Si sogna spesso qualcosa di perfetto. Un concerto, una partita, persino la tempesta. Per i cinefili, l'incipit di un film. L'ingresso nella storia. La prima scena. Quando si trova questa perfezione, è una festa. Ad esempio: l'inizio di À bout portant (2010) di Fred Cavayé è esemplare. Schermo nerissimo, due/tre scritte di prammatica (la produzione) e improvvisamente una porta che si spalanca sulla faccia dello spettatore mentre il protagonista ferito, Roschdy Zem, si catapulta giù da una scala metallica, inseguito da due tizi con facce patibolari e pistola spianata. Serve altro? No. Almeno in questo campo da gioco, il poliziesco francese, genere noir per eccellenza, l'unico rimasto a non avere paura degli eccessi narrativi e dell'essenza espressiva dopo l'eclisse dell'action americano. Cavayé, classe 1967, un passato come fotografo di moda, appartiene alla generazione 2.0 dei polaristes (da Polar), insieme ad altri registi come Erik Valette, Philippe Haïm, Frédéric Schoendoerffer... Forse proprio Fred è quello di maggior talento, nonostante due titoli e mezzo non bastino per scrivere la parola fine alla sua personale storia "d'autore". Ci proviamo. À bout portant significa "a bruciapelo", in Italia non è mai uscito in sala ma Rai 4 l'ha trasmesso in anteprima un paio di mesi fa. Una volta film così sarebbero passati in prima serata sulla tv generalista ma ormai il pubblico Rai-Mediaset è troppo anestetizzato per poter sopportare la brutalità di prodotti non televisivi, dove la violenza e la notte irrompono nel mondo delle persone normali con lo stesso sorprendente clangore della porta che sbatte nell'incipit. Ecco la chiave: l'uomo ordinario catapultato in una situazione non sua. Con una caratteristica in più rispetto a simili figure narrative rese grandi dai maestri, vedi Hitchcock. Per sopravvivere al milieu, gli uomini di Cavayé devono perdere l'innocenza. Scoprire talenti primordiali. Il mite infermiere Gilles Lellouche in À bout portant per salvare la propria fidanzata rapita dai cattivi (in realtà sbirri corrotti al soldo del mefistofelico e affascinante Gérard Lanvin) deve scappare, rapire, rapinare. Ma il capolavoro è tutto nel film precedente, Pour Elle (2008, in Italia uscito in dvd con il titolo internazionale Anything For Her) dove il professore di francese Vincent Lindon, per far evadere la moglie Diane Kruger ingiustamente condannata per omicidio, arriva a uccidere. Il tema è: ce l'abbiamo dentro questa oscurità. E secondo la teoria della crepa, qualche volta esce fuori. «Mais c'est du Simenon!» esclamerà qualcuno. E infatti Lindon proprio la letteratura del grande belga spiega in classe, e la via verso la salvezza della famiglia (ma il clima resta opprimente anche nell'happy end) sul finale è l'aeroporto di Liegi. Nulla di tutto ciò resta nell'inutile remake americano The Next Three Days (2010), realizzato da Paul Haggis, regista-sceneggiatore sulla cui sopravvalutazione andrebbe scritta una contro-politica degli autori.

A Cavayé piacciono i toni duri, sguazza nel milieu delle storie criminali, sceglie facce e attori che non si dimenticano. Ma nella sua pur breve filmografia spicca la partecipazione a una commedia "virile" come Gli infedeli (dal 4 maggio nelle sale), film corale di cui dirige il prologo. Ancora Gilles Lellouche con la star Jean Dujardin famelici di vita notturna a interrogarsi sull'impossibilità di rimanere fedeli, per maschiacci quarantenni infoiati come loro. Finirà come non possiamo dire per evitare spoiler, ma diciamo che del canovaccio non esattamente raffinato è incolpevole il Nostro, qui al servizio dell'amico Lellouche e di Dujardin, mattatori e anche autori della sceneggiatura.