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Ultimi caduti di guerra

Il cinema bellico americano e Fury.
di Roy Menarini

In foto un'immagine del film Fury di David Ayer.

domenica 7 giugno 2015 - Approfondimenti

Ogni volta che il cinema americano parla di guerra, dice qualcosa della sua storia. In particolare, l'immagine del nemico sembra il terreno più efficace da indagare. Proprio quest'anno, Clint Eastwood ha dato del contendente irakeno un'immagine feroce e belluina, in American Sniper, promuovendolo però al contempo a nemico legittimo di una guerra violenta e di dubbia chiarezza.
L'immagine del nemico ha sempre seguito (talvolta plasmato) l'opinione pubblica statunitense, tradizionalmente scissa tra un approccio isolazionista ai problemi internazionali, una dimensione interventista e una sempre più flebile componente pacifista. Quando, come in Fury, viene rispolverata la Seconda Guerra mondiale (e in particolare la violenta battaglia in Germania negli ultimi giorni del nazismo), le antenne si drizzano ancora più velocemente. Per esempio, il war film "durante" il secondo conflitto aveva necessità di convincere il pubblico della giustezza dell'intervento, ma già nel cinema di guerra degli anni Cinquanta una revisione non esclusivamente patriottica dell'evento bellico portava a compatire la disperata, mortuaria carneficina cui erano costretti giovanissimi soldati tedeschi o giapponesi.
Dopo la quasi scomparsa del genere negli anni Sessanta/Settanta (se si eccettuano i trasfigurati e visionari "Ardenne '44" di Pollack e "La croce di ferro" di Peckinpah) , e dopo la sbornia del "Vietnam movie", ecco arrivare i film dei "figli" del conflitto, decisi a fare i conti con la storia dei padri. Da questo punto di vista gli autori della New Hollywood scelgono l'America clintoniana degli anni Novanta per imporre una rispettosa e addolorata riflessione sui sacrifici compiuti dalla nazione per garantire la libertà al mondo - e non si possono che citare Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa, con Spielberg in particolare che recupera l'icona del tedesco sadico e ghignante, ritratto senza alcuna compassione.
In Fury, dopo che Tarantino aveva imposto la revisione selvaggia, cinefila e provocatoria di Bastardi senza gloria, si torna a quello che potremmo chiamare "realismo nazionalista", già presente in Spielberg ma forse un po' più spietato. La piega nascosta degli ultimi caduti di guerra, delle battaglie senza più alcun residuo di umanità tra americani e nazisti nella Germania in rotta, crea una situazione di violenza esasperata, che David Ayer mette in scena usando il carrarmato come testa d'ariete per sfondare i dubbi dello spettatore.
I nemici vengono uccisi tutti, se possibile, e giustiziati al momento, anche solo per spiegare che cosa è la guerra a un ragazzino esitante. L'azione distruttiva ma organizzata diventa, in questo caso, un progetto di cinema e una lettura storica, che bene o male ricorda quella dei Novanta, riassumibile nel vecchio detto: era un lavoro sporco, ma qualcuno doveva pur farlo. Non tocca ai critici, forse, dire se va bene così e se le cose fossero un po' più complicate di come ce le racconta Ayer. Il quale, comunque, ha messo in piedi un film forte e dignitoso, lasciando anche spazio, nella paradossale conclusione, a un gesto di carità imprevista.

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