Autore di capolavori come Ultimo tango a Parigi, Piccolo Buddha e Novecento, vinse due Oscar con L'ultimo imperatore. Aveva 77 anni ed era malato da tempo.
di Fabio Secchi Frau
Grandi storie d'amore impossibili. Come quella della giovane Maria Schneider e di un ingrassato Marlon Brando che, su un pavimento di parquet rosso in un appartamento parigino di rue Jules Verne, si ritrovano sfiniti dopo aver fatto sesso in Ultimo tango a Parigi. Lui ha ancora l'impermeabile addosso, lei non indossa più le mutandine e guarda il soffitto avvolta nella sua pelliccia bianca. O come quella della civettuola e superficiale Stefania Sandrelli che non sa, non vede, non capisce, che il marito Jean-Louis Trintignant, sempre con lo sguardo basso, sempre così riservato, è forse la peggiore incarnazione della banalità del Male e dell'ambizione al potere in Il conformista. Ma c'è anche quella illecita, carnale e calda di John Malkovich che possiede il corpo ambrato di Amina Annabi in Il tè nel deserto, nella luce soffusa di un'Africa mortale.
Per tingere storie del genere ci vuole un mito del cinema. Per affrescarle sullo sfondo spesso contradditorio, ma non meno affascinante, del comunismo (italiano, francese, cinese) ci voleva lui: Bernardo Bertolucci. L'unico che poteva descrivere un mondo ancora ricco di sorprese. Un regista in nero, più che in rosso, vista la drammaticità delle storie che narra, capace di evocare con la stessa forza angeli e demoni, tenerezza e terrore.