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Venezia: qualcosa di buono

Una Mostra all'insegna della letteratura e del premio a Bellocchio.
di Pino Farinotti


lunedì 12 settembre 2011 - Focus

Si è detto e si dirà molto. A caldo valgono le percezioni, più avanti, varrà la prospettiva e così: sapremo. Sapremo se certi film certamente buoni, rimarranno nella memoria della gente e nelle classifiche, della qualità e del box office.
Rilevo, nel quadro generale, almeno due aspetti che valgono. La letteratura ospitata dalla Mostra, e il Leone alla carriera a Marco Bellocchio. Venezia ha accolto tre giganti. Diversissimi ma giganti. John Le Carré, Emily Brontë e Johann Wolfgang Goethe. I titoli sono "La talpa", "Cime tempestose" e "Faust". Classici assoluti, nei loro generi. Le Carré è probabilmente il più grande giallista vivente, anche se "giallista" è riduttivo. È semplicemente un grande scrittore. Il cinema ha quasi abusato di lui e ne ha tratto spettacolo e qualità. Bastano alcuni titoli. Il primo ad essere trasposto "La spia che venne dal freddo", ha creato un genere. E poi tutti gli altri, che hanno lasciato segni anche profondi. Fra questi: "Chiamata per il morto, "La tamburina", "La casa Russia", "Il sarto di Panama", "The Constant Gardener". Thomas Alfredson, il regista che ha affrontato Le Carré ha raccolto consensi generali. Anche quelli di MYmovies. È vero, il romanzo offre assist importanti. Se devi dirigerlo parti da una piattaforma privilegiata. Anche la regista Andrea Arnold, che ha firmato Wuthering Heights (Cime tempestose) ha ottenuto volti alti. Siamo dalla parte delle donne. Le sorelle Brontë, Emily e Charlotte erano eroine delle grandi storie romantiche. Sentimento forte vicino al melò. Amori contrastati fra ricchi e poveri, la lady e la dama di compagnia, il figlio spurio col suo segreto, la signora di campagna e le sue patologie. E poi il mare del nord che si rifrange sulle scogliere, la brughiera come sortilegio, con le sue ombre inquietanti. È una letteratura esclusiva, può essere solo inglese. "Cime tempestose" ha avuto edizioni nobili dal cinema. Comanda quella del '39, di William Wyler, con Laurence Olivier e Merle Oberon.
Anche Buñuel aveva ripreso quella storia, nel '53. Un'altra edizione dignitosa, inglese, la si deve a Robert Fuest. Il ruolo di Heathcliff, il protagonista, era affidato a Timothy Dalton.
Heathcliff non è solo un nome, è un must. Evoca quella cultura, la notte e le paure, le trasgressioni e il visionario, la tempesta e la tragedia (del resto Heathcliff significa, letterale, brughiera e scogliera.)

Simbolo
"Faust" è molto più che un personaggio, è un mondo, un simbolo imprescindibile della cultura. Rappresenta uno dei miti di fondo, antropologici dell'uomo: l'intenzione di sorpassare la propria natura, di immaginare vite e paesi dall'altra parte, di non essere secondi neppure al trascendente, di cercare di avvicinarsi a lui, a costo di pagare, di pagare tutto. Sembra che il primo modello fosse un tedesco, un medico, tale Georg Faust, mago e alchimista, definito dai contemporanei un mezzo matto, vissuto fra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento. Ma fu un inglese, Christopher Marlowe, a intuire le abnormi possibilità, in chiave di metafora di un personaggio come quello. E fu lui, talentoso, e contemporaneo di Shakespeare, a scrivere il primo Faust, attribuendogli il codice primario, che può essere definito, in semplicità, "vendere l'anima al diavolo". Il testimone passò, quasi due secoli dopo a Goethe, tanto coinvolto da quel modello da esserne quasi paralizzato, se è vero che ci mise sessant'anni a completare il suo "Faust". Poi è toccata a un altro gigante, la rivisitazione, Thomas Mann. Il cinema naturalmente ha toccato "Faust", anche se è un ispiratore complesso, meno cinematografico della... brughiera. Rilevo il classico "muto" di Murnau e Il Dottor Faust di Richard Burton, che ritenne quel testo degno della sua unica regia. Alexander Sokurov, che ha diretto il Faust "veneziano", ha addirittura vinto il Leone d'oro.

Passaporto
E poi Marco Bellocchio. Lo considero insieme a Nanni Moretti, l'unico cineasta "generale" al quale timbrerei il passaporto: non provinciale, non convenzionale, insomma ... non (solo) italiano. Uomo colto e "applicato", è uno dei pochi autori titolare della doppia identità, immagine e scrittura. Significa la capacità di rappresentare contenuti importanti attraverso un'estetica riconoscibile ed esclusiva. Quando a 26 anni, nel '65 firmò il suo primo film I pugni in tasca, Bellocchio aveva già molto compreso e assunto, a cominciare dai disagi e dalle insoddisfazioni compresse e implose che sarebbero tracimate nel sessantotto. Era la storia di un ragazzo, oppresso da famiglia orrendamente borghese e incapace della minima evoluzione, che si ribella con violenza. Il titolo ebbe un immediato, meritato riconoscimento: l'invito alla mostra di Venezia. Tanto giovane, in un momento così ardente, il regista piacentino era già un nome importante del cinema. Da allora Bellocchio ha lavorato con rigore e attenzione alle fasi del Paese, alla politica, al sociale, a ciò che mancava e andava trovato, a ciò per cui valeva lottare anche sapendo che la lotta si sarebbe rivelata semplicemente un principio, un'indicazione senza approdo e senza felicità. Anni '70, '80, '90 e così via. E sempre l'autore a proporsi con intelligenza e cultura. Bellocchio ha sempre coltivato l'impegno, magari intenso, ma non la militanza, magari dolosa. Ha odiato, e odia, la borghesia e la Chiesa, ma gli argomenti che porta sono di un autore che intende, con dolore, dare indicazioni mai statiche, mai solo ideologiche, mai compromesse da un pregiudizio, di un autore sempre attento alla fase morale e anche capace di un ripensamento. E onesto nella sua confessione. Bellocchio è sempre stato, è tuttora, un affidabile garante di solidità intellettuale. Fa testo anche se non sei d'accordo con lui.

Sì, davvero due cose buone da Venezia.

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