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La morte di Arthur Penn

Addio al regista dell'evoluzione.
di Pino Farinotti

Uno della generazione di Hollywood
Arthur Penn 27 settembre 1922, Filadelfia (Pennsylvania - USA) - 28 Settembre 2010, New York City (New York - USA).

giovedì 30 settembre 2010 - Celebrities

Uno della generazione di Hollywood
Lo definirei grande regista dell'evoluzione, un nome fra i primi da ascrivere ai libri e alla storia. Fa parte della generazione del cambiamento, di Hollywood. Dopo i maestri, giganti, eroi iniziali - parlo di Ford, Wyler, De Mille, Kazan, Welles, Mann, degli acquisiti Wilder, e Curtiz e Zinneman, e di altri naturalmente- il testimone passò al gruppo successivo. Gente che aveva elaborato i maestri, ma aveva anche capito che il cinema doveva cambiare, così com'era cambiata la società, la vita e la Storia. C'era stata la guerra, la depressione, stava arrivando il Vietnam e la questione razziale. I compagni di viaggio di Penn si chiamano Ray, Brooks, Aldrich, Kramer, Kubrick, Altman. Ce ne sono altri certo. Autori non da abbraccio di lui e di lei alla fine della storia risolta felicemente. Era gente nata intorno agli anni venti, che aveva visto la guerra, alcuni l'avevano anche fatta. E furono fortunati perché contemporaneamente si affermavano i loro omologhi, e coetanei, dall'altra parte dell'obiettivo: Brando, Newman, Clift, Dean. Davvero non c'era più voglia di lieto fine. Per il suo pronunciamento nuovo Penn scelse un genere che si prestava in assoluto ad essere rivisitato: il western. Le storie dell'Ovest erano il contenitore superclassico dell'America come la voleva il cinema. Il western non aveva niente a che fare con il west. Gli eroi del cinema, il mito della frontiera erano manifesti felici ed epici. Ma la gente del west era tutt'altro, emigrati che arrivavano da tutti i paesi, spesso una grande feccia con qualcuno che lo era un po' di meno. Penn esordisce con Furia Selvaggia, con Paul Newman (appunto) che fa Billy the Kid, un eroe assassino. E il regista fa prevalere la seconda personalità, quella più reale. C'è un altro grande western, che viene indicato come un titolo guida del genere nella seconda età, quella della Storia e non della leggenda. È il Piccolo grande uomo, con Dustin Hoffman. Anche questa è un'indicazione di generazioni e di contenuti: Hoffman, bruttino e piccolo a fronte di un Gary Cooper dell'era precedente.
Nel film il magnifico generale Custer –beatificato "prima" da Errol Flynn- non è un eroe ma un assassino. Il mito contro la Storia. E molti dicono che la chiave giusta sia quella di Penn. Il regista sapeva ribaltare, rileggere le vicende del proprio Paese, ma con passione buona e con nostalgia, non con l'odio "suicida" di un Altman o di uno Stone. Un altro genere che gli dava un'ottima possibilità è il poliziesco. Se si deve scegliere un solo titolo a ricordare il regista emerge il celebre Gangster Story, la vicenda della coppia Bonnie&Clide. Rapinatori romantici un po' alla Billy the Kid. Guardati con simpatia dolorosa e fatti morire con violenza iperrealista. Ma c'è un poliziesco ancora più intenso, una elaborazione dell'eterno Marlowe. Gene Hackman, uno dei preferiti di Penn, è un detective trasandato e dolente, deve affrontare il mondo cattivo e nemico, è sempre sul punto di soccombere ma tiene duro. Non è un eroe senza macchia, perché nessuno può esserlo, ma alla fine riesce ad essere un uomo onesto, battuto ma buono per un altro impegno. E comunque l'unica cosa da fare è non cedere. Un riflesso che Penn ha trasferito a quasi tutte le sue storie, di gente giovane o matura. Un'indicazione che ha sublimato in Anna dei miracoli, dove una ragazza cieca e sordomuta, diventata cattiva e aggressiva, viene curata da una terapeuta eroica. Una realtà impervia, quasi impossibile, ma da affrontare, anche se la soluzione sembra non esistere.
Ecco, questo è stato Arthur Penn, col suo cinema.

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