Intervista all'attore protagonista della serie Of Money and Blood. Su MYmovies ONE.
di Giovanni Bogani
Sessantacinque anni, un premio come miglior attore vinto a Cannes per La legge del mercato nel 2015. Una Coppa Volpi vinta a Venezia, lo scorso settembre, per la sua interpretazione in Noi e loro di Delphine e Muriel Coulin. E ora la serie Of Money and Blood di Xavier Giannoli (su MYmovies ONE). Vincent Lindon ha gli occhi chiari, l’aria stropicciata di chi ne ha vissute tante, una bellezza un tempo sfacciata, e ora più sentimentale, più drammatica. Ha una voce ruvida, le parole corrono, nervose, in lui, mentre ti guarda e sembra quasi sfidarti.
Parla, Vincent Lindon. Del cinema, della sua maniera di affrontare i personaggi. Di quanto vorrebbe girare con un regista italiano – lo ha fatto una sola volta, con Ricky Tognazzi in Vite strozzate – parla del piccolo quaderno che porta sempre con sé, e nel quale appunta parole, piccole frasi, intuizioni, ricordi. Parla dei due Vincent che si scontrano dentro di lui.
A France Odeon a Firenze Lindon ha ricevuto il premio Foglia d’oro Manetti-Battiloni e ha presentato Le choix de Joseph Cross di Gilles Bourdos, remake di Locke di Steven Knight, che nel nuovo film figura come produttore associato. Lindon racconta il suo odio per i social e i nuovi progetti di una carriera formidabile.
Come ha lavorato per Le choix de Joseph Cross, che si doveva necessariamente confrontare con il precedente Locke?
“Ho scelto di non guardare Locke. Non volevo esserne influenzato, ma soprattutto non volevo pensare né ‘è bellissimo, non riuscirò mai a fare qualcosa di simile!’, né ‘non mi piace’ e farmi demoralizzare. Mi sono tuffato nel copione, e nella sfida che il film poneva”.
Una sfida non da poco. Girare tutto un film nell’abitacolo di un’auto.
“Esattamente. È stato come fare una scalata senza ramponi di salvataggio. Mi faceva un’enorme paura. Il cinema, solitamente, è un affare di squadra: lo si fa con una troupe, con il regista, con gli altri attori. Ma in questo caso ero solo, solo dentro un’auto. E tutto è stato filmato ‘in diretta’, cioè gli altri attori, quelli di cui si sente la voce, erano effettivamente in un’auto vicina, e parlavano con me al viva voce”.
Che metodo segue, per interpretare i suoi personaggi? Segue l’istinto o la ragione?
“L’istinto. Devo passare per il corpo, per i movimenti, per la fisicità. Recito vivendo i personaggi. Non li penso, li vivo. Non so come ‘si fa’ a recitare: se lo sapessi, se si trattasse solo di una questione di tecnica, non mi interesserebbe più”.
Il film con cui ha vinto la Coppa Volpi a Venezia, Noi e loro, le dà l’occasione di interpretare un padre che vede il figlio prendere una deriva razzista, fascista, tragica.
“Sì: ma io vivo quella storia, fra un padre e un figlio. Non voglio fare sermoni, non voglio fare politica quando faccio un film. È lo spettatore che deve porsi delle domande, alla fine del film. Non sono io che devo imporgli dei punti di vista”.
Ha poi interpretato la serie Of Money and Blood, diretto da Xavier Giannoli. Che esperienza è stata?
“Un’esperienza titanica. Xavier ha lavorato per quindici mesi sul set, quindici mesi nel corso dei quali sono sempre stato con lui. Il risultato sono dodici ore di puro cinema, anche se è etichettato come ‘serie tv’. Dodici ore sulla più grande truffa finanziaria del secolo. Io sono il giudice che cerca di fare chiarezza in questa vicenda, una sorta di Robin Hood che combatte contro gli intrighi, la manipolazione del denaro, la manipolazione delle coscienze. È una storia complessa, che racconta molto del mondo in cui viviamo”.
Su quali film sta lavorando, al momento?
“Sto per interpretare il nuovo film di Ruben Östlund , il regista di Triangle of Sadness. Il titolo è The Entertainment System Is Down. Sarà tutto ambientato in un aereo, durante un viaggio a lunga percorrenza, nel corso del quale si bloccano tutti i sistemi di ‘intrattenimento’ all’interno dell’aereo: niente più film o videogiochi per nessuno. E la gente, messa a tu per tu con sé stessa, impazzisce”.
Lei, invece, ha scelto di non avere profili social, di non fare parte del “sistema” di comunicazione continua.
“E’ vero, non ho nessun social. Io non voglio sapere come si chiama il tuo gatto, né che cosa hai mangiato ieri, o dove eri tre ore fa. E se ami un albero, non me ne importa niente. E non voglio che tu ti interessi al mio gatto o a che cosa ho mangiato. Siamo arrivati a un paradosso: prima, se incontravi un amico dopo mesi, c’erano mille cose da dirsi. Adesso, ognuno sa già tutto dell’altro. E lo anche tutto il resto del mondo”.
Non ama questa continua informazione?
“Se mi è permesso un ricordo personale, avevo una fidanzata che un giorno mi ha chiamato alle 9 del mattino. Beh, aveva già ‘parlato’ con altre 70 persone prima di me. Io non ho interesse a essere il numero 71”.
Non si sente solo?
“No. E poi dentro di me c’è già affollamento. Ci sono due Vincent, che non sono mai d’accordo l’uno con l’altro. ce n’è uno che pensa di essere un grande attore, e quando i registi non lo chiamano pensa ‘ma sono pazzi!’. E un altro che pensa di essere un impostore, e quando i registi non lo chiamano pensa ‘ecco, vedi? Se ne sono accorti!’…”.
E tutti e due non hanno profili social. Però hanno sempre un piccolo quaderno con sé, non è vero?
“Come lo sa? Sì, è vero. Ha lavorato molto, lei! Sa un sacco di cose…”. E tira fuori dalla tasca un quadernetto nero, con tutte le pagine segnate a penna o a pennarello. Nelle paginette, evidenziate con colori differenti, ci sono spunti, accenni a cose da fare, anche soltanto una parola. All’ultima pagina c’è scritto “entretien”, intervista. E ora Lindon prende una penna, e taccia una riga orizzontale sulla parola. L’intervista è fatta.