Il regista di Veteran è la sintesi di tutto ciò che è azione, violenza e pessimismo sulla natura umana in Corea.
di Emanuele Sacchi
Il cinema di genere si serve di mezzi anche molto semplici per veicolare il proprio messaggio, di immagini o gesti inverosimili che lascino il segno e conducano all'emulazione l'adolescente testosteronico che è in noi. Quando il mix è riuscito, il coinvolgimento è irresistibile. A cavallo dei due millenni il cinema sudcoreano ha saputo creare e poi consolidare un cinema action che includesse il meglio dei suoi prototipi - statunitense e hongkonghese - con un inconfondibile tocco "nazionale".
L'indiscusso capofila, che ha raffigurato un mondo di duri, eroici o anti-eroici, dove le vie di fatto sono un male necessario per raddrizzare i torti, è Ryoo Seung-wan.
Si tratti di noir o di thriller, di polizieschi o di spy stories, l'estetica e l'etica di Ryoo sono sempre riconoscibili, anche nei topoi più elementari. Impensabile un film di Ryoo Seung-wan senza almeno una scena di schiaffeggio ripetuto, di intensità crescente, per ammonire o punire qualcuno; o senza una bottiglia rotta in testa, quando le cose si mettono davvero male e il grido "Shi-bal gesekiaaa!!!" (più o meno "Fottiti, figlio di puttana" la traduzione) accompagna sanguinose rese dei conti.
Per anni tacciato a sproposito di "tarantinismo", Ryoo Seung-wan è la sintesi di tutto ciò che è azione, violenza e pessimismo sulla natura umana in quel di Corea.
Quasi un Don Siegel del 38° parallelo, se sono concesse le debite proporzioni del caso (ma sarà solo il futuro a dirci della grandezza del lascito di Ryoo e solo allora si faranno i conti).
Complice un'adolescenza trascorsa nutrendosi di heroic bloodshed di Hong Kong e dei classici di Shaw Brothers e Jackie Chan, tra una permanenza in una rigida scuola militare e lezioni di taekwondo, l'intento del Ryoo regista (Seung-wan è anche attore, così come il fratello Seung-Bum, spesso protagonista dei suoi film) è da subito quello di alzare l'asticella della violenza. Il debutto di Die Bad tiene fede al proposito: spietato e affilato come un diamante, il no future non aveva mai raggiunto tali livelli di nichilismo prima di allora.
No Blood No Tears del 2002 non è da meno, con pugni e calci inflitti anche a membri del gentil sesso, violando ogni tabù di brutalità come non capitava dal caffé bollente de Il grande caldo (Fritz Lang, 1953).
Dopo la parentesi marzial-fantasy di Arahan, con Crying Fist e un monumentale Choi Min-sik il nostro torna a terreni familiari, un universo di colpi da ko e cadute rovinose, di demoni interiori inestirpabili ed esistenze tragiche annullate da pugni ottundenti.
Instancabile, Ryoo torna sul set l'anno successivo, con un'opera in cui cerca di convogliare tutti i temi dominanti della propria poetica: amicizia e tradimento, arti marziali, cameratismo e bullismo, disillusione del presente, immortalità dell'eroismo e del sacrificio.
In The City of Violence non tutto funziona come dovrebbe e il film passerà in sordina, fuori concorso, al Lido di Venezia, ma la sua importanza nella filmografia di Ryoo è descritta adeguatamente dalle sue stesse parole: "Un action nello stile di Jackie Chan con personaggi da film di Chang Cheh, ambientato in un mondo simile a quello di Chinatown". Il successo non è quello atteso e Ryoo si allontana dalla macchina da presa per qualche anno.
Il suo ritorno, nel 2010, è con un B-movie di razza, che finirà per incassare più dei predecessori: The Unjust è un poliziesco solido e spietato, disamina di un sistema malato in cui un capitano di polizia e un procuratore si sfidano a colpi di scandali aprendo i rispettivi armadi, pieni zeppi di scheletri.
Ma il suo capolavoro coincide con l'immersione in un nuovo sottogenere, più che mai sentito in una nazione divisa in due. The Berlin File, un'ambiziosa spy-story su agenti nordcoreani traditi, girata in Europa con mezzi cospicui, sarà uno dei maggiori successi di sempre per il cinema sudcoreano.
Più di 40 milioni di dollari incassati, oltre al plauso della critica, non sempre generosa con Ryoo. Anziché riposare sugli allori, il regista torna presto in azione con Veteran. Il terreno è quello familiare del dipartimento di polizia, ma mai come qui l'accento è posto sulle differenze sociali in seno al Paese e sul senso di onnipotenza che caratterizza l'oligarchia economica, ormai al di sopra della legge. Anche la crisi economica e i suoi effetti nefasti passano così al vaglio del cinema di lotta firmato Ryoo Seung-wan.