Un’opera completa e complessa, travolgente, esagerata. Un trionfo di contaminazioni.
di Pino Farinotti
Iris ha riproposto Il grande Gatsby firmato da Baz Luhrmann nel 2013, protagonista Leonardo DiCaprio. Da sempre dico che niente è più discrezionale del cinema, e così lo stesso film può essere beatificato, oppure demolito secondo prospettive e cultura di chi ci si applica. E poi è un fatto di generi: come fai a dire, in termini assoluti se è più grande Ladri di biciclette (guarda la video recensione) oppure 2001: Odissea nello spazio (guarda la video recensione)? Allora occorrono le solite mediazioni e ragionare sul sincretismo che riguarda il successo di pubblico, di critica, l’estetica, l’interpretazione, l’applicazione della musica, la vedibilità temporale e anche le licenze e contaminazioni. E poi c’è il registro-non-registro più importante, il sortilegio e il mistero che non riesci a decifrare. Che fanno di un film, un’opera diversa e superiore. Ce ne sono, ma non molte. Rivedendo il “Gatsby” di Luhrmann dopo otto anni ho sentito l’impatto di un’opera completa e complessa, travolgente, esagerata, magari bugiarda; è un trionfo di contaminazioni, ma perfette ad aggiungere, non a togliere. Azioni non semplici se pensi che Il grande Gatsby deriva da uno dei massimi capolavori della letteratura americana , scritto da Scott Fitzgerald. Dunque: che film!
Nella mia deformazione delle sintesi e delle classifiche, per quel che può valere (la discrezionalità detta sopra), visto che siamo in tema di podi, lo colloco su quello ideale.
Luhrmann, pur mantenendo la linea drammaturgica del testo, che è perfetta, inserisce con violenza le licenze. Tutto è esasperato, in una sorta di iper-espressione che governa ogni momento. Le ville, le feste, gli alberghi, i costumi, la recitazione, tutte le estetiche, sono sempre esplosive.
In questo Gatsby tutto ingigantisce e assume colori violenti e contro natura: charleston e fox trot accelerano come un’animazione, le bottiglie di champagne sono grandi come umani e i diamanti grandi come il Ritz, le tende ondeggiano come falene giganti, l’orchestra suona su una piattaforma che conterrebbe dieci Madison Square Garden, i camerieri si muovono come danzatori discreti di seconda fila, la pioggia evita di bagnare il trucco e le scarpine delle dame. Ogni carattere e ogni vicenda sono spinti all’estremo.
In apparenza
E poi la musica, anche lì un mix ingovernabile e incomprensibile, in apparenza: quando DiCaprio si rivela, con quel suo sorriso irresistibile “Sono io Gatsby!”. L’orchestra sta suonando la Rapsodia in Blue di Gershwin, perfetta nel contesto temporale. Poi ecco arrivare Beyoncé che canta "Back to Back" di Amy Winehouse; "Love is Blindness" degli U2. E ancora Lana del Rey e Bryan Ferry. Tutti artisti poco pertinenti all’epoca di Gatsby. Eppure c’è chi ha detto che trattasi della più bella colonna sonora di sempre. Contaminazioni, licenza, sincretismo, appunto. E ancora: ipertrofia.