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Bellocchio, che peccato

Un buon film che non resiste a un'ultima appendice di memoria e di tristezza.
di Pino Farinotti

Fai bei sogni

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domenica 20 novembre 2016 - Focus

Una premessa: chi mi conosce è anche al corrente della mia didascalia riferita a Marco Bellocchio: una delle rare prove dell'esistenza in vita del cinema italiano. Come Diogene anch'io da tanto tempo cerco qualcosa, un film italiano da cinque stelle, un capolavoro. Vedendo Fai bei sogni mi è parso, finalmente, di aver concluso la ricerca. Fino alla prima ora. Il film è tratto dal romanzo di Massimo Gramellini che ha comunque una struttura più articolata, sulla quale il regista e gli autori hanno dovuto intervenire, a togliere, con delle licenze più che legittime per il cinema. Dunque mi riferisco a Bellocchio, non a Gramellini. Massimo ha nove anni, nella prima sequenza balla un rock con la mamma, si divertono, sono amici, si vogliono bene. Salta all'occhio. Ma si intravvede, negli occhi della mamma, qualcosa di imperfetto, magari disperato. Quando muore si viene a sapere che era malata, condannata. La versione della morte, il suicidio, viene taciuto a Massimo fino all'età adulta. Il bambino, poi adolescente, poi ragazzo, poi uomo, si porterà dietro per tutta la vita quel dolore con le sue conseguenze. Anche perché: rapporto col padre, freddissimo, con tutti gli altri, difficile. Ci sono momenti di cinema alto. Sempre nel quadro, conosciuto, dell'attitudine del regista, dove i soggetti sono sempre tristi e oppressi. Ma si sa, è la sua storica identità. Affidano a un prete l'incarico di dare la notizia al bambino. "La tua mamma, adesso è in paradiso, ma ti sarà sempre vicina". Ma Massimo non ci sta, protesta, parte persino uno schiaffo. Il prete recita "L'eterno riposo dona a lei Signore...". Ti si blocca lo stomaco. Emerge lo scarso amore di Bellocchio per la categoria. Quando la cassa della mamma è stata chiusa e viene rimossa. Il piccolo urla "mamma, ti portano via" è disperato, "vieni fuori mamma, ti portano via".

Elisa costringe Massimo in mezzo a tutti, lui non sa ballare, ma lei lo guida, lui comincia a seguire, qualche passo, sempre più disinvolto, poi si scatena, da solo, in mezzo a tutti che lo applaudono. È entrato nella vita. Sarà ... come gli altri. Persino amato. Eccolo il finale perfetto. Anche estetico, da un ballo a un ballo. Il cerchio si è chiuso. Invece no, Bellocchio non resiste a un'ultima appendice di memoria e di tristezza.
Pino Farinotti

Ci sono inserti che definiscono lo sviluppo temporale. Che cosa meglio della televisione a cadenzare la "cultura" nazionale. Mike Bongiorno fa i suoi quiz nei decenni, Modugno canta -con la mamma- "Resta cun me". La Carrà balla la sigla di Canzonissima, siamo nel 1970. Sono stacchi gradevoli, alleggerimento del dramma. E poi c'è il Torino, la squadra, di cui il papà è tifoso. A Superga si commemora la tragedia del 1949. Grande cinema è l'inserto in Bosnia dove Massimo, giornalista ormai affermato, si trova proprio nel mezzo della guerra. Il momento apicale della sua carriera è quando risponde, dal suo quotidiano, alla lettera di un lettore che odia la madre. Dolore, memoria e sentimento. Dunque tutto bene, nel racconto, negli equilibri, nel linguaggio: e poi pochissimi sanno muovere gli attori come Bellocchio. Una citazione per Mastandrea, straordinario. A quel punto, e dico che un po' lo temevo, salta fuori Roberto Herlitzka, con la sua tristezza inquietante e metafisica. È un insegnante prete che comincia a raccontare di dio, dell'al di là e della fede. Ma perché? Tutta roba che Bellocchio ha già detto e ridetto, ormai conosciuta e superflua. Neppure utile alla formazione del ragazzo, già compromesso da altre esperienze e altri dolori.


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