età, è indulgente e ha bisogno di piacere. Ha delle aspirazioni improvvise, parla con Dio, gli angeli e i dèmoni, credendo di essere lei stessa una santa, cerca di mostrare le stigmate, è insopportabilmente sensibile e talvolta non può neppure portare vestiti. Non è né costruttiva né distruttiva. È un’antenna parabolica per i misteriosi segnali che provengono dalle stazioni trasmittenti extraterrestri”. Ecco: l’attrice è un’antenna che capta segnali da mondi extraterrestri, mondi celati negli abissi dell’interiorità. La Thea-Thulin del Rito, tragica e ilare, è accusata di oscenità con il marito e l’amante, attori di una compagnia dal nome programmatico, I niente. Il giudice che deve emettere il verdetto muore di infarto assistendo allo spettacolo. Pericolosi il teatro e il cinema, se guardarci c’è il volto enigmatico e oscuramente attraente di Ingrid Thulin. Con Bergman, la Thulin disegna una galleria di personaggi obbligatoriamente tormentati, spesse repulsivi, sempre magnetici. Appare in quello che è il film più famoso (e più bello?) del grande svedese, Il posto delle fragole (1957). È Marianne, la nuora del vecchio medico Tsaak Borg, interpretato dal grande regista Victor Sjöström. Il loro viaggio, verso un futuro di morte e in compagnia di un passato di incubi, si conclude con una serena conversione alla vita.
Un anno dopo, vince a Cannes il premio per l’interpretazione assegnato alle quattro attrici di Alle soglie della vita, sempre di Bergman. Vengono altri film con lui, indagini sul sacro, la vita, il teatro, l’arte: il grottesco Il volto (1958), il gelido Luci d’inverno (1961), lo scandaloso Il silenzio, funerea storia di sorelle peccaminose. Lascia Bergman per Giochi di notte della femminista Zetterling, recita in La guerra è finita di Resnais e nella Caduta degli dei di Visconti, dove è Sofia, ambiziosa e crudele madre assassina. In Italia, per Brass, è maitresse in Salon Kitty, partigiana in L’Agnese va a morire di Montaldo e terremotata friulana in L’attesa di De Poli. Ma siamo già negli anni 80: era tornata da Bergman per un altro capolavoro, Sussurri e grida, film tutto in rosso “come l’interno dell’anima”, con dentro il dolore e la pietà, l’affetto e l’orrore. Dirige tre film, il più conosciuto è Noi due, una coppia, del 1978, affabile rilettura dei temi del Maestro, diretto con i complici bergmaniani Erland Josephson e Sven Nykvist. Dice la Thulin nel film: “Bisogna amare se stessi per poter amare gli altri”. Una stoccatina al Maestro? Il suo volto appassisce. Bergman le chiede ancora di recitare in Dopo la prova, dove è la morta e provocante attrice Rakel che riappare alla figlia e a un regista che mette in scena Il sogno di Strindherg. Infine va ad abitare, con arguta e saggia autoironia, nella Casa del sorriso di Marco Ferreri (1991). È l’ospite di una casa di riposo, anziana per età, non per l’amore, ancora sessualmente attiva: gli altri vecchi, per punizione e scherno, le rubano la dentiera. Lei la sostituisce con un’altra d’aspetto vampiresco! Bel suggerimento provocatorio per vivere una vecchiaia spudoratamente giocosa.
DaFilm Tv, 5 ottobre 2003
Dire Ingrid Thulin è come dire Ingmar Bergman. Sin dal primo film da lei interpretato sotto la direzione del grande regista svedese, Il posto delle fragole del 1957, in cui tratteggiava il personaggio complesso di Marianne, la Thulin si impose non soltanto come una delle più intense attrici del cinema di allora, ma anche come una sorta di emblema dei personaggi femminili di Bergman, per il quale interpretò non pochi film. La sua bellezza al tempo stesso sensuale e ricca di elementi tragici, sfuggente a appassionata, s'incarnava di volta in volta in donne in crisi, insoddisfatte, anche tormentate, ovvero in figure femminili dalla fortissima personalità, incombenti, quasi tiranniche. In Alle soglie della vita (1958) era Cecilia Ellius, in Il volto (1958) Manda Adam, in Luci d'inverno (1961) Marianne, in Il silenzio (1963) Ester, in L'ora del lupo (1968) Veronica Volger, in Il rito (1969) Thea Winkelmann, in Sussurri e grida (1971) Karin, in Dopo la prova (1984) Rakel: otto donne che, insieme alla Marianne del Posto delle fragole, compongono un campionario vario e sfaccettato della sensibilità femminile, del modo d'essere e di comportarsi di una donna volitiva e appassionata in differenti situazioni e luoghi. Ma la Thulin non fu soltanto l'interprete ideale di Bergman. Era nata a Solleftea, in Svezia, il 27 gennaio 1929 e aveva studiato al Teatro Reale Drammatico di Stoccolma. La sua prima affermazione sulle scene fu al Teatro Municipale di Malmö sotto la guida di Bergman che ne era il direttore artistico. Nel frattempo aveva esordito nel cinema, nel 1948, interpretando piccole parti in una quindicina di film diretti da vari registi svedesi, fra cui Gustaf Molander e Arne Mattson, prima di essere diretta da Bergman. Il quale non fu il solo grande regista che ne seppe valorizzare il non comune talento di attrice soprattutto tragica. Basti pensare al personaggio di Marianne, la moglie innamorata di Diego Mora (Yves Montand), in La guerra è finita (1966) di Alain Resnais, o al a quello della baronessa Sophie von Essenbeck in La caduta degli dei (1969) di Luchino Visconti: due figure indimenticabili, nella loro profonda differenza psicologica e comportamentale, che riassumono splendidamente la grande arte della Thulin. La quale diede vita anche ad altri personaggi di forte incisività in un gruppo di film italiani, da E cominciò il viaggio nella vertigine (1974) di Toni Di Gregorio a Salon Kitty (1975) di Tinto Brass, da L'Agnese va a morire (1976) di Giuliano Montaldo al Mosé (1976) di Gianfranco De Bosio, da Il giorno prima (1986) di Montaldo a Cuore di mamma (1987) di Gioia Benelli e soprattutto a La casa del sorriso (1991) di Marco Ferreri, in cui traccia con gusto e una certa autoironia il personaggio di una anziana innamorata. Per tacere della sua presenza nel magniloquente e melodrammatico I quattro cavalieri dell'Apocalisse (1962) di Vincente Minnelli. Ha anche diretto il cortometraggio Hängivelse (1965) e, insieme a Erland Josephson e Sven Nykvist, il lungometraggio Uno e uno (1978), in cui ha interpretato il personaggio di Ylva.
Da La Stampa, 9 gennaio 2004